Casa di Saïda è il quartier generale delle lavoratrici agricole di Fernana, una piccola cittadina rurale a una ventina di chilometri da Jendouba, capoluogo dell’omonimo governatorato del nord-ovest della Tunisia. Nella villetta di cemento a vista incastonata tra colline coperte da pascoli, arbusti selvatici dalle proprietà medicinali e sporadiche colture, Saïda convive con la sua famiglia e con il cognato, che ne è il proprietario. Né lei né suo marito, infatti, potrebbero permettersi di pagare un affitto. La condivisione degli spazi con la famiglia allargata è serena e il patio di casa è spesso animato dal vocio delle molte donne che la vengono a trovare. Oltre a me, oggi a pranzo ci sono altre quattro ospiti: Hayet e Khouloud, membri dell’associazione locale di donne Dar Rayhana, partner dell’Ong italiana Cospe nella realizzazione del progetto Faire, di cui Hayet è coordinatrice territoriale; Fadhila e Fatma, amiche, colleghe di Saïda e sue future socie di una nuova attività economica che le vedrà coinvolte in prima persona come imprenditrici. «Qui è dove convochiamo le braccianti della regione per organizzare riunioni e formazioni, condividiamo le idee e le nostre storie. Dove Saïda ci fa sentire sempre a casa, prepara da mangiare e ci accoglie a braccia aperte», mi introduce Hayet.
Ma non è sempre stato così. Tre anni fa, Saïda riceveva di rado visite a casa. Né lei né le sue vicine della comunità locale avevano mai beneficiato prima di allora di interventi di sostegno governativi o internazionali. Era estranea a qualunque realtà associativa. Non partecipava a riunioni, incontri e formazioni, mentre ora ne è l’anfitriona e la promotrice. Viene adesso riconosciuta dalle altre lavoratrici rurali di Fernana come una leader, un esempio da seguire, anche se sembrerebbe non voler dare troppo risalto a questo ruolo. Alla domanda su come sia diventata femme ressource e come si senta ad esserlo, risponde imbarazzata, inclinando la testa a sinistra e nascondendo un sorriso più di umiltà che di timidezza. «Negli ultimi anni abbiamo accompagnato le braccianti della regione nel percorso di presa di coscienza riguardo ai propri diritti. Abbiamo proposto a Saïda e ad altre donne di essere femme ressource, leader nella costruzione di relazioni e di fiducia con le loro colleghe, per l’interesse e la dedicazione che hanno sempre dimostrato verso questo processo. Hanno una spiccata capacità di coinvolgimento e convocazione delle altre donne, che si fidano di loro», spiega Hayet.
Saïda ha quarantasette anni, le mani callose scolpite dal suo lavoro, orlate di unghie corte e smaltate. È madre di tre figli a cavallo del periodo adolescenziale che non hanno avuto la necessità di lasciare la scuola come ha dovuto invece fare lei all’età di tredici anni per cominciare a lavorare come bracciante, occupazione che non ha mai potuto abbandonare. Concentra nella sua statura modesta la forza e l’energia necessarie a condurre una vita gravosa con determinazione e perseveranza. Nella varietà della lingua araba parlata in Tunisia, viene riconosciuta come mra w noss: una donna e mezzo, espressione utilizzata per riferirsi alle lavoratrici agricole del Paese. Viene loro attribuito questo valore perché dimostrano una forza e una tenacia ineguagliabili nel lavorare instancabilmente per sostenere buona parte dell’economia nazionale e la vita delle proprie famiglie e comunità, nonostante siano sottoposte a condizioni di sfruttamento e di esistenza estremamente dure.
La storia familiare e personale di Saïda fa eco a quelle di tante altre donne della sua stessa zona di provenienza, in cui affonda le radici. Ricco di risorse idriche, ampie pianure e altrettanto fertili colline e montagne, il governatorato di Jendouba è uno dei principali fornitori di prodotti agricoli della Tunisia. La produzione cerealicola della regione nord- occidentale del Paese, di cui Jendouba fa parte, è stata di tale importanza sin dalla dominazione dell’impero romano da farle guadagnare l’appellativo di granaio di Roma. Percorrendo le dissestate stradine secondarie dell’entroterra, si possono notare ancora oggi le grandi estensioni di campi dorati, alternati ad appezzamenti coltivati a ortaggi, alberi da frutto, oliveti e pascoli. Come racconta Hayet, «Grandi proprietà terriere – si stima 200 ettari per famiglia – sono nelle mani di poche persone. La proprietà della terra è ereditaria e la ripartizione attuale proviene dal periodo della dominazione dell’impero ottomano. Durante la colonizzazione francese, queste terre sono state confiscate alle famiglie proprietarie ma poi, al momento della ritirata, riconsegnate esattamente alle stesse persone».
La famiglia di Saïda è di origine rurale. Così come la maggior parte della popolazione esclusa dal possesso di appezzamenti maggiori, i suoi nonni e i suoi genitori avevano un piccolo orto familiare e qualche animale. Lavoravano come braccianti in terre altrui, sia gli uomini che le donne. A poco a poco, però, la situazione è cambiata. Nel cercare la risposta, le nostre commensali scoprono di avere opinioni discordanti e talvolta sfumate sul perché. Appartenere a un certo ambiente socio-culturale spesso non permette di valutare con chiarezza e neutralità i fattori che cooperano a determinarlo e a veicolare i sottili e lenti cambiamenti che lo attraversano. Al giorno d’oggi, in un territorio in cui il tasso di analfabetismo delle donne provenienti dalla zona rurale tocca il 50% – 8 punti percentuali in più rispetto alle zone rurali del resto della Tunisia, secondo l’ultimo censimento nazionale – il lavoro agricolo è loro esclusivo appannaggio, fatta eccezione per l’utilizzo dei macchinari pesanti e, purtroppo, per la supervisione del loro stesso lavoro. I dati presentati dall’Associazione tunisina di donne democratiche (Atfd) nel rapporto sulle condizioni di lavoro delle donne nel contesto rurale, mostrano che sono loro ad assicurare il 79% della raccolta dei prodotti agricoli, il 70% del diserbo e il 65% della semina.
Saïda, Fadhila e Fatma sono d’accordo su certi aspetti cruciali che motivano questa rigida divisione dei compiti: i proprietari terrieri preferiscono contrattare solo le donne perché possono pagarle di meno rispetto a quanto pretenderebbe un uomo. I soprusi e le violenze verbali, inoltre, sono all’ordine del giorno. «Anche i lavoratori subsahariani di sesso maschile guadagnano di più di noi, ma devono costantemente nascondersi e scappare dalla polizia, perché non hanno documenti», racconta Saïda con una sincera nota di compassione. Il tasso di disoccupazione nel governatorato di Jendouba raggiunge il 26%, contro il 15% della media nazionale, spingendo anche gli stessi tunisini, soprattutto uomini giovani, a intraprendere rotte migratorie quasi sempre illegali. Rimane spesso alle donne l’incarico di occuparsi economicamente, e non solo, della famiglia.
Il lavoro agricolo è strutturato attorno alla figura di colui che localmente viene chiamato intermediario: il caporale. Saïda e Fadhila si svegliano alle tre della mattina, preparano la colazione per tutta la famiglia, vestono gli indumenti da lavoro e alle quattro sono già in strada ad aspettare il suo furgoncino, che le porterà al campo talvolta in più di un’ora di tragitto. La maggior parte delle grandi coltivazioni si trova nella zona pianeggiante che si estende tra le città di Jendouba e Béja, a sud-oriente delle colline di Fernana. Nel veicolo da nove posti a sedere vengono fatte salire diciannove donne. Le loro colleghe meno fortunate vengono stipate nei cassoni dei pick-up, esposte alle intemperie e ad altri pericoli.
Quest’immagine mi riconduce al Cinema Orione di Bologna in una notte piovosa di inizio primavera. Si sta proiettando la prima nazionale del film Il frutto della tarda estate, con la presenza della regista, la documentarista franco-tunisina Erige Sehiri. Il mio viaggio nella Tunisia rurale comincia qui, tra i primi piani ripresi da basse angolazioni dei volti delle donne raccoglitrici di fichi, all’ombra dei loro alberi frondosi e collosi. Al termine della proiezione, uno spettatore confessa alla regista che nonostante dalla visione del lungometraggio gli sia risultata evidente l’estrema vulnerabilità delle lavoratrici agricole, sono mancate a suo avviso pennellate di tragicità che rendessero lo spessore della loro sofferenza: «Queste donne ridono sempre». La risposta di Erige mi rimane impressa come il primo timbro d’ingresso in Tunisia: «Grazie per l’osservazione. Riconosco che c’è un messaggio implicito culturale che può non essere compreso dall’esterno. Di fronte alla scena delle donne caricate come bestiame sui pick-up, voi le vedete solo scherzare e cantare, è vero, mentre la reazione degli spettatori tunisini è di chiudere istintivamente gli occhi e di trattenere il fiato, come davanti a una scena clou di un film horror. Si aspettano che vada a finire come purtroppo troppo spesso succede nella vita reale: gli incidenti, le morti e gli infortuni sono molto frequenti».
Oggi non sono partita con Saïda e Fadhila alle quattro di notte, ma le ho raggiunte a metà mattina in un campo di patate nelle pianure vicino a Béja. Le trovo a testa in giù, impegnate a rincalzare la terra e a estirpare le erbe infestanti insieme ad altre sei colleghe, di cui due minorenni. L’aroma delle gramigne sradicate per restituire ordine e ossigeno ai bancali coltivati fa pizzicare le narici, sempre vicine al suolo. Il sole di metà giugno tra queste terre del pretestuosamente definito Sud del mondo è già alto e opprimente. Le donne si asciugano il sudore con i lembi dei fazzoletti annodati in testa. Le vene si dilatano; le tempie pulsano. Tra le colline di Fernana l’aria è più fresca. La schiena ricurva per più di sette ore sfinisce sia le adolescenti che le loro colleghe di oltre cinquant’anni. Nei brevi minuti di riposo che si concedono ogni tanto, di preferenza in piedi, per riequilibrare il baricentro e distendere i muscoli, Latifa recita poesie d’amore, Najet fa partire una canzone dal suo cellulare e Aziza lancia baci con le mani raccolte a grappolo. Verso mezzogiorno avvisano che è quasi giunta l’ora di lasciare il campo e ci incamminiamo poco dopo verso il furgoncino. Prima di riportarle a casa dovrà passare a prendere altre undici donne in servizio in un appezzamento vicino.
Oggi, sul Toyota bianco da nove posti, escluso l’intermediario che ne è l’autista e il proprietario, siamo in ventuno. Io e Khouloud, ospiti a pranzo a casa di Saïda, insieme a Hayet che ci raggiungerà più tardi, stiamo purtroppo facendo pendere l’ago della già precaria bilancia verso un sovraffollamento ancora maggiore. Dobbiamo partire comunque. Dopo qualche minuto di scompiglio per cercare di trovare il minimo spazio vitale per ciascuna, gli animi si distendono e ricominciano l’ilarità e il chiacchiericcio. Gli uomini, dicono, non sarebbero in grado di resistere a queste condizioni. Le coltivazioni della pianura scompaiono lentamente dalla vista e risaliamo le sinuosità della prima zona collinare, sostenute e cullate dalle spalle delle vicine sulle nostre. I loro respiri solleticano la peluria del viso. Gli sguardi ormai insonnoliti convergono verso l’enorme distesa d’acqua della diga di Sidi Bou Heurtma in lontananza, che annuncia tacitamente l’approssimarsi del ritorno a casa.
La loro giornata non è finita. Dovranno occuparsi delle faccende domestiche, della cura dei figli e, alcune, del proprio pezzetto di terra o di qualche animale da allevamento.
Come ogni altro giorno di lavoro – normalmente sei su sette, oggi hanno guadagnato 10 dinari a testa: 3 euro, che verranno corrisposti loro alla fine della settimana. In nero, senza assicurazione sociale, garanzie per il futuro né misure di sicurezza. Nessun diritto alle ferie e alla copertura in caso di malattia o di infortunio. All’intermediario spettano 5 dinari al giorno per ciascuna donna che porta a lavorare: oggi ne ha guadagnati 95.
Secondo lo studio L’economia informale in Tunisia, realizzato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo – Undp e dall’Organizzazione internazionale del lavoro – Oil, «il settore agricolo è uno dei maggiori serbatoi di occupazione informale nel Paese e presenta il più alto tasso di informalità, pari all’85,6%. In questo quadro, il drammatico ripetersi di incidenti mortali legati al trasporto non sicuro delle donne che lavorano nel settore agricolo ha suscitato più volte scalpore tra i tunisini. Molti si sono anche indignati per la mancanza di una copertura previdenziale decente e, soprattutto, di un quadro normativo in grado di proteggere queste donne dalle pratiche di sfruttamento illegale messe in atto da intermediari e trasportatori, analoghe a quelle della tratta di esseri umani».
«Non possiamo stare senza intermediario», spiega Saïda, mentre ci offre il the amaro e corposo che si beve dopo pranzo, «perché il proprietario terriero vuole negoziare solo con una persona, e solo con un uomo. Solo lui ha i contatti degli agricoltori, ci trova il lavoro, si occupa del trasporto e ci supervisiona. Proviene sempre dalla nostra stessa zona. Per esempio, noi siamo tutte di Fernana, e andiamo a lavorare dove c’è bisogno, anche lontano da casa. I nostri uomini, mariti e padri, si sentono sicuri solo se ci accompagna un altro uomo della stessa comunità». Khouloud sottolinea: «Non so se il termine sia appropriato, ma tra di noi questa la chiamiamo mafia». Sostenuta da dinamiche sociali conservatrici e patriarcali.
Fadhila è più silenziosa di Saïda, forse più introversa, ma i suoi ampi sorrisi rivelano la stessa accoglienza e le sue strette di mano la stessa tenacia. Riprende il discorso dell’amica, aggiungendo che, nonostante tutto, ora si trovano meglio con l’attuale intermediario. «È un caso più unico che raro: non ci tratta male. Se abbiamo bisogno di qualche dinaro in un periodo dell’anno in cui non c’è lavoro o durante la settimana, prima che arrivi la paga, lui ce li presta, per poi trattenerli da quella successiva. Il vecchio intermediario, invece, ci sfruttava molto. Voleva che lavorassimo il doppio turno giornaliero, mattina e pomeriggio, ma del secondo ci pagava solo una piccola parte, intascandosi il resto. Ci siamo ribellate e ne abbiamo cercato un altro».
Per Fatma, invece, alta e magra, uno sguardo malinconico incorniciato da rughe simmetriche che finiscono dove cominciano le cuciture dell’elegante hijab azzurro, la situazione è adesso più complicata. È la più anziana del gruppo. Un paio di mesi fa, dopo trentacinque anni di lavoro come bracciante, si è fatta male alla schiena. Non potrà più lavorare come le altre, quindi non ha nessuna possibilità di chiedere un anticipo all’intermediario. Il marito riesce a trovare solo occupazioni occasionali. Fanno fatica a sostenere le proprie spese mediche e quelle della figlia con disabilità. L’unica alternativa su cui Fatma sta riversando le speranze è il progetto di allevamento di pecore che ha proposto insieme a cinque amiche e colleghe, tra cui Saïda e Fadhila, alle responsabili del progetto Faire.
Coronando gli sforzi fatti per sostenere le braccianti nel rendersi protagoniste del proprio futuro, Cospe e Dar Rayhana le hanno accompagnate nell’identificazione e nell’elaborazione di idee di impresa collettive, contribuendo al loro finanziamento. «Le donne rurali sono portatrici di un grande savoir-faire. Non sono passive, hanno tantissime cose da insegnare. Conoscono la vita meglio di noi, e noi contribuiamo affinché possano conoscere i propri talenti, i propri diritti. È importante che sentano che il dialogo con noi sia privo di pregiudizi; devono potersi sentire libere di condividere con noi qualunque aspetto che vogliano delle proprie vite. Possono certamente cambiare la loro vita, ma non dev’essere imposto. La visione di Dar Rayhana è che l’empowerment economico sia il problema principale nella regione. Un giorno, durante un focus group, una donna ci ha detto che aveva subito violenza dal marito perché gli aveva chiesto dei soldi per comprare del pane. Abbiamo capito che dovevamo partire da lì. Affrontando i diritti economici, possiamo arrivare ad affrontare a poco a poco anche tutti gli altri», racconta Nacyb, presidentessa di Dar Rayhana che ci è venuta a prendere a casa di Saïda mentre il pomeriggio volge ormai al termine.
Prima di accomiatarci, Saïda vuole mostrarci dove alleveranno le pecore da carne. Con l’aiuto della figlia maggiore, approfitta per portare al pascolo nel terreno sotto casa del cognato i pochi ovini della sua famiglia, che si annunciano irrequieti e scalpitanti facendo rimbombare le corna contro il portone della stalla. «Ci occuperemo delle pecore in sei amiche, vicine e colleghe che conosco da molti anni. A rotazione, due di noi ogni giorno si occuperanno dell’allevamento, mentre le altre andranno a lavorare nei campi. Anche prima ci aiutavamo a vicenda, ma senza conoscere bene i nostri diritti. Ora ci siamo rafforzate, riconosciamo meglio le ingiustizie, sappiamo organizzarci e prendere decisioni. Il prossimo passo potrebbe essere creare un’associazione o un Gda (Gruppo di sviluppo agricolo) tra di noi, per poterci strutturare ancora di più, ricevere finanziamenti e sovvenzioni statali e renderci indipendenti dal lavoro come braccianti».
Wiem, la figlia maggiore di Saïda, segue con lo sguardo la madre e l’ascolta attentamente. Ogni tanto scatta a rincorrere un animale che cerca di allontanarsi dal gregge e lo riporta indietro, tra le sue braccia o trascinato da una corda. Il sole ormai basso illumina di taglio le colline punteggiate di cespugli e di edifici spogli di cemento. Dal loro tetto piatto si innalzano le barre di ferro per la costruzione di un ulteriore piano, lasciate a vista come promemoria e proposito di un futuro più prospero. Chiedo a Wiem se le piace vivere qui. «Sì, ma ho visto mia madre soffrire così tanto in tutti questi anni che non voglio lavorare in agricoltura, in nessuna mansione. Se proprio dovesse rendersi necessario, farei almeno lavorare gli uomini al posto delle donne!».
Salutiamo Saïda e la sua famiglia, Fadhila e Fatma. Mentre imbocchiamo la strada per Jendouba, Khouloud rassicura che le rivedremo presto: «Conosco queste donne sin dall’inizio del progetto Faire; ho cominciato questo viaggio con loro. Penso che siano le nostre eroine nazionali. Durante la pandemia, quando la maggior parte di noi stava seduta a casa, loro andavano al campo a lavorare per darci da mangiare, rischiando la propria salute, come fanno ogni giorno. Io le ho conosciute in quel periodo. Appena possibile, le andavamo a trovare a casa e loro venivano alla casa della nostra associazione a preparare il caffè. È una connessione meravigliosa, non è solo lavoro. Noi non le stiamo aiutando, stiamo solo cercando di essere mediatrici affinché possano migliorare le proprie condizioni di vita e nel frattempo impariamo da loro. Lavoriamo così, come attiviste dell’associazione; crediamo che le relazioni umane siano la cosa più importante. Ciò che rimarrà per sempre, anche quando i progetti saranno terminati. Noi continueremo ad andarle a trovare e a farci forza a vicenda, perché sono nostre sorelle».
People, planet, peace: l’8 settembre a Firenze l’evento per i 40 anni del Cospe
Dal 1983 l’Ong è attiva in molti angoli del mondo con progetti incentrati sul ripudio delle ingiustizie sociali e delle discriminazioni di ogni genere, sulla giustizia ambientale e sulla cura dei beni comuni. In occasione dell’anniversario dei 40 anni, dalla mattina fino alla sera dell’8 settembre a Firenze sono in programma numerosi eventi (il programma completo di People, planet, peace qui). Incontri con gli operatori Cospe, dibattiti sui diritti ambientali e civili, mostre di fotografia e, in chiusura della giornata, lo spettacolo The story is sick (nella foto), con la compagnia teatrale palestinese Ayyam al Masrah – Theater Day Productions, l’unica attiva dal 1995 nella Striscia di Gaza. Introducono lo spettacolo il console italiano a Gerusalemme Giuseppe Fedele e l’attore e scrittore Moni Ovadia.