Viva il meticciato, viva l’arte che nasce e cresce nel rapporto fecondo fra identità e culture diverse; viva la creatività nomade di artisti che si sentono cittadini del mondo, benché siano Stranieri ovunque, come recita il titolo di questa sessantesima Biennale d’arte di Venezia, che si presenta come una grande festa collettiva di talenti provenienti soprattutto dal cosiddetto Global South, dall’America Latina, dall’Africa, dal Medio Oriente e dall’Asia.
La mostra, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa (il primo proveniente dall’America Latina nella lunga storia della Biennale) inonda i Giardini e l’Arsenale con un tripudio giocoso e colorato di pitture, e sculture (potentissimi e rinnovati mezzi espressivi qui), installazioni e video che ci parlano di un mondo senza confini, dell’infinita varietà e creatività umana, arma essenziale per opporsi alla discriminazione, alla violenza visibile e invisibile, al colonialismo.
Prima ancora di avere il piacere di visitare questa mostra (aperta fino al 24 novembre 2024) la storia di Pedrosa ci aveva già lasciato intuire molto: collaboratore della Biennale di San Paolo, ha curato la collezione del Museu de arte de São Paulo, disegnato dall’architetta italiana Lina Bo Bardi (vedi Left del 9 aprile 2021), tracciando Historias, contro storie per immagini non più solo a misura di uomini bianchi e occidentali. Già lì si trovavano i semi di questa collettiva, concepita prima del nuovo corso politico meloniano e su cui Pierangelo Buttafuoco, da neo presidente della Biennale di Venezia nel catalogo ha provato a mettere il cappello evocando sotto testi religiosi di cui francamente non abbiamo trovato molte tracce in mostra, eccezion fatta per il padiglione del Vaticano.
Anzi, nel contesto attuale il messaggio radicalmente aperto, laico, panteista di Stranieri ovunque appare più dirompente che mai nel suo senso anche politico. In rotta di collisione con le ideologie di vecchie e nuove destre confessionali e ultra capitaliste (che in America Latina hanno i volti di Bolsonaro e Milei) Adriano Pedrosa da subito prende posizione lasciando parlare la grande pittura murale colorata, che spicca sulla facciata del padiglione centrale ai Giardini, realizzata dal collettivo indigeno dell’Amazzonia Mahku, nato nel 2013 nell’ambito di workshop universitari nella regione dell’Acre in Brasile, vicino al confine del Perù.
Il dipinto reinventa il mito indigeno dell’attraversamento del mare in groppa ad alligatori, affrescando un’origine culturale india a cavallo di più contesti. Evoca la grande apertura di orizzonte propria della cultura degli Indios che è stata crudelmente soffocata in recinti. «Fra tutti gli stranieri gli indios lo sono più di tutti, perché gli indigeni sono spesso trattati come stranieri nelle proprie terre», ha detto il curatore intervistato su Repubblica da Massimiliano Gioni, (già curatore nel 2013 della Biennale dal titolo Palazzo Enciclopedico e molto sintonica con questa, nello squadernare un universo modernamente tribale). Quella di Mahku non resta una voce isolata, assonanze si trovano con accenti diversi nell’opera di Jeffrey Gibson, il primo artista cheeroke a rappresentare gli Stati Uniti e in quella dell’aborigeno Archie Moore (Australia, Leone d’oro) e del groenlandese Inuuteq Storch (Danimarca). Mentre l’altro Leone d’oro va al collettivo femminile maori Mataaho (Nuova Zelanda). E non è che l’inizio.
Con oltre 300 artisti la mostra di Pedrosa declina, in ogni forma ed espressione, narrazioni di esseri umani e artisti che troppo spesso scompaiono sotto le etichette di migranti, rifugiati, apolidi, forestieri, outsider, stranieri. L’obiettivo non è tanto e solo ridare loro un volto e una voce, quanto dare spazio alla loro creatività, costruire nuove narrazioni plurali e complesse, capaci di contrastare l’oppressione di un mainstream piatto e omologante. Il risultato è una travolgente sinfonia di forme e colori, che porta alla ribalta artisti ostracizzati nella propria terra o che in terre lontane dal proprio luogo di origine hanno trovato nuovi contesti umani e sociali per potersi realizzare, come gli artisti italiani della diaspora a cui è dedicata una tappa della mostra: qui scorgiamo, fra altro, un affascinante bozzetto dell’artista emigrato negli Usa Costantino Nivola ispirato alle figurine preistoriche sarde ma anche la celebre foto in bianco e nero Falce, pannocchia e cartucciera (1928) di Tina Modotti rivoluzionaria, migrante ed esule al tempo stesso, che comparve nella sua unica personale in vita e che il muralista Siqueiros definì «la prima mostra fotografica rivoluzionaria in Messico».
Particolarmente ricco e interessante è quest’anno anche il panorama offerto dai vari padiglioni nazionali, molti dei quali invitano a una profonda riflessione critica sul presente. A cominciare dal Padiglione di Israele che è rimasto chiuso e lo rimarrà fino al cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi per volontà dell’artista Ruth Patir e delle curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit.
La Palestina, senza Padiglione, ha trovato spazio sulla Freedom boat che ha attraversato il Canal grande. E questo la dice lunga su quale feroce contraddizione porti con sé la tradizionale organizzazione del percorso espositivo scandito da padiglioni nazionali. Va detto anche che gran parte dei padiglioni nazionali sono artisticamente attraversati da una riflessione anti nazionalista, a cominciare da quello del Cile affidato all’artista Valeria Montti Colque, nata a Stoccolma nel 1978 dopo che i suoi genitori erano stati perseguitati dalla dittatura cilena di Pinochet.
Il rifiuto della guerra è un tema molto presente nell’immaginario di questa Biennale così come il rifiuto dell’apartheid, in tutte le sue forme manifeste o meno. Di questo, fra molti altri, ci parlano le isole di paesaggio costruite dal progetto Madeyoulook, Quiet ground, ispirato all’opera di Njabulo Ndebele e alle sue pratiche artistiche anti-apartheid. Colpisce come in controtendenza a muri spinati e decreti di espulsione, fioriscano qui immagini che “fanno casa” con tende nomadi di stoffa sotto forma di arazzo, ricamo, stampa manuale, in ogni forma, sfidando la fragilità del mondo contemporaneo, segnato dal climate change, da conflitti e disuguaglianze sociali.
Catalizza lo sguardo la bellezza e l’incisività della rappresentazione che incontriamo nel Padiglione del Benin, new entry in questa Biennale, curiosamente nello stesso anno in cui l’Orso d’oro di Berlino è andato al documentario di Mati Diop, Dahomey sulle opere d’arte del Paese africano, vittima della furia colonialista francese e recentemente restituite (vedi Left 4 aprile 2024). Al centro della scena del Padiglione del Benin campeggia una tenda circolare, tutt’intorno in gigantografia immagini vitali di donne dal copricapo che ha il colore del mare. Gli artisti e le artiste Hazoumè, Quenum, Akpo e Bello ne rappresentano la forza calma e sensibile. Da segnalare anche l’attenzione ai temi ambientali poeticamente e drammaticamente declinato, fra gli altri, nel padiglione di Singapore e in quello cinese, che dopo anni di pittura iper realista e ultra pop ci regala l’emozione di una affascinante ricreazione dell’antica pittura di paesaggio e calligrafica, declinata con i nuovi strumenti dell’arte digitale e della videoarte, parlando di una nuova auspicata armonia fra esseri umani e ambiente.
In apertura: Aravani Art Project, Diaspore, 2024, Mural painting La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque; courtesy Biennale di Venezia
Questa recensione è uscita sulla rivista Left uscita in edicola il 3 giugno 2024