Il vecchio adagio recita: la storia è scritta dai vincitori. Se si vuol dire che il corso degli eventi è determinato molto spesso da chi, nelle varie dinamiche (politiche, militari, sociali etc.), fa prevalere la sua posizione, la frase ha una sua validità, anche se da ciò non deriva di necessità la bontà stessa degli sviluppi.
Ma la frase proverbiale ha un significato deteriore: chi vince ha il diritto di raccontare la storia dalla sua prospettiva. Non si tratta più dei fatti in sé ma della storiografia, dello studio e racconto del passato. La raccolta di documenti, la loro lettura dovrebbero però portare a riscoprire la realtà, avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti, per condurre poi riflessioni critiche al riguardo, e trasmettere questa attitudine nella didattica. Il principio guida dovrebbe essere la verità e la sua ricerca, ma per il presunto vincitore tutto ciò decade, prevale l’auto-esaltazione giustificante.
L’attuale governo di destra, nella lotta per l’egemonia culturale e una nuova narrazione del Paese, ha dimostrato più volte di non essere estraneo a tale atteggiamento, con formule smaccatamente tendenziose come il ben noto «Dante fondatore del pensiero di destra in Italia». Il dibattito d’inizio ottobre è stato occupato dal triste caso del libro di Italo Bocchino, Perché l’Italia è di destra. Contro le bugie della sinistra (Solferino, 2024), lavoro che vorrebbe chiarire alcuni punti della storia del Paese, ma che fin dal titolo rivela la natura intrinsecamente faziosa, propria della propaganda di partito e totalmente estranea ad ogni forma di riflessione storica seria. Persone ben più competenti di me sono intervenute nel merito del testo, in particolare la storica e docente universitaria Michela Ponzani su Domani, e nulla io avrei da aggiungere per sottolineare le manipolazioni dei fatti, le omissioni programmatiche accompagnate a sottolineature subdole, il tutto per avallare una chiave di lettura che distorce la realtà storica. L’autore cerca di forzare l’atteggiamento politico-culturale complessivo dell’Italia repubblicana, come se la destra avesse fatto la storia del Paese sempre (mantra odierno), e lascia così nel dimenticatoio figure ed eventi che hanno veramente segnato le sorti o le aspirazioni del Paese: Matteotti, Gobetti, Gramsci, Terracini, Togliatti, Berlinguer e Moro, quando l’ala sinistra della Dc comprese la necessità di recuperare l’unità nazionale del periodo costituente e collaborare con il Pci (processo interrotto tragicamente, per ingerenze esterne, ma che stava per fare veramente la storia).
Ciò che più preoccupa in questa vicenda è l’aggancio di interventi di questo tipo al mondo della scuola, apertamente cercato dalla destra, in particolare con le parole di Ignazio La Russa e Arianna Meloni durante la presentazione del volume e l’auspicio per una sua adozione nelle aule. E scatta un importante campanello d’allarme quando i politici – anche fosse con presunta leggerezza – avanzano proposte di ingerenza sulla scelta dei libri di testo. Certo, questi oggetti hanno bisogno di revisioni e attente riflessioni, anche perché su alcuni fenomeni – fra i tanti ad esempio la Reconquista, più in generale i rapporti fra Europa e mondo islamico, il colonialismo, la questione del confine orientale e delle migrazioni interne all’Europa dopo il secondo conflitto mondiale – si sono fissate letture ormai superate e servirebbero aggiornamenti, per sfatare falsi miti e pregiudizi e trasmettere maggior consapevolezza ai ragazzi. Ma questi interventi dovranno essere funzionali al mondo plurale che viviamo, e si spera potranno esser frutto di un più ampio dibattito culturale, con gli studiosi protagonisti insieme ai docenti, e rigorosamente in assenza di ministro e altri politici (spesso impreparati). Altre forme di intervento sono invece insidiose. Già Victor Klemperer, nel suo Taccuino di un filologo, osservava in presa diretta la ‘politica culturale’ nazista, fatta di riscrittura del passato e diffusione di un’ideologia distorta per propaganda e manipolazione, e annotava come ulteriore prova a sostegno delle sue analisi l’azione di controllo sulla scuola, e la produzione di libri di testo grati al regime. Anche senza guardare indietro nel tempo, e per avvicinarci ad alleati di lungo corso di chi oggi sta al potere, basta pensare al caso ungherese, dove Orbán ha da tempo stretto una morsa attorno a scuola e università, modificando i programmi in senso nazionalistico, reprimendo voci di dissenso, e imponendo libri di testo approvati dal governo, con la scusa imbonitrice della gratuità (si veda Guido Crainz, Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia, Donzelli 2022). E non guasta ricordare che è la stessa situazione della Russia putiniana…
Il fatto non è però isolato, da un po’ di tempo questo governo mostra un atteggiamento ‘interventista’ sulla scuola, non rispettata nel suo valore ma vista come uno dei luoghi da cui far partire la diffusione della nuova narrazione del Paese (non nel rispetto della realtà dei fatti, ma per rivalsa del discendente missino). Si reprime il dissenso degli studenti, e si interviene sui programmi. Le nuove linee guida per l’Educazione Civica, prima di tutto, bocciate dallo stesso Consiglio superiore della pubblica istruzione, ignorato però dal governo. E così la scuola-Valditara ha fra i suoi obbiettivi: la valorizzazione dell’amor di patria e la centralità dell’identità italiana, criterio guida inappropriato proposto anche per l’integrazione (che dovrebbe invece basarsi su reciprocità di dialogo); incentivare lo spirito di impresa, la cultura della proprietà e del privato (in barba ai valori di uno stato sociale promossi dalla Costituzione). Si veda su questi temi, nell’ultimo cartaceo di Left, l’articolo “Il ministero del demerito” di Donatella Coccoli. Valditara vuole poi modificare anche i programmi, in particolare quello di storia, per ‘insegnare l’italianità’ (nazionalismo, chiusura dei propri orizzonti, l’opposto di un’autentica scuola), alludendo al titolo del libro-guida di Galli della Loggia preso a riferimento: promozione dell’identità italiana attraverso storia e materie umanistiche, come chiave di volta nella comprensione del mondo che ci circonda.
Qualcuno dirà, li hanno votati e fanno ciò che vogliono, perché è ciò che vogliono gli elettori. Primo, non è detto che sia così, ma poi, anche fosse, la politica vera non è un assecondare cieco, per accaparrarsi voti, in barba ad ogni principio: la politica vera, così come la didattica, è anche saper guidare, dare strumenti per riflettere a pieno sui problemi, non alimentarli e basta. Nessuno mette in dubbio l’importanza di conoscere bene la cultura in cui ci siamo trovati a vivere, anche come base solida nella formazione, ma questa base serve per un confronto continuo, per acquisire la consapevolezza che nella realtà la cultura è fatta di relazioni che non hanno confini, e bisogna educare i giovani a percorrere queste strade, a saper osservare e interagire con la complessità ricca e variegata, non a chiudersi in un sicuro orticello autoreferenziale, vana pretesa egocentrica, inutile oltre che infondata nel suo rifiuto dell’altro (come nelle politiche migratorie). Sempre sul cartaceo di Left si veda l’articolo Insegnare una Italia piccola piccola di Diana Donninelli.
Da ricercatore e professore di scuola superiore, sono preoccupato davanti questo panorama. La proposta di libri, e in generale l’intromissione interessata sui programmi, sono segnali gravi, e per l’ultimo punto condivido e sottoscrivo le riflessioni di Christian Raimo, su Lucy sulla cultura il 2 luglio scorso: “L’identità italiana non esiste, ma tra poco si studierà a scuola”. E proprio il professor Raimo è al centro di una questione che fa sistema con quanto finora abbiamo osservato: la repressione del dissenso, che non colpisce solo gli studenti che manifestano o occupano una scuola, ma anche i docenti, evidentemente non più liberi di avanzare critiche nei confronti delle politiche portate avanti dal ministro (con un’idea di scuola discutibile), o di esprimere in un’intervista – non in aula – personali posizioni politiche. Raimo è oggetto di due provvedimenti disciplinari, con rischio licenziamento, per aver contestato le politiche per la scuola della destra. Per deontologia, ogni docente deve astenersi dal politicizzare la lezione facendo ‘campagna elettorale’ in aula, ma scuola e università comunque non possono e non devono essere luoghi asettici: fra professore e studenti deve esserci un dibattito, che partendo dagli argomenti di studio possa portare anche ad un confronto sull’attualità, in cui il docente non si porrà certo come megafono di un partito o l’altro, ma potrà dare ai giovani delle coordinate, guidarli affinché possano percorrere con maggior consapevolezza il cammino che loro sceglieranno, evitando derive pericolose. E poi, ogni professore ha o può avere anche un ruolo intellettuale, e fuori dall’aula può benissimo prendere posizione: essere funzionari pubblici non vuol dire aver fatto voto di cieca obbedienza e silenzio. La critica, anche ironica, del potere e delle sue decisioni è e deve restare un diritto.
La cultura non può essere un giocattolo nelle mani dei politici, soggetta ai capricci di turno e al vento elettorale. La cultura e l’educazione sono e devono continuare ad essere palestra di pensiero critico, luogo in cui si coltiva ed esercita la più autentica e democratica forma di controllo e garanzia contro ogni possibile deriva del potere, la conoscenza.
L’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, ricercatore e insegnante
Per approfondire v. left di ottobre
Foto: Gli studenti si liberano delle catene e lanciano lo sciopero nazionale del 15 novembre. Azione di protesta dell’Unione degli studenti davanti al Ministero dell’Istruzione e del merito, 25 ottobre 2024