Da Gaza si arriva, da Gaza non si torna più. Dopo che l’animo s’è mescolato col dolore e la speranza di quel popolo e di quella terra non può tornare uguale a prima. Tutto diventa sospeso, fragile, irrisolto. Ci si ammala dentro. I panni stesi al sole, fuori dalle case, raccontano la vita delle persone e nel deserto del Sinai, che attraversiamo scortati dalla polizia egiziana. I panni stesi sono l’unico frammento di colore in un mare di terra secca, punteggiati da rari cespugli di sterpi. L’ultima città egiziana prima di arrivare a Rafah è Al-Arish, intristita dalle macerie dell’abbandono e contemporaneamente ingentilita da nuove costruzioni incompiute. Poche le serrande aperte, quasi nessun abitante in strada: il sole e la paura fanno a gara a chi picchia più forte e ci si rinchiude nelle case, per non sentire né l’una né l’altra. Mancano cinquanta chilometri alle porte chiuse dell’inferno di Gaza eppure nella notte il mare di Al-Arish fa scivolare sulle onde piatte il rimbombo sordo delle esplosioni lontane.
Piovono bombe su un popolo disarmato e a rifinire a dovere lo sterminio ci pensano i cecchini. Gli israeliani sono quelli che hanno messo migliaia di microcariche esplosive nei cercapersone e li hanno fatti esplodere all’unisono, uccidendo centinaia di innocenti, in un cupo furore terroristico, sono quelli che hanno guidato un drone fino al salotto di casa del leader di Hamas già ferito a morte per finirlo, a favore di telecamera. Gli israeliani sono capaci di una precisione chirurgica nel colpire i propri target militari eppure hanno sbagliato il tiro almeno 60mila volte, sterminando in gran parte donne e bambini…
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