Riemerge come un flusso travolgente di forme astratte e colori squillanti l’opera di Carla Accardi inondando le sale bianche del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel centenario della nascita dell’artista siciliana la Capitale le dedica un’ampia e coinvolgente retrospettiva (fino al 1 settembre).
Le sue creazioni sono presenti nei circuiti museali internazionali ma negli ultimi anni la sua opera è stata alquanto trascurata da critici e curatori. E sul perché ci sarebbe molto da interrogarsi, visto il grande significato che la sua opera ha avuto sul piano artistico ma anche nell’aprire la strada ad altre artiste nell’avanguardia del Novecento.
All’indomani della guerra, mentre il suo docente all’Accademia di Venezia Arturo Martini le ripeteva che l’arte non è roba per donne e il padre le diceva che non si era mai vista una Raffaello donna, Carla Accardi realizzava due intensi autoritratti in pose raffaellesche e, nel frattempo, sperimentava a tutto raggio, abbandonando la figurazione, costruendo un proprio alfabeto personale di segni, fino a trovare una propria cifra originale con la serie dei “Bianchi e neri” che catturano potentemente lo sguardo dopo le prime prove scolastiche (e tuttavia interessanti proprio per capire l’entità della sua coraggiosa svolta).
Quelle danze di segni percorse da un crescente ritmo interiore che ci attraggono nella prima grande sala suscitarono l’interesse del critico francese Michel Tapiè, che cominciò a parlare di lei come esponente della corrente dell’Art autre, mettendola accanto a Alberto Burri, Antoni Tàpies e Georges Mathieu. Ed era solo l’inizio.
Attraversando le sale della mostra romana (ciascuna quasi monografica nel documentare le varie fasi creative dell’artista) curata da Paola Bonami e Daniela Lancioni si resta via via sempre più intrigati dalla fervida e continua ricerca di Carla Accardi.
Dagli esordi in una attardata Sicilia, emulando Kandinskij, i Fauves e Picasso, fino a trovare un proprio linguaggio visivo che si esprime in continui e sempre nuovi giochi di forma e colore. Andando oltre ogni steccato che all’epoca era anche di genere.
Certo lei era cresciuta in una famiglia siciliana colta che le aveva permesso di studiare, di frequentare l’accademia a Venezia, a Firenze e poi di trasferirsi a Roma, in via del Babuino, in quella casa con vista sui tetti che poi sarebbe stata sempre una casa studio, aperta agli incontri e al confronto con amici e colleghi, ma anche sede del gruppo Rivolta femminile, fondato nel 1970 insieme a Elvira Banotti, e Carla Lonzi da cui si allontanò perché la prassi dell’autocoscienza le andava stretta e le suonava troppo razionale e lontana dalla sua ricerca sulle immagini.
L’aver avuto una base materiale fu un vantaggio ma non era certo sufficiente per farsi strada in un’avanguardia della pittura che nel dopoguerra era tutta al maschile, anche a sinistra. Serviva talento e una grande consapevolezza di sé per poter portare avanti, quasi unica donna del gruppo Forma I, una propria ricerca nella galassia dell’arte astratta avversata anche dai dirigenti della propria parte politica.
Per questo forse è utile riannodare seppur brevemente i fili della storia. Nel 1946, pochi mesi dopo quello storico referendum in cui le donne, che avevano appena conquistato il diritto di voto, furono determinanti nella scelta della Repubblica, Accardi esordiva come artista.
Ventenne, era appena arrivata a Roma. Nel ’47 proprio nella Capitale nacque il gruppo Forma 1, con uno sguardo internazionale (ereditato dalla Resistenza che aveva sconfitto il fascismo) e rivolto al nuovo campo di ricerca dell’astrattismo. «Proponevano un’ arte nuova… un’arte senza figure, né storie, solo forme e colori che parlano alla sensibilità di tutti gli uomini e di tutte le donne di qualsiasi nazionalità essi siano», annota Miguel Gotor nell’introduzione al sostanzioso catalogo della mostra edito da Quodlibet.
Con Accardi facevano parte di Forma 1 Consagra, Dorazio, Turcato, Guerrini e Maugeri, Perilli, Sanfilippo, (con il quale Accardi si sposerà per poi presto, separarsi). Nel frattempo a Milano nasceva il Fronte nuovo delle arti, mentre a Mosca era all’opera Andrej Zdanov. Lo zdanovismo italiano non si manifestò prima dell’ottobre del ’48 quando Palmiro Togliatti, dopo l’attentato di luglio, poté riprendere, su Rinascita i panni di Roderigo di Castiglia. Per prima cosa stroncò la mostra bolognese dell’Alleanza per la cultura animata da Accardi e compagni. Una raccolta di «cose mostruose», di «orrori e scemenze», di «scarabocchi», scrisse dimostrando una totale assenza di apertura e di sensibilità artistica. Il gruppo Forma I, da sinistra, sfidava il realismo socialista proponendo una ricerca per rappresentare la realtà umana più profonda, andando oltre i canoni razionali della pittura figurativa che si limitava a riprodurre la percezione retinica. Ma l’establishment del Pci, tragicamente, non capì. E perse un’occasione storica. Intanto il gruppo cresceva e discuteva anche se rimanere o meno nell’alveo del Pci. La stessa Accardi fu iscritta al partito dal 1947-al 1956. «La fine della guerra – scriveva Consagra in Vita mia (Feltrinelli) fu una grande festa. A Roma arrivavano artisti, poeti, scrittori da tutte le parti d’Italia e poi dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’America».
«Perilli e Dorazio erano i più “letterati” del gruppo e Turcato era il più grande fra noi», ebbe a dire generosamente Carla Accardi, spiegando: «Forma I è stata soprattutto una premessa nel mio lavoro». Un manifesto e una rivista furono gli strumenti di riflessione teorica del gruppo che animò un forte dibattito culturale. Gli artisti del gruppo si dichiaravano marxisti e formalisti, convinti che non fossero scelte antitetiche. In polemica con Picasso, e più in sintonia con Matisse, sostenevano che un quadro potesse essere anche un complemento decorativo. «Associare funzione decorativa e opera d’arte fu una sfida. Gli artisti di Forma I perseguivano il desiderio di trasformare l’ambiente anche quello domestico) alla luce di una nuova sensibilità, offrendo a tutti un orizzonte nuovo e aderente ai tempi», scrive Daniela Lancioni nel catalogo Quodilibet.
«Avevo fiducia nell’evoluzionismo – ricordava Carda Accardi in una intervista del 1986, perché credevo nella possibilità di migliorare la vita, in un mondo che doveva sconfiggere le sofferenze con la scienza e il progetto sociale».
Una svolta avvenne nel 1947 quando Accardi visitò il Musée de l’Homme a Parigi, in particolare la sezione antropologica. «Mi fu di grande ispirazione» disse . «Mi servì per staccarmi da quella che era la mia formazione classica che privilegiava il Rinascimento. Venivo da Trapani, in Sicilia, una regione isolata dove però qualcuno viveva la cultura in modo vivace».
La ricerca di Carla Accardi si sviluppò in parallelo con l’Informale, ma cercando una propria strada autonoma, distinguendosene, mantenendo sempre, nell’astrazione, un rapporto con l’umano, in modo femminile.
Dal 1954 al 1959 ecco i quadri bianco e neri, con segni che si intrecciano e che sono fra le sue opere più conosciute. Lungo il percorso della mostra romana incontriamo il vocabolario segreto di segni neri circolari di Arciere in bianco (1955) e, tra le altre opere, Labirinto con settori (1956, dove alla danza del bianco e del nero si aggiunge il rosso, fino ad Assedio rosso e Bianco nero chiuso, che sembra ricreare un antico merletto a tombolo. I segni dinamici si irradiano tutt’intorno, l’immagine in filigrana è un pullulare di esseri umani, uguali e diversi che cercano una interazione, che si incontrano in gruppo.
Poi tra il 1959 e il 1963 Accardi riprese a usare i colori forti. Nacquero opere come Verderosso (1963), Rossoverde (1963) e Violarosso (1963), su basi di colore deciso e compatto, su cui fiorisce una scrittura di segni tutti diversi, in un ritmo tellurico. E si accende la luminosità dei quadri. Lei la creava alla maniera di Veronese, accostando colori complementari che vibrano uno accanto all’altro. Dopo la Biennale, nell’estate del 1964 si mise a lavorare molto su grandissimi quadri. E dall’anno dopo cominciò ad usare la plastica e colori fluorescenti. In particolare usava come supporto su cui dipingere un materiale plastico trasparente, il sicofoil, (con grande sorpresa anche degli stessi produttori del materiale).
Da una parte l’interesse per l’artificiale, per la modernità, dall’altra il permanere dell’interesse per segni arcaici. Entrambi si ritrovano nella serie, con onde che paiono a stento trattenute dalla cornice, come in Verde (1974) e Marrone (1974). L’esigenza è sempre più quella di uscire dal limite del quadro e di sperimentare con la luce. L’uso della plastica la potenzia come dimostra la Tenda del 1965 che fu esposta in una lungimirante Biennale del 1976 sul tema dell’ambiente; ora troneggia e riluce qui al centro di una sala. Il riferimento implicito erano le tende dei nomadi e rappresentava il tentativo di uscire dalla dittatura del quadro per creare uno spazio a misura di persona, cercando un rapporto dialettico con lo spazio.
Tuttavia Carla Accardi non perse mai l’interesse per i quadri. Anzi. Da ultimo usava grandi tele grezze. E non perse mai l’interesse per la pittura. Le ultime opere sono un’esplosione di colore. Fino alla fine non ha mai smesso di fare ricerca. «Ho famiglie di quadri. Il mio lavoro è unitario ma ci sono molte oscillazioni che mi permettono di lavorare tutta la vita in un campo in fondo ristretto e semplice dove ci sono solo il segno, il colore, il bianco e nero e l’astrazione», raccontava di sé in una intervista. E ancora: «Mi piace avere dei riferimenti nascosti. Oltre a fare la scelta di rinunciare al racconto diretto (la figurazione) e di compiere invece un viaggio nell’interiorità, sarebbe una prigione e la fine di ogni emozione se mi trattenessi anche in un’ unica posizione». E poi aggiungeva: «Ecco quindi le oscillazioni di cui parlo. Ma ogni volta che ho preso una nuova strada, è stato molto difficile ed emozionante. Ci sono stati cambiamenti dovuti ai miei bisogni, altri da sensibilizzazioni dall’esterno. L’artista vive sempre nel suo tempo». Tutta la sua gioia di vivere tocca lo zenit nell’ultima sala del Pala Expo dove campeggiano, in alto, opere che echeggiano l’ultimo Matisse e dove esplodono di energia le ultime opere, realizzate poco prima di morire nel 2014: sono tele dai colori sgargianti, giocate su accostamenti cromatici audaci e coraggiosi, come il rosso nero e bianco di Ordine inverso (2014) e Imbucare i misteri (2014), fra azzurro, nero e bianco. Vi si ritrova tutta la sua energia raggiante, quella che Gillo Dorfles chiamava la brillanza di Carla Accardi.