Lucia Ianniello è una trombettista e compositrice campana che è giunta al traguardo del suo terzo album come bandleader KEEP LEFT and go straight South (Filibusta Records) pubblicato da poco e che la musicista presenta il 31 maggio ad Atina Jazz. Diplomata al conservatorio e proveniente dal mondo del jazz, la Ianniello si è sempre impegnata in una ricerca espressiva che superasse gli steccati dei generi musicali, spesso affiancata in questa esplorazione da Paolo Tombolesi, pianista, compositore e didatta e suo compagno d’arte e di vita. Il titolo dell’album rimanda ad un’immagine del “Sud” come metafora ideale di un mondo, a prescindere dalle sue mille contraddizioni, in cui poter vivere in modo più giusto e più “sano”. Come afferma Filippo La Porta nelle note di copertina «Il sud non solo come categoria geografica ma anche morale e antropologica. Il sud di Carlo Levi, di Ignazio Silone, di Albert Camus… in questi autori il sud si svela come preziosa utopia: critica del nord industriale, governato dal principio di prestazione e di efficienza, immagine abbagliante di felicità e nostalgia di una vita meno repressa, percezione del confine come spazio di incontro con l’altro”. La tromba di Lucia, pur riflettendo l’influenza poetica dei grandi del passato (pensiamo a Miles Davis e Kenny Wheeler) si esprime con un suo precipuo lirismo, con una particolare predilezione per le atmosfere sospese nelle quali, sfruttando magicamente il registro medio dello strumento, riesce a far risaltare tutti i colori della propria musica. L’abbiamo quindi incontrata in occasione dell’uscita del nuovo cd.
È un canto d'amore per il Sud, come metafora ideale di un mondo, il nuovo album che la musicista e compositrice presenta nell'ambito di Atina jazz il 31 maggio. L'abbiamo intervistata
Quali sono le differenze tra questo lavoro e i precedenti album da te pubblicati?
I miei dischi precedenti – Maintenant e Live at Acuto Jazz – pubblicati tra il 2015 ed il 2017 – facevano riferimento alla mia ricerca del momento intorno alla figura artistica e politica di Horace Tapscott, il grande pianista e compositore afro-americano che negli anni Sessanta fece il “gran rifiuto”, rinunciando ad una brillante e sicura carriera con l’orchestra di Lionel Hampton, per dare vita a una delle prime cooperative artistiche nere e ad un’orchestra a Los Angeles, nel quartiere di Watts. Nel frattempo, in questi ultimi anni è cambiato tutto, a cominciare dal mondo intorno. e sono cambiata anche io. Quei dischi, in cui si alternavano alcune mie composizioni e diversi brani di altri autori, sono il risultato, forse, di un approccio più teorico da parte mia. Questa volta il mio modello compositivo si è capovolto: il modus operandi tradizionale di chiudersi in una stanza davanti al pianoforte non funzionava più. Molti brani dell’album sono nati facendo lunghe passeggiate sulla spiaggia, in riva al mare mi venivano spontaneamente delle melodie che canticchiavo e registravo come appunti sul telefonino, che poi, tornata a casa, trascrivevo ed elaboravo al pianoforte, fino a dare forma compiuta a musica e testi, tenendo conto del grande contributo, costante, dei miei colleghi.
Parlaci dei musicisti che ti hanno affiancato in questa avventura.
Paolo Tombolesi resta la colonna portante di tutto il progetto, avendo condiviso con lui tutti gli aspetti creativi nonché il rapporto personale e creativo con gli altri musicisti coinvolti: Roberto Cervi alle chitarre, nonché co-autore con me di “South” e Alessandro Forte alla batteria, che compare in soli quattro brani del disco, ma che sarà presente nei concerti dal vivo in quanto divenuto parte integrante del progetto. Una menzione particolare va anche a Mery Tortolini, l’artista che ha realizzato la “La linea dello sguardo”, una bellissima opera riportata nella copertina del disco.
La sorpresa più grande del disco è la presenza dei testi e del tuo canto in lingua campana. Che puoi dirci in proposito?
Forse è emersa l’esigenza di voler comunicare, veicolare più esplicitamente dei pensieri. Forse è un tempo, questo, nel quale non si può stare più zitti… anche se oggi una serie di movimenti nazionali ed internazionali guidati anche dalle donne sono tesi alla rivendicazione di diritti fondamentali, la strada è ancora molto lunga e tortuosa. In questo senso mi piace citare il brano intitolato “Feronia” che chiude l’album, si tratta di un testo, quasi un rap stilizzato, che parla della realizzazione dell’identità delle donne e che si conclude con questa immagine di donna che procede, quasi in marcia per i propri diritti, con un bambino al seno. Ovviamente parlo di nascita in senso lato. Perché Feronia? È un’antica divinità italica, protettrice di tutto ciò che nasce, dai boschi alle messi e alle acque sorgive, ma era anche fonte di culto per gli schiavi liberati. Questi, infatti, venivano fatti sedere su un apposito sedile di marmo e il loro capo veniva coperto dal cappello frigio. Tra i diversi siti di culto di Feronia in Italia centrale ce n’è uno qui a Terracina, dove attualmente vivo, ma anche a Roma, nell’area di Largo di Torre Argentina.
“South” invece parla di treni e di viaggi, grazie alla memoria dei tanti percorsi in treno che ho vissuto, essendo andata via dal sud molti anni fa.
Il treno come “terra di nessuno” un luogo che sancisce una netta separazione dal mondo che si lascia e quello a cui si è diretti?
Come momento di separazione, certo. L’ispirazione di questo lavoro è nata in buona parte camminando, e geograficamente la spiaggia di Terracina guarda la Sicilia, l’Africa, da qui il titolo. Il Sud come luogo utopico ma non impossibile da raggiungere, un luogo “eutopico” a cui tendere. Forse la cosa necessaria oggi è aprire la porta di casa e mettersi in movimento, sapendo che il percorso, la direzione, sono più importanti dell’obiettivo stesso; superando le divergenze e le divisioni ideologiche, come è accaduto ai tempi della resistenza, marciando uniti verso un obiettivo comune come quello dell’antifascismo.
“Human Race” prende spunto da “Strange Fruit”, il famoso pezzo cantato da Billie Holiday che negli anni Cinquanta denunciava drammaticamente la violenza razzista dei bianchi nel sud degli Stati Uniti?
Gli “strani frutti” che pendevano dagli alberi sono oggi, come ieri, i migranti che perdono la vita in mare, i barboni che dormono tra i cartoni nelle stazioni così come i braccianti agricoli sfruttati nella raccolta dei pomodori, che fanno poi bella mostra nei nostri supermercati. Sono tutti frutti ritenuti “di scarto” da una società neoliberista, egoista e sempre più indifferente.
Come ti sei relazionata con il canto?
In maniera assai poco convenzionale, è quasi un gioco legato alle mie radici campane, che si rifà ai ricordi di quand’ero bambina, alle grida dei venditori ambulanti che ascoltavo per strada o nei mercati. Diciamo che sono una strumentista che si diletta cantando e che ci sta prendendo gusto.
Dal punto di vista musicale il disco sembra voler superare l’etichettatura legata ad un genere preciso. È così?
Anche se la nostra formazione è jazzistica, in questo lavoro sono chiaramente presenti aperture verso il rock e verso le sonorità contemporanee. Guardiamo oltre la classificazione del genere musicale, riteniamo che questa sia solo un’esigenza del mercato, e cerchiamo di esprimere ciò che siamo oggi. Questa musica racchiude in sé anche i miei ultimi cambiamenti di vita, che mi hanno portato a lasciare una città come Roma, per potermi concentrare nello studio e dedicarmi completamente alla musica. In questa direzione vanno i miei recenti studi di musicologia. Insomma, personalmente mi sento più vicina all’idea di una “musica totale” sulla falsariga di quanto teorizzato e realizzato da Giorgio Gaslini sin dagli anni Sessanta del secolo scorso.
C’è dell’altro?
Mi piace rivendicare, insieme a Paolo e ai miei colleghi, un approccio da musicista “pre-rivoluzione industriale”, di tipo “globale”, col quale vogliamo essere soggetti attivi e competenti di tutte le fasi del processo creativo, dall’ideazione alla composizione di musica e testi, dal lavoro in studio di registrazione alla grafica, rifiutando il sistema di specializzazione spinta e parcellizzazione dei compiti ormai imperante nell’industria musicale. L’obiettivo è quello di avere una forma di comunicazione che sia la più onesta possibile nei confronti del pubblico.