Qualche singola diocesi e la Conferenza episcopale commissionano inchieste che definiscono indipendenti. Ma tutto resta all’interno e all’insegna della scarsa trasparenza anche nell’era del cardinale Zuppi. A cominciare dalla mancata distinzione tra “peccato e reato”

Il caso di Bertharam, dal nome della scuola cattolica altoatesina dove sono state perpetrate indicibili violenze e abusi sessuali, è stato portato alla luce da un’indagine commissionata dalla stessa Diocesi di Bolzano-Bressanone.
L’inchiesta parla di 67 casi, con 59 vittime accertate e 29 sacerdoti coinvolti, in un arco temporale che va dal 1964 al 2023.
Il 51% delle vittime erano bambine e ragazze, in prevalenza di età tra gli 8 e i 14 anni. E gli abusanti un’età compresa fra i 28 e i 35 anni. Di cui ben 43 erano già noti prima del 2010. Smentendo così la teoria delle “pecore nere” isolate.
«Tutti i numeri che indichiamo – ha sottolineato l’avvocato Ulrich Wastl – presentando il rapporto – sono una parte minima di quello che è realmente accaduto». Un rapporto di 610 pagine che fa emergere una realtà fatta di silenzi e vite distrutte.
Circa 1.000 i fascicoli personali di sacerdoti esaminati, coperti da un sistema strutturale di insabbiamenti e trasferimenti dei responsabili, che così continuavano indisturbati la loro attività di predatori d’infanzia.
C’è di tutto in quelle 610 pagine. Emblematici alcuni casi: come quello classificato «numero 5», dove un sacerdote nonostante le continue segnalazioni di abusi su bambine, era spostato di parrocchia in parrocchia. O il «caso numero 15», in cui un prete fortemente sospettato di abusi su una ragazza che poi si è suicidata, pretende e ottiene di celebrare lui stesso il rito funebre della ragazza. Come fosse una cosa di sua proprietà.

L’alta curia proclama (qui come altrove) la necessità di una svolta. Ma tutto resta però nel circuito interno a Santa Romana Chiesa.
Anche le inchieste commissionate, allora, quanto senso hanno senza la denuncia e la collaborazione con la magistratura ordinaria?
Varrebbe la pena vedere o rivedere il coraggioso film Il caso Spotlight del regista americano Thomas McCarthy, che mise in scena l’inchiesta giornalistica del Boston Globe.
La squadra di giornalisti investigativi Spotlight che il direttore della testata spinge a occuparsi del caso di un sacerdote, padre Geoghan, che in oltre trent’anni ha abusato di molti bambini e adolescenti. Contro Geoghan non sono mai stati presi provvedimenti drastici, le alte sfere della curia si sono semplicemente limitate a spostare, di volta in volta, il sacerdote da una parrocchia all’altra. E in questo emerge il ruolo di insabbiamento avuto dal cardinale Bernard Francis Law.

Siamo agli inizi degli anni 2000, e per chi era a Roma, forse si è potuto imbattere nel cardinale Law, responsabile di aver nascosto gli abusi di padre Geoghan e di altri preti.
Questo “pastore d’anime”, che ha partecipato al conclave dell’aprile 2005 che ha eletto papa Benedetto XVI, ha vissuto infatti tranquillamente nella Capitale fino alla sua morte (2017). Nel 2004 era stato nominato arciprete della Patriarcale (ora Papale) Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore. Divenendone dal 21 novembre 2011 «arciprete emerito».

Oggi, in Italia, siamo nell’era del cardinale Matteo Zuppi che nel 2022, alla prima conferenza stampa da presidente della Conferenza episcopale annunciava la nuova linea di contrasto alla pedofilia ecclesiastica con un documento di 40 pagine dal titolo promettente: «Proteggere, prevenire, formare».
Peccato che, come denunciò Left e pochissimi altri media italiani, il documento-rapporto non prendesse in considerazione tutte le diocesi, e che anche al punto forte: «Azioni di accompagnamento alle presunte vittime» (tabella 3.14) dei 57 casi di “presunte violazioni”, soltanto in 3 situazioni le vittime hanno fatto ricorso alla magistratura penale.
La questione anche per Matteo Maria Zuppi, cardinale e arcivescovo cattolico italiano, continua a essere interna alla Chiesa che deve proteggere, prevenire, formare. Senza preoccuparsi della necessità di distinguere tra peccato e reato.

Nel 1764, nell’opera Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria pone la questione della distinzione tra «peccato» e «reato». Una distinzione imprescindibile per l’autonomia e laicità dello Stato.
Infatti – mentre il «reato» consiste in un danno arrecato all’intera collettività, tale per cui il responsabile di tale atto meriterebbe di essere giudicato dalla Società nei modi e nelle forme dalla stessa stabiliti (diremmo oggi, dalla Giustizia ordinaria); – il «peccato», invece, non sarebbe altro che un’offesa arrecata a Dio, ragion per cui il suo autore meriterebbe (almeno per chi è credente) di essere giudicato (punito o perdonato) solo da Dio.
Come Left denuncia da sempre, unico nel panorama dei media italiani, non possono coesistere due giurisdizioni, per cui, mentre nel tribunale canonico l’oggetto del procedimento è l’offesa a dio, nel procedimento del tribunale civile l’oggetto è il danno alla persona, cioè la vittima. Ed è questa che va protetta, non a parole, ma dai tribunali statali.
Altrimenti anche quel Proteggere, prevenire, formare… continua ad essere la copertura solo e soltanto per l’apparato clericale.

Allora occorre svincolarsi dal Concordato, che ad esempio all’articolo 4 prevede che «Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero».
Una norma che offre così copertura alle posizioni di quella parte della Chiesa cattolica che si ritiene esentata dall’obbligo di denunciare alla magistratura anche i casi di abusi sessuali segnalati alla Curia.
Occorre un atto di coraggio e di dignità da parte dello Stato perché la legge è uguale per tutti e compito dello stato è rimuovere gli ostacoli alla violazione della dignità individuale. Quella che violano proprio quanti pretendono ancora la superiorità dei principi religiosi su quelli di appartenenza alla cittadinanza democratica.
Qualcosa però si muove, grazie alla Magistratura italiana, con la sentenza emessa nel 2024 contro don Giuseppe Rugolo, prete di Enna, che grazie alla denuncia di un abusato è stato condannato a quattro anni e sei mesi per violenza sessuale ex articolo 609 bis e quater del codice penale (quindi su minori di 16 anni) e tentata violenza sessuale, con interdizione per cinque anni dai pubblici uffici e interdizione perpetua dall’insegnamento nella scuola di ogni ordine e grado.
E – fatto molto importante – la curia vescovile della diocesi di Piazza Armerina (Enna) è stata riconosciuta responsabile civile e dovrà rispondere in solido con il sacerdote del risarcimento delle parti civili. «La Curia nella persona del vescovo – recita la sentenza – ometteva con ogni evidenza qualsivoglia, seria iniziativa a tutela dei minori della sua comunità e dei loro genitori nonostante la titolarità di puntuali poteri/doveri conferiti nell’ambito della rivestita funzione di tutela dei fedeli, facilitando l’attività predatoria già oggetto di segnalazione».
Una sentenza arrivata dopo 22 udienze a porte chiuse e 53 testimoni sentiti. Il procedimento si era aperto il 7 ottobre 2021 davanti al tribunale di Enna. Il ragazzo preda di don Rugolo, oggi trentenne, aveva raccontato agli inquirenti di essere stato abusato dal sacerdote per quattro anni, dal 2009 al 2013.

*L’autrice: Maria Mantello è giornalista, saggista e presidente della Associazione nazionale del libero pensiero “Giordano Bruno”. Fa parte del consiglio direttivo dell’Association Internationale de la Libre Pensée (Ailp)

Foto AS