Ma la televisione – cantava Lucio Dalla nel 1979 nella canzone “L’anno che verrà” – ha detto che il nuovo anno porterà una trasformazione e tutti quanti stiamo già aspettando…». Se una delle caratteristiche dei poeti è la preveggenza, mai poeta fu più profetico di Lucio Dalla nel descrivere lo stato d’animo mondiale alla fine del 2024, in attesa che il 20 gennaio 2025 ascenda al soglio americano Donald Trump.
Tra le mirabolanti promesse di una nuova età dell’oro, Donald Trump ha garantito che, se avesse vinto le elezioni, in un batter di ciglia avrebbe dato termine alle guerre che insanguinano il pianeta. Per limitarsi ai conflitti più eclatanti e trascurando quelli meno appariscenti (il Sudan, per esempio), due erano i conflitti in corso il 5 novembre quando Trump ha vinto le elezioni: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia iniziata il 24 febbraio 2022 e la reazione di Israele all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 a Gaza e in Libano. Trump era appena stato eletto, che il 29 novembre è scoppiato un terzo scontro in Siria. E ancora il neoeletto non si è insediato! Se il buon giorno si vede dal mattino …tempi duri per chi persegue la pace.
Il problema sta nell’arginare i capi di Stato malati di guerra ed è qui che si pone il problema dei pacifisti perché, sino al 2022, l’argine alla guerra è stata la deterrenza: tante bombe atomiche hai tu, altrettante ne ho io; il sistema di allerta sparerà le nostre bombe appena avremo il segnale che tu hai sparato le tue sicché ci sarà solo distruzione senza né vinti né vincitori.
Questo equilibrio che ha funzionato per decenni, dopo il 1945, è stato rotto dalla Russia il 24 febbraio 2022 alle ore 4,55 del mattino e l’impegno di tutti i Paesi è stato fino ad ora quello di evitare il ricorso alle bombe atomiche proseguendo con i metodi tradizionali di combattimento, sia pure evoluti nell’uso dei droni e dei missili ipersonici.
Ora il dilemma dei pacifisti consiste nel trovare un nuovo equilibrio che si aggiunga alla deterrenza ed eviti l’accendersi continuo di confronti armati. Pace si, ma quale pace?
C’è la pace della non violenza, quella alla Ghandi, la risposta passiva all’aggressione che abbiamo vista applicata, per esempio, dai giovani che manifestano bloccando le strade per poi farsi caricare di peso sui cellulari della polizia per essere tolti dall’asfalto. Un ottimo metodo dimostrativo, ma da utilizzare nei Paesi che rispettano i diritti umani e la salvaguardia dell’incolumità dei cittadini; meno adatto ai Paesi sottoposti a regimi autoritari, come stiamo vedendo in Iran con il movimento “Donna vita libertà” dove le autorità rispondono ai manifestanti col terrore delle impiccagioni. In ogni caso, è un metodo assai rischioso su un campo di battaglia e potrebbe produrre una rapida estinzione dei pacifisti gandhiani, un po’ per sterminio e un po’ per la difficoltà di rinnovare le fila dei disposti ad immolarsi.
Ci sarebbe, in alternativa, l’ipotesi del pacifismo diplomatico, quello che vorrebbe portare i belligeranti ad un tavolo di trattative per risolvere il conflitto con la negoziazione, ma questo metodo presuppone una ragionevolezza dei contendenti di cui, allo stato, v’è penuria. Difficile condurre alla ragione chi ormai ne è privo e, anzi, è alterato dalla frustrazione di non poter raggiungere i propri fini con tutto quello che ne discende circa la responsabilità verso i propri suddit… pardon: cittadini, ai quali si deve dare giustificazione dei sacrifici imposti e del sangue versato.
Del resto, le trattative si sono sin qui potute imporre ai Paesi che dipendevano da una delle grandi potenze la quale veniva chiamata a svolgere un’opera di persuasione dall’alto, appunto, della sua potenza. Ma cosa fare quando a belligerare è una grande potenza in prima persona? Prospettiva difficile da realizzare quella del tavolo delle trattative, tanto più che il mondo sembra ormai diviso in due blocchi, l’americano occidentale e il cinese terzo mondista sicché, se uno dei due applica sanzioni ad un altro Paese, il rivale interviene per attenuarne l’efficacia.
C’è ancora la possibilità dell’uso dosato delle armi, col quale si vuole mettere in stallo il conflitto così da costringere i combattenti a prendere atto dell’impossibilità di prevalere sull’altro e, quindi, accettare la trattativa.
Ma si può chiamare questo un percorso per la ricerca pace? Per il pacifismo ci sono diversi approcci ma tutti hanno in comune il rifiuto della guerra dovendosi ormai dare per assodato che la pace è la via migliore per la soluzione più efficace, funzionale e conveniente dei conflitti. Ogni conflitto esplode in un suo proprio contesto che, a sua volta, richiede l’individuazione di una particolare strada per recuperare la pace sicché non tutte le soluzioni del passato possono valere per il presente o per il futuro. Dal passato, cercando in contesti assimilabili, possiamo prendere ispirazione, ma è guardando all’oggi che si deve inventare una soluzione pacifista adatta al momento. Il contesto mondiale attuale è pressoché inedito: due blocchi si contrappongono come in precedenza, ma la deterrenza non basta più perché le leggi internazionali vengono violate impunemente e gli organismi sopranazionali non hanno più il prestigio dei decenni trascorsi. Allora anche il pacifismo deve reinventarsi pena la sua marginalizzazione ed ininfluenza. E’ forse il tempo di un pacifismo globale e movimentista che, mutuando la trasversalità del movimento “Fridays for future”, invada contemporaneamente le piazze di tutto il mondo invocando la pace sotto le ambasciate dei belligeranti.
Nuove iniziative appaiono necessarie perché, più i mesi passano dal 24 febbraio 2022, più esplodono conflitti in varie parti del mondo come la Siria di questi giorni. Qui il sincero pacifista entra in una crisi profonda perché, se un miliziano jihadista come Abu Muhammad al-Jawlani, fino a ieri tagliagole del gruppo di Al Nusra, parallelo all’ISIS e legato ad Al Qaeda, si mette a capo di un cartello islamista e spodesta il re del terrore Bashar Al Assad, non si sa se gioire o preoccuparsi. Con questo capo che sceglie di abbandonare il soprannome di battaglia “Al-Jawlani” per recuperare il suo vero nome di Ahmed al-Sharaa onde accreditarsi come neo moderato, c’è da rallegrarsi oppure è un trucco? Certo, se neppure più dei talebani ti puoi più fidare perché cambiano livello di jihadismo a seconda del momento, tutte le strade sembrano aperte e, infatti, allo stato lo sono e il mondo resta per la Siria con il fiato sospeso. Verrebbe da dire “Non ci sono più gli islamisti di una volta, signora mia!” e invece ci sono e basta allungare lo sguardo verso l’Afghanistan per rimangiarsi l’osservazione. Ma in Siria, che posizione prendere? Più i giorni passano, più da Damasco arrivano segnali di effettiva moderazione: le carceri sono scoperchiate; le torture cui sono stati sottoposti gli oppositori del dittatore vengono illustrate nei loro dettagli raccapriccianti lasciando libero accesso alla stampa occidentale tra le celle ormai liberate; le fosse comuni per decine di migliaia di scomparsi torturati vengono scavate e le salme restituite ai loro cari; il sostegno finanziario del dittatore spodestato, ottenuto con l’esportazione della droga captagon, viene ampiamente documentato con le foto dei magazzini nelle mani del fratello di Bashar ancora pieni; in cambio della consegna delle armi viene concessa l’amnistia. Il tutto perseguendo un fine di verità su cosa è stato il regime degli Assad per cinquant’anni che riempie di orrore e soddisfazione per la sua fine. La vita normale nella capitale siriana sta riprendendo, ma ancora manca qualcosa di importante alla piena riabilitazione del Paese in questo suo nuovo corso. Quale sarà la libertà di stampa? Quale sarà il ruolo delle donne? A che livello verrà loro chiesto di indossare l’hijab? Quale livello di istruzione e politico potranno raggiungere (oppure: verrà loro concesso di raggiungere?). Solo il tempo potrà rispondere a queste domande.
Intanto accontentiamoci di qualche elemento di ottimismo: un tiranno sanguinario è stato spodestato ed è fuggito presso il suo protettore Putin (le disgrazie non vengono mai sole! Dio li fa e poi li accoppia. La mela non cade mai lontana dall’albero….). La sua caduta è fortemente limitante per le mire accerchiatrici di Israele da parte dell’Iran. Le scelte di Ahmed al-Sharaa sono oggi assai limitate dalla presenza in territorio siriano di ben quattro eserciti stranieri (Usa, Russia, Israele e Turchia). L’irrompere sulla scena internazionale di Ahmed al-Sharaa al posto del precedente Al-Jawlani e le sue prime parole di moderazione sono una realtà che per ora incoraggia una ulteriore via al pacifismo: quella del miracolo. Se San Paolo si convertì sulla via di Damasco duemila anni fa, perché il miracolo non potrebbe succedere ancora da quelle stesse parti?
Tuttavia, contemporaneamente, una singolare epidemia colpisce le democrazie occidentali: dalla Germania alla Francia, dalla Corea del Sud alla Georgia, dalla Romania ai Paesi dell’Africa come il Senegal e il Ciad. E che dire delle elezioni negli Usa dove, senza possibilità di errori, si è tornati ad insediare Donald Trump a capo della più importante democrazia mondiale! Proprio quel Donald Trump che aveva ingiustamente contestato come false le precedenti elezioni che lo avevano spodestato e che aveva incitato i suoi sostenitori all’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Il Donald Trump che aveva pagato con i fondi elettorali il silenzio di una porno star che frequentava mentre la moglie era incinta. Il Donald Trump condannato a New York per frode finanziaria ed a pagare una multa di 355 milioni di dollari. Il Donald Trump che alla fine del precedente mandato presidenziale si era portato a casa i segreti di Stato. Il Donald Trump che ha predisposto l’abbandono degli afghani nelle mani dei Talebani poi attuato da Biden. Il Donald Trump che ha ridimensionato l’impegno americano in Somalia contro i terroristi di Al Shabab. A quest’uomo, che non conosce certamente l’art. 54 della nostra Costituzione – che impone onore e disciplina a chi riveste funzioni pubbliche – vengono adesso affidate le speranze di riportare il mondo alla pace. Un paradosso che conduce all’apoteosi delle più bizzarre contraddizioni: adesso dobbiamo pure sperare che ne sia capace.
“L’anno che sta arrivando, tra un anno passerà…” proseguiva Lucio Dalla nella canzone citata in epigrafe e questa certezza pare il più solido ancoraggio per le speranze di pace.
L’autrice: Shukri Said è una giornalista italo somala, corrispondente per la BBC e Voice of America. E’ autrice e conduttrice della rubrica “Africa oggi” su Radio Radicale. Fondatrice dell’Associazione Migrare – Osservatorio sul fenomeno dell’immigrazione (www.migrare.eu). Già autrice per La Repubblica del blog “Primavera africana”