Il nuovo libro di Piero Bevilacqua apre un dibattito sull'incapacità della Ue di sottrarsi al dominio Usa. Il 20 marzo l'autore ne discute con Ferrajoli, Ippolito e Prospero alla Fondazione Basso a Roma

L’ultimo saggio di Piero Bevilacqua, La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione Europea, Castelvecchi è di quelli che faranno molto discutere. Non è una frase fatta. Le tesi dello storico sono nette, non lasciano spazio a dubbi o a interpretazioni, spargono senza risparmio sale sulle divisioni che si sono aperte nella sinistra, non solo italiana, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio del 2022. Scritto con grande accuratezza, è un libro da consigliare soprattutto a chi ha già formato una propria opinione perché sarà costretto a rimetterla in discussione.

Il primo grave giudizio riguarda i nostri alleati americani. A partire dalle bombe nucleari cinicamente sganciate su Hiroshima e Nagasaki al termine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno messo in atto una violenta politica imperiale che non ha risparmiato nessun angolo del pianeta. L’elenco dei misfatti americani nel dopoguerra è lunghissimo e lo stesso autore non può che riferirne solo in parte. Il volto della democrazia nata a Filadelfia con la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 appare oggi così sfregiato da giustificare la definizione data agli Usa di Stato criminale.

Non meno dura è l’opinione che Bevilacqua ha nei confronti dei governi di Israele che inseguono il disegno di una nazione ebraica estesa dal Giordano al Mediterraneo, pur sapendo che questo comporta la cacciata e lo sterminio del popolo palestinese. La terza, ferma presa di posizione è riservata all’Europa, il continente più ricco e progredito del pianeta, divenuto succube e complice dell’imperialismo americano. L’Alleanza atlantica, nata per scopi difensivi, è divenuta il braccio armato dell’aggressiva politica estera statunitense, ampliando ingiustificatamente la sua sfera di influenza sul continente europeo sino ad “abbaiare ai confini della Russia”, come molto efficacemente ha detto papa Francesco.

Si tratta, come si vede, di giudizi taglienti ma con pochi margini di contestazione. Laddove, invece, il confronto si farà certamente acceso è su quelle parti del libro che si occupano di Russia e della guerra in corso in Ucraina. L’autore ritiene che la Federazione russa, pur gravata da un innegabile deficit democratico, non abbia ambizioni imperiali essendo un paese vastissimo, ricco di materie prime e povero di popolazione. L’invasione dell’Ucraina troverebbe esclusivo fondamento nelle persecuzioni subite per anni dalla comunità russofona del Donbass e nella necessità di spezzare l’accerchiamento che la Nato ha messo in atto ai danni di Mosca a partire dall’89. Un ruolo positivo, osserva poi Bevilacqua, la Russia svolge insieme ai Brics, l’organizzazione cui fanno capo 36 nazioni che costituiscono il 40% della popolazione mondiale e il 37% del Pil. Spezzare l’arrogante monopolio del dollaro e avviare un nuovo ordine mondiale fondato sul multilateralismo e la cooperazione economica sarebbe nell’interesse di tutti.

Farei un torto all’autore se non precisassi che queste ultime considerazioni occupano uno spazio perfettamente equilibrato all’interno del saggio e che concentrerò l’attenzione su di esse soltanto perché è qui che si registra una varietà di opinioni all’interno della sinistra non solo italiana, si pensi ad esempio a Bernie Sanders e a Noam Chomsky negli Stati Uniti. Le ragioni, invero, non mancano. La Russia è la quarta economia mondiale dopo Cina, Usa e India ma è anche tra i Paesi più diseguali al mondo, superata soltanto da Quatar, Turchia, Mozambico, Yemen, Arabia Saudita, Bahrain, Angola e Peru. L’1% della popolazione russa detiene il 23,8% del prodotto nazionale (World Inequality Report 2023). In Italia l’1% più ricco possiede il 12,3% del Pil, in Usa il 20,7%, in Ucraina sorprendentemente il 9,3% (e anche in Bielorussia è appena il 9,7%). Non è il solo primato negativo della Russia. Lo Human Freedom Index 2023 – che include, fra le altre, la libertà di espressione, di associazione, di religione e il rispetto dei diritti umani – colloca la Russia al 121° posto su 165 paesi (gli Usa sono diciassettesimi, l’Italia trentaseiesima). La stampa russa, in particolare, gode di una libertà estremamente limitata occupando la 164a posizione su 180 (Reporters sans Frontières 2023). Non è del resto un caso se quasi tutto quello che sappiamo sui crimini commessi dall’impero americano nel mondo viene da inchieste prodotte negli stessi Usa o in altri Paesi occidentali. In Russia, poi, secondo gli ultimi rapporti di Amnesty International, la tortura e altri maltrattamenti nei luoghi di detenzione hanno carattere endemico, proseguono i rapimenti e le sparizioni di individui in Cecenia, gli oppositori sono sottoposti a procedimenti giudiziari arbitrari e a lunghe pene detentive, le principali Ong ambientaliste sono bandite dal paese e le persone Lgbti regolarmente discriminate.

In sostanza la Russia odierna appare, agli occhi dei principali osservatori internazionali, un paese capitalista segnato da profonde diseguaglianze e dalla sostanziale assenza di tutte le libertà fondamentali, ciò che è senza dubbio frutto del suo passato. L’impero russo ha una storia plurisecolare. È nato nel 1721 con Pietro I il Grande ma già nei secoli precedenti la Russia moscovita aveva avviato la conquista della Siberia e degli immensi territori dagli Urali al Pacifico così che l’Unione Sovietica nel 1922 ereditò un paese vastissimo con una grande varietà di popolazioni dalle lingue e culture diverse, assoggettate con la violenza e russificate. Nel corso del XX secolo l’Unione Sovietica ha esercitato un controllo asfissiante e assoluto sui paesi dell’Europa dell’Est entrati nella sua sfera di influenza dopo la conferenza di Jalta del febbraio del ’45, provocando le rivolte di Budapest nel ’56 e di Praga nel ’68 represse con i carri armati. Ancor prima il patto siglato da Josif Stalin con Adolf Hitler e la conseguente spartizione della Polonia nel ’39 non trovano legittimazione nella necessità di difendere il bene supremo della sicurezza russa, perché così facendo saremmo costretti a riconoscere il diritto di ogni stato a calpestare la sovranità di un paese terzo pur di salvaguardare la propria. Ma pur volendo considerare spregiudicato realismo politico quella scelta, non c’è modo di giustificare l’eccidio compiuto nella primavera del 1940 dal capo della polizia segreta Lavrentij Pavlovič Berija che nel villaggio di Katyń fece massacrare ben 22 mila prigionieri, ufficiali dell’esercito, magistrati, giornalisti, politici, professori, esponenti vari della intellighenzia polacca, un’intera classe dirigente. Questo spiega, invero, la particolare avversione che i polacchi nutrono per i russi. Non per giustificare ma ancora una volta per capire, la scelta di Stepan Bandera di seguire le insegne naziste hanno radice nell’holodomor, la grande carestia causata dalla politica di industrializzazione forzata e di collettivizzazione in agricoltura promossa da Stalin. Nel biennio 1932-33, appena 8 anni prima dell’arrivo in quel paese dell’esercito di Hitler, avevano perso la vita almeno 3 milioni di ucraini, il 10% della popolazione dell’epoca. Per tornare in campo occidentale, l’attuale secolo di violenza americana è stato preceduto dal colonialismo inglese, francese, belga, olandese e anche italiano. Nel febbraio del 1937, come rappresaglia per l’attentato, peraltro fallito, da parte della resistenza etiope al generale Rodolfo Graziani, soldati italiani e squadracce fasciste massacrarono 19 mila civili ad Addis Abeba, tra loro molte donne e bambini. Non c’è grande nazione che possa considerarsi immune dal virus della violenza suprematista, nessuna è sinora parsa in grado di sottrarsi alla nietzschiana volontà di potenza.

Quanto all’ascesa al potere di Vladimir Vladimirovič Putin, al fianco è bene ricordarlo di Boris Nikolaevič El’cin, è stata documentata molto bene dal compianto giornalista Andrea Purgatori che ha mostrato come gli oligarchi siano stati decisivi per la sua scalata al potere e come i mercenari della brigata Wagner fossero il suo personale esercito. Putin governa di fatto ininterrottamente da un quarto di secolo, un lasso di tempo più congeniale a un dittatore che a un presidente regolarmente eletto ma ciò che è ancor più inquietante è il rapporto di alcuni suoi stretti collaboratori con Aleksandr Gel’evič Dugin, noto per le sue posizioni apertamente reazionarie, ultranazionaliste, razziste. Lo stesso Putin, sostengono alcuni studiosi (si veda Guido Caldiron, Ivan Il’in, tutto il nero del Cremlino, Il Manifesto 17 aprile 2022), fa spesso riferimento nei suoi discorsi al filosofo fascista Ivan Aleksandrovic Il’in, esiliato dopo la nascita dell’Urss, ammiratore di Mussolini e di Hitler, assertore di una innocenza russa insidiata dall’Occidente decadente e corrotto. È quanto sostiene anche Kirill, il patriarca ortodosso di Mosca, che evoca costantemente la necessità di difendere il Russkij mir, il mondo russo minacciato dal satana occidentale. Non stupisce, pertanto, che il presidente russo sia divenuto ovunque nel mondo un’icona dell’estrema destra nazionalista, rappresentata oggi in Italia da Matteo Salvini. Il 17 marzo 2023 la Corte penale internazionale ha emesso due mandati di arresto nei confronti di Putin e di Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini presso l’Ufficio del Presidente della Federazione Russa, per aver commesso il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione, bambini in particolare, dalle regioni ucraine occupate alla Russia. Questi crimini sono stati accertati dai giudici dell’Aia; ma neppure è facile disgiungere le responsabilità di Putin nell’assassinio della giornalista Anna Politkovskaya, rea di aver raccontato i massacri compiuti dall’esercito russo in Cecenia, nell’improvviso “incidente” aereo che è costato la vita a Evgenij Viktorovich Prigozhin dopo aver tentato una marcia su Mosca, o nella morte in carcere di Aleksej Navalny, suo principale oppositore. Come si vede, anche riconoscendo il positivo impulso verso il multipolarismo e il contenimento dell’arrogante imperialismo americano, non è facile solidarizzare con la Russia di Putin.

Nel post-scriptum, infine, Bevilacqua, riserva al lettore un’ultima sorpresa. L’Europa, egli ritiene, è morta a causa della sua incapacità a sottrarsi al dominio americano persino di fronte al drammatico scenario di una guerra mondiale, ed è necessario un ritorno allo Stato-nazione. Anche questa opinione farà certamente discutere perché come lo stesso autore ammette i problemi che l’umanità ha di fronte, la difesa della biosfera anzitutto, superano i confini nazionali e neppure è possibile tornare indietro sulla moneta unica europea. A chi, come me, crede ancora nel sogno di Ventotene un nuovo ordine mondiale non può prescindere dall’Europa che, pur tra limiti e regressi, esprime ancora le forme migliori fra le democrazie attuate e gli stati sociali più avanzati al mondo.

L’appuntamento: Il 20 marzo il libro di Piero Bevilacqua sarà presentato alla Fondazione Basso a Roma da Ferrajoli, Prospero e altri

L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Tra i suoi libri, “Il fantastico regno delle due Sicilie” (Laterza 2021)