Il mondo è sempre più caldo ma c'è chi sceglie di alimentare il freddo del dubbio. Nel libro "Contro i mercanti del clima” Giacomo Pellini smaschera le strategie di politici, giornalisti e pseudo esperti che per interesse minacciano il nostro futuro. Ecco l'introduzione

Un viaggio nella macchina del negazionismo climatico dove la disinformazione si intreccia con l’interesse economico. È il contenuto del libro di Left di gennaio Contro i mercanti del clima di Giacomo Pellini di cui pubblichiamo l’introduzione.

Nessuno può veramente dimostrare che fumare faccia male. Cosa rispondereste se qualcuno facesse una simile affermazione? Molto probabilmente lo prendereste per pazzo, senza perdere tempo nel tentare di convincerlo del contrario argomentando con tesi scientifiche, dati e statistiche. Dopotutto, è universalmente assodato che il fumo compromette gravemente la salute umana, causando patologie più o meno gravi. Non si può dimostrare il contrario.
Eppure, in tempi non sospetti, ci fu davvero chi provò a sdoganare l’idea che, tutto sommato, non fosse poi del tutto provato che le sigarette fossero nocive per la salute: negli anni Settanta e Ottanta, le potenti lobby del tabacco americane cercarono attivamente di minimizzare i rischi legati al fumo, diffondendo l’idea che i danni delle sigarette alla salute non fossero ancora pienamente dimostrati. Attraverso il sostegno di alcuni scienziati compiacenti, misero in atto una strategia di disinformazione accuratamente pianificata, volta a seminare dubbi nella comunità scientifica e nell’opinione pubblica. Questo approccio mirava a ritardare o ostacolare l’adozione di politiche restrittive, proteggendo così i loro interessi economici a discapito della salute collettiva.
È importante fare una precisazione: l’industria del tabacco non ha mai cercato di dimostrare che il fumo facesse bene. Sapeva che sarebbe stato impossibile, essendo pienamente consapevole degli studi che collegavano il fumo al cancro, a problemi cardiovascolari e ad altre gravi patologie, spesso mortali.
Non potendo dimostrare l’impossibile, le grandi aziende del settore nicotinico adottarono una strategia completamente diversa, e forse ancora più insidiosa: vendere dubbi. Il loro obiettivo era instillare nelle persone comuni l’idea che la scienza fosse ancora incerta sull’argomento e che la comunità scientifica non avesse raggiunto un consenso definitivo sui rischi legati alle sigarette. Per questo decisero di ingannare il pubblico, seminando dubbi su questioni su cui la scienza aveva già fornito prove solide e consolidate.
Per i fumatori, il piacere di accendersi una sigaretta era un’abitudine difficile da abbandonare. E, se non c’era la certezza assoluta che facesse male, perché smettere? Questa strategia si rivelò efficace, perché sfruttava uno dei pilastri della scienza trasformandolo in apparente fragilità: il principio secondo cui un modello scientifico, per essere considerato valido, deve essere dimostrato e sottoposto a continua verifica. Questo lo rende sempre aperto a critiche o a sostituzioni con teorie ritenute più plausibili.
Come osservava il filosofo austriaco Karl Popper, per essere davvero scientifico, un modello deve essere falsificabile, ossia testabile e potenzialmente confutabile sulla base di nuove prove oggettive. È questa la famosa teoria della falsificabilità: l’osservazione di un numero qualsiasi, ma finito, di cigni bianchi non può servire secondo Popper a formulare con un procedimento di induzione una legge universale, cioè valida per un insieme potenzialmente infinito di casi. L’osservazione di un singolo cigno nero, invece, può falsificarla.
In questo caso specifico, manipolando il principio della falsificabilità per seminare incertezze, i lobbisti del tabacco agirono come autentici mercanti di dubbi, espressione coniata dagli scienziati statunitensi Naomi Oreskes ed Erik Conway. Mercanti di dubbi è anche il titolo del loro celebre libro, in cui analizzano con rigore le strategie di disinformazione messe in atto dai gruppi di potere per minimizzare i rischi legati al fumo e ostacolare politiche dannose per i loro interessi.
Si tentò quindi di dare una parvenza di scientificità a questa iniziativa attraverso la promozione di una campagna per l’equilibrio, arrivando a parificare le opinioni strettamente scientifiche con le bufale antiscientifiche, inquinando il dibattito con la disinformazione sistematica. Una strategia che è paragonabile a un dibattito culinario in cui uno chef stellato spiega come preparare una pasta perfetta, e al suo fianco viene dato lo stesso spazio a qualcuno che sostiene con fervore che la pasta vada cotta in acqua fredda, magari con una spruzzata di ketchup a crudo per esaltare i sapori. Il pubblico, confuso dalla parità di tempo e importanza data a entrambe le opinioni, finisce per chiedersi se non ci sia davvero un fondo di verità nella proposta del ketchup, lasciando il dubbio come ingrediente principale del piatto.
Notoriamente, ci sono diversi modi per oscurare la verità: da un lato c’è la censura, tipica dei regimi dispotici e autoritari, che limita la libertà di espressione e l’accesso all’informazione con l’intento dichiarato di tutelare l’ordine sociale e politico. Dall’altro c’è il suo esatto – ma apparente – opposto, ossia l’infodemia, un termine che combina “informazione” ed “epidemia” per descrivere la diffusione rapida e incontrollata di un’enorme quantità di informazioni, spesso contraddittorie, durante una crisi. Se accanto ad informazioni accurate cominciano a circolare anche disinformazione e fake news si genera una grande confusione, rendendo difficile per le persone distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Gli effetti provocati da questa tecnica possono essere devastanti: distorsione della realtà, sfiducia nelle istituzioni democratiche, società divise e polarizzate. Si verifica quello che il filosofo Maurizio Ferraris ha chiamato «tribalizzazione della verità»: le persone iniziano a percepire e interpretare la verità non più come un valore universale e oggettivo, ma come qualcosa che è “di parte”, legato ai gruppi a cui appartengono.
I produttori di sigarette con questa campagna per l’equilibrio adottarono questa tecnica, facendo pressione affinché gli organi di informazione dessero spazio sia alla scienza che sosteneva i danni del fumo, sia a chi invece li negava. Nessuna censura: le lobby del tabacco non vollero nascondere i fatti ai giornalisti, tutt’altro, gliene fornirono a bizzeffe. Così l’opinione pubblica fu invasa con opuscoli, interviste, articoli e con tutta una serie di informazioni che disorientarono gli utenti e ne sviarono l’attenzione. Ad esempio, si provò a far concentrare il pubblico sulle altre cause delle malattie polmonari, dando così l’erronea impressione che il fumo non fosse poi così pericoloso. Il fumo fa male. E allora le foibe?
A supporto dei negazionisti intervenne poi un altro fatto: gli scienziati che imputavano la colpa delle malattie respiratorie al fumo divulgavano i loro risultati su riviste specialistiche soggette a peer review (o “revisione tra pari”) – un processo di valutazione e controllo della qualità di un lavoro di ricerca che avviene attraverso la revisione da parte di esperti nel campo specifico. Una pratica che permette di filtrare le pubblicazioni scientifiche in modo da pubblicare solamente quelle che abbiano una certa scientificità. La campagna di disinformazione finanziata dai produttori di tabacco, invece, si dirigeva direttamente verso i principali organi di informazione, spesso incapaci di trattare la questione con rigore tecnico e ignari dei risultati della ricerca scientifica consolidata. In questo modo, il pubblico finiva per credere a qualsiasi falsità, inclusa l’idea che la questione dei danni del fumo fosse ancora in dubbio e incerta.
Ciò che caratterizza la scienza ed il suo metodo sono il dubbio, la curiosità. E fu proprio l’apertura mentale degli scienziati il cavallo di Troia che ha permesso ai negazionisti di sdoganare l’idea che forse non esiste un collegamento diretto tra sigarette e cancro ai polmoni. Questa strategia ha confuso l’opinione pubblica e ha ritardato l’accettazione scientifica dei danni causati dal fumo, con la conseguenza che milioni di persone hanno continuato a fumare, esponendosi a un rischio mortale che, se affrontato tempestivamente, avrebbe potuto essere evitato.
Insomma, quella portata avanti dai “mercanti di dubbi” può essere considerata una delle prime vere campagne di manipolazione di massa, mentre il copione usato per screditare gli scienziati e disorientare l’opinione pubblica nel campo del fumo di sigaretta venne poi replicato anche in altri ambiti – basti pensare alla popolare credenza (falsa) secondo cui alcuni vaccini siano causa di autismo. La dinamica è sempre la stessa: nonostante la grande maggioranza degli scienziati supporti una teoria, una minoranza, negando i principi fondamentali, pretende di essere ascoltata in nome della par condicio. Così, anche chi promuove teorie alternative ottiene spazio e visibilità. E magari un giorno, chissà, qualcuno di questa minoranza potrà diventare il presidente degli Stati Uniti e durante una pandemia globale consigliare ai propri cittadini di bere candeggina per curarsi anziché propendere per un vaccino sicuro e testato. Assurdo no?
Questo principio della parità di trattamento è sacrosanto in politica, ma la scienza funziona diversamente, non essendo democratica ma fondata sulla competenza delle persone. Banalmente, non possiamo mettere sullo stesso piano chi sostiene che la terra è piatta con un gruppo di ricerca fondato da geologi.
Il campo di battaglia nel quale, al giorno d’oggi, si usa di più la disinformazione come arma mediatica è proprio quello del cambiamento climatico. La comunità scientifica sostiene che l’esistenza del riscaldamento globale sia inequivocabile, e che il colpevole della crisi climatica sia solo uno: l’essere umano, che bruciando i combustibili fossili – gas, petrolio e carbone – al fine di produrre energia, ha immesso in atmosfera milioni di tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra, portando la quantità di CO2 al doppio rispetto all’epoca preindustriale.
Come si possono negare le evidenze? Dall’aumento repentino delle temperature, all’innalzamento dei mari, allo scioglimento dei ghiacciai sino alle calamità naturali che colpiscono sempre più usuali nelle nostre città e nei nostri territori, l’esistenza del global warming è impossibile da negare, vista anche la sostanziale quasi unanimità della comunità scientifica internazionale – intorno al 99% – a riconoscere la sua esistenza e ad imputarne la responsabilità all’uomo.
Eppure, c’è ancora chi contesta l’origine antropica dei cambiamenti climatici, chi minimizza i rischi e avanza tesi che mettono radicalmente in discussione l’esistenza stessa del problema. Per definire questo tipo di teorie e indicare il rifiuto delle evidenze scientifiche più robuste su cui la comunità scientifica ha raggiunto un consenso è stato utilizzato il termine negazionismo climatico.
I mercanti di dubbi sono tornati, ma questa volta non si scagliano più contro chi denuncia i danni del fumo, bensì contro gli ambientalisti, le energie rinnovabili, le auto elettriche e le politiche green, seminando incertezze su tutto ciò che potrebbe contrastare il cambiamento climatico.

L’autore: Laureato in cooperazione internazionale, Giacomo Pellini è giornalista ed esperto dei temi dell’ambiente e del clima

introduzione del libro di Left Contro i mercanti del clima di Giacomo Pellini che si può acquistare qui