Elisabetta Rasy, scrittrice e saggista, è nella dozzina finalista del Premio Strega 2025 con il libro Perduto è questo mare, pubblicato da Rizzoli. Seguendo i percorsi della memoria, Rasy ricompone la storia del suo rapporto con il padre e della sua lunga amicizia con lo scrittore Raffaele La Capria, sullo sfondo di una Napoli luminosa, caduta in rovina nel dopoguerra, luogo amato e abbandonato.
Perduto è questo mare è un libro sulle separazioni, sugli incontri e sui legami profondi e misteriosi che accompagnano una vita, sulla perdita e sulla distanza come tensione malinconica ma anche come spazio necessario al ritrovarsi. La genesi del libro è legata a un sogno. “Nel libro racconto questo sogno in cui scappo da un luogo imprecisato portando sulle spalle un caro amico molto più grande di me, lo scrittore Raffaele La Capria- racconta la scrittice-. Il richiamo all’iconografia di Enea che procede sotto il peso del padre Anchise, così come rappresentato nell’antica pittura vascolare e nelle opere di Bernini o di Raffaello, è immediato. Lo raccontai a un amico psicanalista che lo definì un sogno poco femminile. Il commento mi dispiacque, così intrappolato in una logica di genere, senza contare che la mitologia e la letteratura sono piene di figure femminili che si fanno carico del padre, da Antigone, che prende su di sé la maledizione di Edipo, a Louisa May Alcott, che neanche ventenne mantiene l’intera famiglia. Così ho continuato a ragionarci per conto mio. Ho riletto i primi sei libri dell’Eneide, in cui Virgilio racconta la fuga di Enea da Troia e la discesa negli inferi”. Virgilio è un poeta elegiaco, malinconico, è il poeta delle separazioni, degli amori infelici, racconta Rasy. ” Se Didone tocca il cuore di tutti, la mia coscienza femminista è catturata dalla storia di Creusa, la sposa disposta a distanza (longe) nell’anatomia della fuga, e perciò perduta”. L’altro testo citato nel libro è la Lettera al padre di Kafka, “un’analisi spietata del patriarcato, in cui il mea culpa del figlio si trasforma in atto di accusa al padre ipocrita e volgare. Mi sono poi arrivate le immagini legate a Napoli, la città di Raffaele e mia, da entrambi abbandonata ad un certo punto delle nostre vite. Il crollo del palazzo nelle scene iniziali del film Le mani sulla città di Francesco Rosi, scritto assieme a La Capria, a rappresentare la rovina nel dopoguerra, tra speculazione edilizia e corruzione”.
Elisabetta Rasy questo romanzo a comporre il racconto è la memoria?
Ci tengo a chiarire che Perduto è questo mare non è un libro di ricordi, né un’autobiografia. È un libro su come agisce la memoria, che cancella alcuni avvenimenti e ne inventa altri, ricuce storie, crea identità. I protagonisti sono gli altri – il padre e lo scrittore – non “la ragazzina”, alla quale mi riferisco in terza persona proprio perché la distanza è tale da escludere un’identificazione. Qui il sé, che pure è presente, non è in ascolto di sé stesso, ma degli altri e delle loro storie. Rimbaud diceva: «Je est un autre» (Io è un altro).
La narrazione presuppone sempre una distanza?
Personalmente, non sono un’appassionata della scrittura in presa diretta. Senza distanza non c’è messa a fuoco, dunque la narrazione non può che essere un’appendice dell’attualità. E l’attualità è sempre un po’ invisibile. Nel mio libro è molto presente il tema della separazione. Come strappo fatale – tra Enea e Creusa, tra la ragazzina e il padre, tra i vivi e i morti – ma anche come distanza che si ritrova, spazio che si apre, dando la possibilità di un ponte. Tra padre e figlia la vicinanza a un certo punto si fa insopportabile e porta al rifiuto, all’oblio. Solo quando si crea uno spazio è possibile guardare al padre in modo nuovo, raccogliere la sua eredità, infine scriverne.
Della sua amicizia con La Capria scrive “c’era tra noi la più assoluta confidenza intrecciata alla più assoluta reticenza”. Può dirci di più?
Era in effetti un’amicizia un po’ misteriosa. Intanto, tra un uomo e una donna l’amicizia non è mai facile. La mia generazione in particolare è stata attraversata da un’ideologia paritaria su cui però prendevano il sopravvento vissuti non paritari, arcaici. Questo doppio registro ha reso i rapporti spesso complicati e dolorosi. Raffaele non ha avuto nei miei confronti quella galanteria che apparteneva alle generazioni precedenti, né ha mai assunto un atteggiamento magistrale. In generale era attento a non porsi come un maestro, nonostante i crescenti riconoscimenti. Aveva molto da insegnare, ma era il suo modo di essere ad ispirare. Con me era semmai fraterno, nel senso che ci sentivamo tutti e due un po’ orfani. La Capria era un vero malinconico, e questo elemento di malinconia ci univa. Credo che sebbene mai esplicitata, la chiave della nostra amicizia fosse questa radice, questo punto cavo in comune, il “mare perduto” che è insieme Napoli, la solarità della giovinezza, l’orizzonte celeste che leopardianamente promette molto, e non restituisce.
La Capria ha influenzato la sua scrittura?
Ho sempre letto molto e disordinatamente, non ho mai avuto un maestro, la mia è una scrittura meticcia, e nello scrivere sono sempre alla ricerca della mia voce. “Ferito a morte” di La Capria mi ha colpita per ragioni autobiografiche, ma ancora di più mi ha segnata la seconda stagione della sua narrativa, da “L’armonia perduta” in poi. In questo, e ancor più nei romanzi successivi, Raffaele crea un intreccio molto stretto tra stile narrativo e materiali autobiografici. Forte di un grande rigore stilistico, si prende un’assoluta libertà di contenuti. Il suo non è uno stile ricercato, come nelle avanguardie. È anzi quello che lui chiamava “lo stile dell’anatra”, cioè una scrittura meditata ma all’apparenza piana, che non tradisce lo sforzo. Aveva sempre in mente l’immagine del tuffo perfetto: la figura che si libra nell’aria e entra in acqua lasciando lo specchio intatto. La purezza del gesto che nasconde un esercizio infinito.
Nel libro ricorrono due domande senza risposta: “Chi abbandona chi?” e “Chi hai amato di più?”. Quest’ultima, ripetutamente posta da La Capria.
La prima è più che altro una riflessione sugli abbandoni. Chi abbandona ha tutta la responsabilità o anche l’abbandonato vi prende parte? La seconda è una domanda per l’eternità, ed è senza risposta. Non a caso La Capria la poneva in continuazione. La faceva a me, ma credo la facesse a sé stesso. All’inizio non rispondevo perché non volevo, nel tempo sempre meno avrei saputo rispondere. Come dice Marguerite Yourcenar, «Il tempo, grande scultore» modella e rimodella. È il lavoro incessante della memoria, che cambia continuamente aspetto ai nostri ricordi. Dentro di noi c’è un paesaggio cangiante.
Perché ha scelto questo verso di Dagerman per l’esergo: «Tutti vogliono essere amati per quel che non hanno»?
Perché è stato per me fonte di ispirazione. Mio padre avrebbe voluto essere amato per qualità paterne che non aveva: protettività, capacità di riuscire. Raffaele si sentiva inadeguato rispetto a certi suoi amici di gioventù spavaldi con le donne, seduttori e seduttivi. Nonostante il legame con una donna bellissima, l’attrice Ilaria Occhini, il rammarico di non essere amato con quella facilità con cui erano amati quegli “oziosi pappagalli di provincia” l’ha accompagnato per tutta la vita. Ognuno di noi vorrebbe essere amato non per le qualità che possiede, ma per quelle dell’altro da sé, o di quel sé ideale che non sarà mai. Nel mio caso, per una spensieratezza, una leggerezza che non ho e a cui aspiro.