Come se un’adolescente potesse essere considerata forza lavoro marinaresca a costo zero, perché tanto “parla l’inglese"

Anna Chiti aveva diciassette anni. Era al suo primo giorno di lavoro come hostess-traduttrice su un catamarano a Venezia. Era sola con lo skipper. Senza salvagente. È morta impigliata tra una cima e un’elica, in una manovra che “di solito fa uno con decenni di esperienza”, come ha detto suo padre. Ma per l’Italia del lavoro minorile mascherato e della flessibilità da sconto stagionale, bastava lei.

Chi l’ha assunta? Con quale contratto? Chi doveva sorvegliarla? L’inchiesta della Procura di Venezia dovrà accertarlo, ma intanto è troppo tardi. Troppo tardi per una studentessa brillante dell’Istituto nautico, che parlava russo e ucraino, e sognava di diventare comandante di navi da crociera. Troppo tardi per evitare che una festa privata per turisti diventasse una tragedia italiana.

Il padre l’ha saputo il giorno prima, “da un amico di un cantiere”. Anna voleva mettere da parte qualche soldo per il suo diciottesimo compleanno. Si è trovata a gestire una barca da 10-12 metri in un’operazione pericolosa, come se un’adolescente potesse essere considerata forza lavoro marinaresca a costo zero, perché tanto “parla l’inglese”.

Ci sono le responsabilità penali che verranno accertate. Ma c’è una responsabilità più grande, collettiva: quella di un Paese che tollera che i ragazzi lavorino senza tutela, senza formazione, senza affiancamento, e spesso senza nemmeno un contratto. È lo stesso Paese dove ogni estate si piangono ragazzi schiacciati dai trattori, folgorati sui tetti o caduti dai ponteggi. E dove si fa fatica persino a chiamare per nome questa strage: lavoro.

Questa volta si chiamava Anna.

Buon martedì. 

Foto Fb