L’Adhd, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, è attualmente il disturbo del neurosviluppo più frequentemente diagnosticato nei bambini e rappresenta una condizione in costante crescita tra gli adulti.
È più o meno noto a tutti che i sintomi cardine di questo disturbo sono l’incapacità a concentrarsi quando si devono eseguire compiti che si ritengono noiosi, l’iperattività e l’impulsività. A ciò va aggiunto che l’Adhd è una diagnosi in cui il comportamento ed il cattivo funzionamento scolastico e lavorativo rivestono un ruolo cruciale.
Sulla sua diffusione la scienza ci dice che circa il 5,3% dei giovani ed il 2,5% degli adulti nel mondo ne sono affetti (per avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno si calcoli che secondo l’Oms nel mondo la percentuale di persone affette da depressione è del 5% circa).
L’incidenza di nuove diagnosi di Adhd è cresciuta costantemente negli ultimi venti anni e con essa sono cresciute le prescrizioni dei farmaci in tutto il mondo.
Uno studio recente ha evidenziato come tra il 2015 e il 2019, in 64 Paesi, l’incremento di prescrizioni di farmaci per l’Adhd sia aumentato del 9,7% ogni anno.
Si parla quindi di milioni e milioni di persone nel mondo a cui è stato diagnosticato un disturbo che presenta dei sintomi altamente aspecifici e che si riscontrano in moltissime altre patologie psichiatriche e non solo. Il neurologo Richard Saul, autore nel 2014 del volume Adhd does not exist, ci ricorda in un suo intervento sulla rivista Time, come sia necessario un lavoro di diagnosi differenziale più approfondito e siano oltre 20 le condizioni mediche che possono generare i sintomi dell’Adhd tra cui: i disturbi del sonno, problemi di vista e udito non diagnosticati, l’abuso di sostanze tra cui marijuana e alcol, la carenza di ferro, il disturbo bipolare e depressivo maggiore, il disturbo ossessivo-compulsivo, la dislessia.
È generalmente accettato nella comunità scientifica che l’incremento delle diagnosi di Adhd e della prescrizione di farmaci sia il risultato non di un aumento della prevalenza del disturbo ma sia la conseguenza di una maggiore consapevolezza dei medici, dei genitori e degli insegnanti rispetto all’Adhd, oltre che di un cambiamento nei criteri diagnostici. Tradotto in parole povere le diagnosi di Adhd aumentano non perché vi sia un reale aumento dei casi ma come conseguenza di una maggiore conoscenza, o forse sarebbe meglio dire a causa dell’aumentata notorietà, del disturbo in questione.
In termini pratici, lo scenario odierno è costituito da persone di tutte le età (bambini e adulti) che, sperimentando in diverso modo problemi di attenzione a scuola o sul lavoro, si auto-diagnosticano o a cui viene diagnosticato l’Adhd.
Da dove nasca questa conoscenza così diffusa e altrettanto superficiale dell’Adhd tra la popolazione, in particolare dei giovanissimi, è cosa nota. I social, Tik Tok e Instagram in particolare, sono oramai diventati una cassa di risonanza attraverso la quale persone con il disturbo, influencer “generalisti” e, cosa ancora più grave, esperti medici, psicologici e sedicenti tali, inondano il web con reel in cui si parla dell’Adhd in tutti i suoi aspetti (sintomi, diagnosi, comorbidità, terapia). Tutto ciò contribuisce alla notorietà social dell’Adhd che rende questa diagnosi più socialmente accettabile, e quindi ricercata, rispetto ad altre.
L’auto-diagnosi dell’Adhd rappresenta un fenomeno diffusissimo, tanto che sempre più spesso si giunge dallo specialista solo in un secondo momento per avere una conferma della diagnosi o alla ricerca della tanto agognata terapia farmacologica.
Ma le voci critiche rispetto alla diffusione dell’Adhd sono molteplici, a partire da quelle in ambito scientifico. Una recentissima pubblicazione uscita nel 2025 sulla rivista European Psychiatry (“Diagnosing Adhd in adults in randomized controlled studies: a scoping review”), mette in seria discussione la produzione scientifica sull’Adhd in particolare la validità metodologica di come viene diagnosticato l’Adhd all’interno degli studi Rcts (Randomized Controlled Trials). Su 292 trial clinici randomizzati è stato evidenziato come la metà non abbia fornito valutazioni diagnostiche ampie e approfondite, rendendo di fatto questi studi inaffidabili.
Gli autori dell’articolo pubblicato su European Psychiatry hanno evidenziato tre questioni che sollevano preoccupazioni circa la qualità del processo diagnostico. Primo: non è stata svolta una valutazione psicopatologica generale. Secondo: non è chiaro chi ha formulato la diagnosi di Adhd e solo in 1/3 dei casi è stata fatta da un medico o da uno psicologo, in molti studi sono stati inclusi soggetti affetti da altre patologie psichiatriche. Questo articolo getta interrogativi inquietanti circa le pubblicazioni scientifiche che si occupano di Adhd in particolare sul fatto, altamente probabile, che vengano diagnosticate come Adhd situazioni cliniche che invece non lo sono, cosa che spiegherebbe, almeno in parte, l’escalation epidemiologica del disturbo.
Sulle cause dell’Adhd parte della scienza ripete il consueto mantra, comune alle altre patologie psichiatriche, della genesi multifattoriale, in cui su una base di predisposizione genetica agirebbero una serie di fattori ambientali che porterebbero all’insorgenza del disturbo. Qui il discorso si fa complicato e meriterebbe un approfondimento in uno spazio più ampio e dedicato. Vale la pena però evidenziare un paio di dubbi su tale impostazione. Il primo aspetto è epistemico e riguarda il fatto che quando si parla di predisposizione genetica ci si riferisce sempre ed esclusivamente ad alterazioni di geni che in qualche modo regolano la fisiologia del cervello.
Viene da chiedersi perché certa scienza insista ad identificare nel solo organo cervello la sede della mente, escludendo il vissuto corporeo e concependo un cervello disincarnato, ossia scisso dal corpo stesso. Secondo punto, riguarda la ‘lettura’ che viene data dei sintomi dell’Adhd. Agitazione, difficoltà a concentrarsi, impulsività, difficoltà a regolare emozioni negative quali la rabbia, soprattutto in un bambino ed in un adolescente, possono innanzitutto essere non dei sintomi di malattia, ma delle spie, dei campanelli di allarme che qualcosa intorno a loro non funziona.
Tanto più i sintomi del supposto Adhd sono precoci tanto più dovrebbe essere buon senso comune avere una certa prudenza prima di fare una diagnosi di un’alterazione del neurosviluppo. A nostro parere risulta infatti complesso e rischioso definire con precisione quali siano le tappe fisiologiche dello sviluppo di un essere umano. Si corre il rischio di diagnosticare come patologico un semplice “ritardo” nel conseguimento di alcune competenze, senza tenere conto innanzitutto che i tempi di maturazione sono diversi da bambino a bambino e che alcuni possono necessitare di percorsi educativi alternativi per sviluppare a pieno le proprie capacità.
Nella diagnosi e nel trattamento dell’Adhd entra pesantemente in gioco non solo l’ambiente familiare ma anche quello scolastico. In una diagnosi che rischia da una parte di etichettare un comprensibile disagio come patologia sostanzialmente del cervello, dall’altra di creare una paradossale deresponsabilizzazione dei soggetti coinvolti, dei loro familiari e degli insegnanti.
Districarsi tra una visione organicista che punta sull’ereditarietà e sulla genetica, una negazionista di binswangeriana ispirazione (non c’è nessuna patologia, sono solo ‘diversi’ ovvero neurodivergenti) e gli enormi interessi economici che ruotano intorno all’Adhd, è sicuramente difficile. Ma negare che esista un quadro clinico tipico dell’Adhd è antiscientifico almeno quanto lo sono alcuni studi ed un certo approccio clinico che non tiene conto in maniera seria di eventuali diagnosi differenziali. È necessario, a nostro parere, portare avanti una ricerca che approfondisca sia le cause psicodinamiche che ad oggi sono relegate ai margini, sia che chiarisca meglio i confini di un disturbo che oggi di confini non ne ha (una buona fetta della popolazione mondiale, se ci atteniamo ai criteri diagnostici, potrebbe vedersi affibbiata una diagnosi di Adhd).
In conclusione, vale la pena citare le parole di Mark Fisher, filosofo, sociologo e blogger, autore di Realismo capitalista (edizioni Tlon), che sebbene possano apparire come un iperbole che nasce da una lettura socio-politica, sono invece uno spunto di riflessione che può aiutarci a comprendere e delineare questo fenomeno: «Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell’essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediatica».
Proprio per questo, ed altri aspetti, appare necessario tenere acceso un riflettore sull’Adhd e tornare in futuro sull’argomento.
L’autore:Alessio Giampà è psichiatra e psicoterapeuta E’ in uscita un suo libro su Adhd, scritto con Alessia Barbagli e Marco Randisi edito da L’Asino d’oro




