La scrittura è forse la cosa più indispensabile per chi ha visto scorrere davanti ai suoi occhi storie che rischiavano altrimenti di rimanere senza parole, senza testimoni, senza futuro. A maggior ragione in luoghi dispersi, lontani, di frontiera, perché è dalle ridotte più isolate che partono, spesso, i segnali dei cambiamenti, ben prima che vengano riconosciuti nei centri del progresso culturale e politico di un Paese. Ce lo hanno insegnato i nostri maestri, scrittori e intellettuali che proprio dalle periferie hanno scrutato, come veggenti, cosa stava succedendo, con decenni di anticipo sui tempi. Superfluo fare i nomi, li conosciamo bene.
Le Edizioni Sicilia Punto L hanno pubblicato un importante libro di Angelo Barberi, Contrada Ulmo e altri racconti, un testo che, meglio specificarlo subito, è come un insieme di rilevazioni, oserei dire di triangolazioni, messe in atto per descrivere la topografia umana, politica e sociale degli ultimi decenni in Sicilia e in Italia.
L’autore ripercorre con il suo sguardo lucido e duro ma nello stesso tempo denso di pietas, battaglie e visioni, collettive e solitarie, ma sempre figlie di un periodo, forse l’ultimo della nostra storia recente, in cui la condizione invincibile di solitudine ha trovato uno spiraglio di soluzione nella solidarietà tra le persone.
Barberi, con gli strumenti dell’indagine che parte dalla cronaca ma, nel contempo, con la profondità critica e stilistica di chi guarda dentro l’uomo, riesce a rintracciare, anche da sparute tracce, le azioni le idee e i progetti di donne e uomini capaci di affrontare le malattie del nuovo mondo postmoderno, spesso, come dicevamo, dai primissimi sintomi: il ritorno della guerra e degli armamenti più o meno tecnologici come unica prospettiva storica, il controllo dei bisogni come strumento di torsione privatistica dello stato sociale, la trasformazione del lavoro in nuovo servaggio, senza diritti, senza garanzie, senza reale progresso.
Da questo punto di vista, il racconto che dà il titolo alla raccolta, è esemplare: con precisione e quasi distacco di storico ma con l’emozionante partecipazione di chi quei fatti li ha visti e ha contribuito a farli crescere, narra delle proteste contro l’installazione del grande centro di controllo militare noto come MUOS, a Niscemi, in contrada Ulmo appunto; si riconoscono volti, storie, intenti, sconfitte. Sì, perché leggendo questo libro, bisogna fin da subito abituarsi al sapore della sconfitta, che però è un sapore necessario: conta infatti di più il motivo delle scelte, in quanto il cammino da compiere è più importante del traguardo, se si vuole costruire il senso di un’esistenza. I protagonisti dei racconti di Barberi, di fronte ad ogni bivio, è come se scegliessero sempre la strada più impervia, ingombra di ostacoli: la vita va guadagnata, sembra essere questa la loro idea originaria, la vita va sofferta per essere vita (solo chi soffre sa, dicevano i tragici greci).
Mi piace pensare, da questo punto di vista, al racconto Rita, dove la lotta spesso solitaria per far valere la propria dignità di cittadina diventa poco a poco una lotta per la propria stessa sopravvivenza, la malattia essendo la forma massima di solitudine. Malattia che torna più volte, in tutto il libro, anzi è protagonista di interi racconti (Vita di Anselmo, Il Dottor S.): la malattia che dà al potere la possibilità di trasformarsi, di ingannare, di svendere il diritto alla salute a favore della privatizzazione del dolore, della mercificazione della sofferenza. Il potere, dice subito l’autore, è proteiforme, ci irretisce, priva dello stesso spirito di cittadinanza e di partecipazione, e infine ci accompagna dolcemente verso la morte.
Eppure, suggerisce Barberi, non saremo mai veramente soli di fronte alle ingiustizie se avremo la forza di credere nella nostra stessa umanità, se ci affideremo agli altri per vedere di più, per capire di più.
Tutti i racconti, in definitiva, aprono degli squarci nella tela, strappano appunto le nostre piccole sicurezze di individui, ci terrorizzano in parte. Ma questa terra guasta è pur sempre tutto ciò che abbiamo, ed è dovere di un’umanità memore, difenderla, sottrarla alla spirale di violenza verso cui la spinge il potere. E allora nessuno può davvero sentirsi sconfitto, se la sconfitta è l’esito di una vita spesa nella difesa delle donne e degli uomini, dell’ambiente, della terra. Già, la terra delle aree interne del sud, mondi destinati al silenzio, alla diaspora dei pochi abitanti rimasti, come ormai suggeriscono esplicitamente i massimi esponenti delle classi dirigenti. E c’è nelle descrizioni dei paesaggi, dei borghi, la tenera voce di chi ha comunque deciso di vivere fino in fondo i propri luoghi, di non lasciarli nonostante tutto. E ritorna l’eco delle parole, e delle idee, dei grandi maestri della letteratura siciliana del secondo Novecento, Sciascia e più ancora Consolo. Barberi non solo racconta, non solo testimonia, ma illumina gli angoli più bui con la luce della memoria, una memoria che serva per le generazioni che verranno, non certo per cullare di malinconia le attuali. Per far questo, trova il giusto ordine nelle cose, costruisce una tassonomia, ricorda i rapporti di causalità, per evitare che i fatti raccontati siano appunto semplicemente storie, seppure siano in ogni caso storie, liriche, coinvolgenti, enigmatiche, ricche.
L’autore sente la necessità di fissare lo sguardo su chi ha avuto il coraggio di guardare più in là e spesso in direzione obliqua, e dà spazio a chi ha fatto fatica a trovare il proprio, di spazio: e lo fa tra le pagine di uno stile aspro ma accogliente, inesorato ma sensibile, uno stile che concede niente alle spesso esotiche tendenze letterarie della narrativa isolana.
Le cose che accadono, troppo facilmente vengono ignorate o travisate, a favore di una trasmissione di idee e visioni utili solo ad addormentarci. Questo libro, come dovrebbe fare sempre la vera letteratura, ci tiene svegli, quasi insonni.
E’ un libro che parla di tante cose, e tutte dovevano essere dette, e scritte.
In apertura Muos satellite a Niscemi