Roccella ha parlato di Auschwitz come se fosse un fastidio, un rito retorico da superare. E così, nel tentativo di negare la responsabilità del fascismo, ha mostrato quanto profonda sia la continuità culturale con quel passato che finge di condannare

Eugenia Roccella ha detto che «le gite ad Auschwitz» sono servite solo a far credere che l’antisemitismo fosse «una questione fascista e basta». Ha usato il campo di sterminio come terreno per il suo piccolo gioco ideologico, come se la memoria potesse essere piegata a un dibattito da talk show. Liliana Segre le ha risposto con una frase che dovrebbe bastare a chiudere ogni discussione: «La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi».

Ma questi sono gli stessi che evocano Segre solo quando serve, che agitano la sua storia come scudo morale contro chi chiede giustizia per Gaza e poi, appena si distraggono un secondo, lasciano uscire la loro vera natura. Per loro tutto – la Shoah, la Resistenza, la pace – è materia prima per la propaganda, per lo storytelling di un potere che vuole riscrivere la realtà.

Roccella ha parlato di Auschwitz come se fosse un fastidio, un rito retorico da superare. E così, nel tentativo di negare la responsabilità del fascismo, ha mostrato quanto profonda sia la continuità culturale con quel passato che finge di condannare. Gli stessi che negli ultimi due anni si sono autoeletti maestri di antisemitismo, oggi rovesciano la Storia per salvarsi la coscienza.

Auschwitz non è un’idea. È un luogo. È il confine morale che divide la civiltà dalla barbarie. Chi lo relativizza non ha solo smarrito la memoria: ha deciso di schierarsi dall’altra parte. Ed è lì che oggi si colloca una destra che confonde la giustizia con l’oblio. 

Buon lunedì. 

In foto la ministra Eugenia Roccella, foto di Quirinale.it,