«The pregnant woman is perhaps the last therapeutic orphan» recita un editoriale di K. Wisner del 2012, che pone l’accento sul lungo cammino che hanno ancora oggi da fare le scienze psicologiche e psichiatriche sul tema della perinatalità.
A distanza di 10 anni sappiamo che la depressione perinatale affligge dal 6.5% al 12.9% delle donne con differenti valori a seconda del trimestre di gravidanza, per aumentare fino al 19% durante il periodo del post partum. Si caratterizza per diversi quadri clinici che vanno da situazioni lievi come insonnia o cambiamenti di appetito che durante la gestazione possono essere erroneamente attribuiti a sintomi gravidici, generando una sottostima del problema, a quadri clinici più conclamati, soprattutto nell’immediato post partum, espressione del conflitto tra aspettative immaginifiche ed esperienza reale della maternità.
Un vasto mondo sommerso di affetti andati più o meno in frantumi popola il mondo interiore delle donne affette da depressione che si accingono ad entrare in un regno sì sconosciuto, ma che impone al contrario un serrato confronto con un “sapere” della nascita e del rapporto interumano che non può non derivare dalle esperienze vissute e dalle elaborazioni di esse. Non si può tralasciare l’impatto sociale della maternità, che la definisce in maniera così tagliente e stigmatizzante come un evento inequivocabilmente felice, finendo per impedire alle neomamme in crisi di formulare una richiesta di aiuto, complice la morsa stringente della depressione. Cosicché la risoluzione dall’angoscia può avvenire per diverse vie: la spietata chiusura nel silenzio, la delega delle competenze materne ai familiari, o ancora peggio la rapida ricostruzione in un assetto razionale o la fine della vita.
Dei tanti casi di cronaca nera di cui i media accennano molto spesso senza approfondire, merita una riflessione la storia di Laura (nome di fantasia) incinta al nono mese, che ha scelto di morire il giorno della vigilia del suo compleanno. Si racconta di una grande stanchezza, un vissuto di “impotenza” rispetto agli impegni professionali, e di un’esperienza di cambiamento dopo l’infezione da Covid. Una lettera racchiudeva una lunga lista di consegne ai colleghi, come se il lavoro fosse stato l’attività principale di cui avere cura. Nessun accenno alla gravidanza. La stampa tende a decentrare il reale problema veicolando grosse responsabilità sull’attività lavorativa, come se potesse bastare ridurre ad una situazione materiale per quanto onerosa e impegnativa, una scelta psichica così estrema.
Quando la solitudine è uno stato interiore così ingombrante, nemmeno la rete familiare, se presente e disponibile, riesce a…
L’autrice: Daniela Aiello è psichiatra e psicoterapeuta
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