Quella che segue è una riflessione a più voci tra l’insegnante di Storia e Filosofia, Marco Cosentina e alcuni studenti del Liceo Ariosto-Spallanzani di Reggio Emilia, Rossana Meggiato, Emilio Montero Piccinini ed Edoardo Ficarelli, organizzatori del convegno sulla Palestina, che si è tenuto sabato 13 aprile presso l’Aula Magna dell’Università di Modena e Reggio. All’evento hanno partecipato storici, giornalisti, filosofi, analisti, operatori umanitari e cittadini italiani di origine palestinese.
Marco: La guerra ormai è diventata una narrazione legittima, all’interno di una rassegnata disciplina volontaria all’ordine del reale, che non sembra affatto consegnare al futuro spiragli di orizzonte umano, ma solo un’incurabile rassegnazione al peggio. La scuola è il luogo dove si collaudano quelle tendenze in atto che esercitano un portato egemonico tale, da disporre anche i vissuti al controllo ideologico. L’incontro intergenerazionale spesso conosce una torsione impropria che apre ad un malinteso cognitivo intorno al senso da attribuire ai saperi. Cosa significa conoscere? Quale significato attribuire all’insegnamento? Davvero vogliamo ridurre la complessità e il rischio dell’apprendimento a mera performance competitiva? Ad un’estetica di basso profilo mercificante, quale quella del cosiddetto “capolavoro”? Oppure occorre fondare un campo disciplinare che nutra il pensiero critico e una prassi consapevole, un paradigma di intervento che filtri la realtà, cogliendone i nuclei di contraddizione, così da poter esercitare il cambiamento?
In tale prospettiva ho accolto la proposta di Rossana, di organizzare un convegno di approfondimento sulla tragica situazione in Palestina. Dopo una precedente esperienza, relativa alla guerra in Ucraina, a fronte del clima censorio che si respira ovunque, abbiamo messo in piedi, con la collaborazione di altri studenti, un incontro, così da disporre i ragazzi ad interventi che avessero come obiettivo il mettere a fuoco una tematica tanto urgente e grave, quanto storicamente stratificata, emotivamente densa e per molti aspetti divisiva. Lo spirito che mi ha animato è quello che da sempre orienta il mio essere insegnante: far entrare la realtà nella scuola, per far della scuola un momento essenziale che operi nel reale. Quello cioè che dovrebbe essere il parametro di riferimento di ogni programmazione didattico educativa. Anzi il criterio di fondo che dovrebbe strutturare l’intera cornice concettuale dell’istruzione. E ciò a maggior ragione rispetto ad una tirannia della violenza che sembra pervadere la stessa trama lessicale dell’universo mediatico, che sembra voler sdoganare il tabù della guerra e incitare alla demonizzazione di ogni dissenso vocato alla pace.
Proprio per questo, il primo compito che si è proposto tale evento è stato quello di sviluppare una sorta di disamina “igienica” del linguaggio, così da cercare di restituirne il portato di autenticità, essenziale ad una corretta interpretazione dei fatti. Analizzare i singoli lemmi, focalizzarsi sul significato etimologico di specifici termini, ha significato poter riappropriarsi dei legittimi criteri di orientamento, evitando la propaganda, per una lineare ricostruzione storiografica. Una Storia che tra l’altro trova sempre meno spazio nei contesti istituzionali, sia in quelli come la scuola, vocati alla trasmissione del sapere, (si riducono le ore di insegnamento a discapito di programmi sempre più estesi), sia quelli dove la disciplina diviene luogo della strumentalizzazione e del tentativo di ridefinizione del passato, alla luce delle proiezioni di dominio sul presente. A partire proprio da un uso mistificante dei fatti. Quei fatti che però attraversano la carne ed il sangue, i corpi e le emozioni di altri esseri umani, travolti dalla catastrofe bellica, ai quali ci sembrava giusto e doveroso restituire la parola, così che la testimonianza fungesse da guida al principio della compassione e della solidarietà nei confronti di tutte le vittime, ed allo stesso tempo spingesse ad una maggior motivazione a comprendere quegli eventi che ne avevano determinato la sofferenza.
Emilio: Partendo da questa prospettiva, la conferenza ha trattato trasversalmente nel suo svolgimento due temi salienti, non limitandosi quindi a un’esposizione compartimentata, per così dire, di argomenti eterogenei, offrendo invece al pubblico una narrazione dinamica e continua, intervallata da letture di approfondimento.
I due nodi intertestuali attorno ai quali è fiorito il dibattito sono l’idea di democrazia e il concetto di apartheid, introdotti rispettivamente da una contestualizzazione storica a cura di Istoreco e da un brano tratto da J’accuse di Francesca Albanese.
Edoardo: La molteplicità di opinioni differenti, e in alcuni casi discordanti, ha dato luogo a un meccanismo di reciproci riferimenti e commenti da parte dei singoli relatori che hanno arricchito il tessuto dialettico del convegno con considerazioni frutto delle loro visioni personali. Una presa di posizione, per quanto discutibile, criticabile e non priva di rischi, a nostro parere diventa essenziale nell’affrontare l’urgenza di tematiche così coinvolgenti.
Marco: l’indifferenza spesso è alimentata non solo da un clima culturale che esorta al culto narcisistico dell’io, un io smarrito che nella corsa contro gli altri distrugge le articolazioni stesse del vivere civile. L’indifferenza si riflette nelle angosce che ciascuno subisce di fronte all’isolata traiettoria a cui sembra destinarci il presente, in un’assenza di meccanismi di protezione sociale. Bisogna ritrovare le passioni vitali, i luoghi dell’agire collettivo. Dibattere, organizzarsi. Anche semplicemente incontrarsi, per cercare di comprendere una crisi così profonda e gravida di morte e distruzione, quale quella che innerva gli scenari contemporanei, è un modo di resistere, un tentativo di tracciare una rotta, laddove solo nell’incontro e nello spazio pubblico del confronto intellettualmente onesto, si può davvero provare a ridisegnare una prospettiva di crescita che stimoli lo sviluppo permanente di ambiti democratici. Sulla falsariga del noto slogan di Gramsci «istruitevi, agitatevi, organizzatevi» credo sia impellente che i ragazzi siano stimolati a ragionare, relazionarsi, appassionarsi. Non esiste una democrazia come mera astrazione istituzionale. Esiste un agire democratico che crea coscienza, radicalità, progetto, trasformazione, sfida, ricerca: crescita comune per una comune emancipazione, che nel dialogo e nella reciprocità negoziale del conflitto assuma i propri valori di riferimento, i propri corollari di identificazione politica. In altri termini deve esistere e si deve operare per una scuola pubblica, da definire come scuola di libertà per la pace.
Rossana: Credo che la mancanza d’azione o di parola di fronte ad una simile situazione di oppressione e violenza sia estremamente dannosa per la nostra coscienza e non faccia altro che rendere socialmente accettabile uno sterminio civile che non risparmia neanche i bambini. Per questo ho trovato sin da subito intollerabile un certo silenzio anche nell’ambiente scolastico. Ho deciso di porre la questione, per la prima volta, durante un’assemblea di classe, a novembre, ottenendo l’appoggio dei miei compagni di classe. Erano d’accordo sul fatto che il nostro grado d’informazione non era sufficientemente adeguato rispetto al livello di gravità della questione, eppure il conflitto va avanti dal dopoguerra. L’organizzazione di questo evento pubblico ha incontrato qualche difficoltà per il rischio di essere accusati di politicizzazione o strumentalizzazione. In realtà l’obiettivo era solo quello di aiutare i ragazzi ad elaborare un pensiero critico e libero. Evidentemente alcuni adulti preferiscono appiattirsi ad un pensiero “ufficiale” e non gradiscono che i ragazzi possano essere disallineati.
Nella foto: una immagine di Gaza dopo un attacco israeliano (Fars Media corporation)