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Poi, nel 2016, c’è stato il fertility day. Più che un tuffo, un ceffone nel passato

«Non lo fo per piacer mio ma per dare un figlio a Dio», era la massima spesso ricamata sulle camicie da notte delle nostre bisnonne, o trisavole, giusto perché fossero ben chiari il ruolo, la funzione e soprattutto le aspirazioni di una “brava donna” dell’epoca. Camicie che a volte presentavano un parimenti ricamato foro all’altezza dei genitali onde evitare l’inopportuna rimozione dell’indumento.

La stessa frase era consigliata a ripetersi, tipo mantra, per tutto il coito: distraente e mortificante al punto giusto. D’altronde, sull’identificazione della donna e del suo relativo prestigio sociale con un buco procreatore si potrebbe parlare per ore. D’altronde, erano anche i tempi nei quali al momento del parto, alla fatidica domanda se salvare madre o figlio, il manuale del buon confessore suggeriva di squartare la donna per riuscire almeno a battezzare il feto.

In tempi più recenti scomparivano i ricami-disclaimer dalla lingerie, ma non l’imperativo morale sottostante, e si aggiungeva la patria come obbligatorio destinatario degli sforzi ovulatori e puerperali (“Se nasce l’ottavo lo chiamiamo Adolfo” viene detto, anzi no, ordinato alla Loren nelle ultime battute di Una giornata particolare).

Ma, accidenti, poi ci sono stati che so, Pincus, la rivoluzione sessuale, il secolarismo avanzante, il femminismo e i femminismi, il divorzio, l’aborto, la crescente elaborazione consapevole della fondamentale importanza dell’autodeterminazione dell’individuo in quanto tale, soprattutto in relazione alla propria libera sessualità. Poi, nel 2016, c’è stato il Fertility day (rumore di freno a mano). Una campagna costosa e assurda della quale già si è per fortuna detto e criticato abbastanza, da più voci autorevoli, sotto più fronti, sotto più aspetti. Più che un tuffo, un ceffone in quel passato che non invoglia poi tanta nostalgia.

Campagna che fa acqua (di fogna) da tutte le parti. Da quella statistica (l’Italia farà pure meno figli di una volta, ma il mondo-pianeta scoppia e volenti o nolenti ci dobbiamo entrare tutti) a quello traducibile in: no lavoro, no welfare decente, no soldi, no figli, che volgarmente pretenderebbe di pretermettere il pargolo alla propria cena. Sempre a proposito di acqua, il bene comune sarebbe la fertilità (caratteristica fisica casuale e individuale) e chi se ne importa della persona che ne è, sempre casualmente e individualmente, portatrice. Fertilità a tutta birra, insomma.

A meno che non si sia interessati all’applicazione di una ormai quasi decente legge 40, però. Che in quel caso è preferibile mettere tutti i paletti possibili. Così come più che paletti vere barriere architettoniche sono innalzate all’applicazione della 194. Almeno in questo si è coerenti: meno aborty, più fertility. Poco importa che per la disapplicazione di un diritto fondamentale riconosciuto per legge arrivino condanne anche in sede europea: per la nostra ministra va tutto bene.

Forse meno coerente trattare le quarantenni da bambine imbecilli, sventolando loro sotto il naso una clessidra o un alienato – e chiaramente destinato al fallimento – figlio unico, mentre ci si guarda bene dal fornire un qualsivoglia rudimento di educazione sessuale (il Gender!) alle adolescenti. Si è parlato di fraintendimento. Una cosa sono le cartoline per i social, altra i veri scopi del progetto. In effetti sono peggio. Il Piano Nazionale della Fertilità (brividi) al cui interno è inserito il tanto incompreso Day sostiene che «la sessualità non è un accessorio del nostro comportamento avulso ed enucleabile dalla funzione riproduttiva». La fregatura è che non danno più le camicie col buco in omaggio. In ogni caso c’è poco da preoccuparsi. Lo sanno tutti che la madre dei cretini è sempre incinta.
*Portavoce e responsabile iniziative legali Uaar

Se il caporalato è come la mafia, andiamolo a stanare

Un frame tratto da un video della Guardia di Finanza di Sibari mostra un momento dell'operazione della Fiamme Gialle, ed in particolare, dei controlli compiuti per contrastare il fenomeno del caporalato nella piana di Sibari, Cassano allo Ionio (Cosenza), I finanzieri hanno denunciato sei persone, di cui quattro italiani, un bulgaro ed un pakistano. ANSA/ UFFICIO STAMPA/ GUARDIA DI FINANZA

La schiavitù. La schiavitù è una di quelle parole che eravamo convinti di avere riposto in soffitta, di quelle andate fuori tempo e buone ormai solo per farci qualche pastetta di memoria. Un politico che parla di schiavi è una fotografia che riusciamo a immaginare solo in bianco e nero oppure con i colori dei Paesi troppo povero e troppo lontani per suscitare empatia. Chissà quale meccanismo sociale scatta per stabilire che ormai non è più tempo di quella parola lì, chissà dove si è accesa la prima spinta che ha decretato che la schiavitù si fosse estinta, finita. Via.

“Allarme schiavi”: c’è bisogno di schiaffi per rianimare i sensi sopiti. Il dolore passa, dura il tempo del pianto, poi la polemica, gli omaggi, il funerale e le promesse. Quando l’anno scorso Paola Clemente è morta seccata sotto al sole per raccogliere l’uva a due euro all’ora nessuno s’è fatto mancare un filo di cordoglio, poi un sorso di condanna e via con la litania delle promesse. «Il caporalato è come la mafia» aveva dichiarato il ministro all’agricoltura Maurizio Martina e furono in molti a pensare che l’Italia volesse prendersi per davvero l’onere di lenire il sole sopra gli schiavi.

Forse il ministro sa che, come la mafia, il caporalato non è il fenomeno rustico e peloso come si vorrebbe fare raccontare ma si infila nei gangli più alti della quotidianità, della società gaudente e della società potente; come la mafia il caporalato sa di sangue e merda ma sa diventare commestibile, rispettabile o addirittura eccellente; forse il ministro sa che, come la mafia, noi non possiamo occuparci del caporalato ma il caporalato alla fine si occupa di noi, occupa i banconi del nostro supermercato, occupa le nostre tavole e gestisce i nostri gusti e sancisce le nostre opportunità; come la mafia il caporalato investe sulla disperazione ma blandisce il potere, corrompe i controlli e, pervasivo e sistematico, sorregge intere economie; forse il ministro Martina sa che anche per il caporalato, come per la mafia, servono leggi speciali, professionisti preparati, testimoni da proteggere e intanto diffondere, controlli serrati e un serio lavoro culturale e sociale. Come la mafia impone la tassa illegale del pizzo così il caporalato oggi pretende un’usura nascosta solo che qui, tra la raccolta nei campi da nord a sud, l’usura è fisica: erode le mani, asciuga i polmoni, infeltrisce i muscoli e intanto si mangia i diritti.

Allora recuperiamo le parole nascoste nei cassonetti: mafia sì ma anche schiavitù, emergenza umanitaria. Il genocidio di una categoria professionale che si ripete stagionale come se fosse ormai naturale. Se la politica è anche alimentazione civile allora decidiamo che quest’anno per questo raccolto non ci concediamo il diritto di contare i morti ma andiamo ad ascoltare e osservare i vivi. Lo faccia il Presidente Mattarella, con tutto l’autorevole carico che rappresenta in ogni suo sguardo sul Paese, lo facciano gli integralisti del rispetto della legge: si mischino nei campi, ascoltino i molti che combattono al fronte e guardino diritti negli occhi gli speculatori. Abbiamo a disposizione la mappa dei delitti proprio mentre si consumano. Che altro serve?

Questo è il viaggio da organizzare per la politica italiana.

 

Perché a Bratislava l’Europa rischia di fare un favore agli xenofobi

European Council President Donald Tusk, right, speaks with the media outside a hotel prior to an EU summit in Bratislava on Thursday, Sept. 15, 2016. An EU summit, without the participation of the United Kingdom, in Bratislava will kick off on Friday with discussions on the future of the EU following Brexit. (AP Photo/Virginia Mayo)

Ieri il presidente del consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, ha inviato una lettera ai 27 capi di Stato e premier che si riuniscono a Bratislava per un summit informale – l’assenza della Gran Bretagna, cugino dispettoso che ha lasciato la famiglia creando il caos lo rende tale, che formalmente senza tutti i membri, e Londra lo è ancora, non è un vertice che possa prendere decisioni.

La lettera spiega che non è tempo di business as usual, che bisogna fare uno scatto e rispondere alle inquietudini dei cittadini d’Europa perché, altrimenti, questi sceglieranno la strada del populismo nazionalista (non lo dice proprio così, ma il senso è quello). Come del resto hanno fatto i suoi cittadini eleggendo un governo che usa strumenti al limite del costituzionale per controllare i media e che è immediatamente entrato in rotta di collisione con Bruxelles. Alla fine della lettera Tusk cita in negativo la vecchia formula del Gattopardo («non possiamo fare come il Gattopardo, non possiamo cambiare perché non cambi nulla»).

Ma davvero il vertice è in grado di cambiare qualcosa? Dare risposte? E su cosa? Il presidente della Commissione nel suo discorso al Parlamento ha rilanciato dicendo: più Europa, difesa comune, investimenti, controlli alle frontiere. Niente di eccezionale, ma una qualche forma di agenda. I quattro del gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, che ospita il vertice – hanno annunciato che proporranno una loro road map. L’immigrazione e la difesa dei valori tradizionali sono le loro ossessioni. Che pagano. I Paesi mediterranei si sono visti qualche giorno fa ad Atene e chiedono cambi di passo in materia di flessibilità di spesa, debito, austerity. La Germania di Angela Merkel, che fino a un anno fa ha dettato la linea su tutto, nel male dell’economia e nel quasi bene in materia di rifugiati, appare in difesa – ma resta di gran lunga il centro d’Europa.

La lettera di Tusk tocca tutti i punti nodali, le difficoltà che l’Europa ha in questo momento. Ma per capire la direzione in cui si rischia di andare, è bene dargli una letta.

Tusk sottolinea come la Brexit, che potrebbe innescare un effetto domino, specie con il referendum ungherese alle porte, non sia solo «un sintomo di aberrazione politica o semplicemente un gioco cinico dei populisti che sfruttano le inquietudini sociali (…). ma anche  un disperato tentativo di rispondere alle domande che milioni di europei si pongono tutti i giorni sulle garanzie di sicurezza dei cittadini e il loro territorio, domande circa la tutela dei loro interessi, il patrimonio culturale e il loro stile di vita. La gente in Europa, vogliono sapere se le elite politiche sono in grado di ripristinare il controllo su eventi e processi che li disorientano e, talvolta, li terrorizzano». Tusk nomina le paure generate dalla globalizzazione, l’incapacità di decidere e implementare le decisioni in maniera visibile ed efficace fondo alla lettera. I primi punti sono la Brexit, confini e migranti, paura del terrorismo.

Ancora una volta, insomma, i punti cruciali delle difficoltà europee, di società attraversate da insicurezza economica e mancanza di un progetto comune di futuro, sono l’invasione degli stranieri e la minaccia del Califfo. Nella lettera Tusk parla dello scorso anno come quello del «caos alle frontiere» rispetto al quale l’Europa è stata lenta, mettendoci troppo a «chiudere la rotta balcanica e firmare l’accordo con la Turchia. I cittadini hanno ascoltato troppi discorsi buonisti sull’Europa che non poteva diventare una fortezza». Ovvero, in fondo, i populisti avevano ragione e Angela Merkel, che è la persona più importante che ha fatto quei discorsi, sbagliava di grosso. A Merkel non è piaciuta questo colpo basso e vuole la parola caos tagliata dalla dichiarazione finale.

Non ne è forse una dimostrazione il pessimo risultato di Angela nelle elezioni nella sua Pomerania, dove i nazionalisti xenofobi dell’AfD hanno rubato voti a tutti?

Da diversi anni a questa parte, dalla crisi greca in poi, la risposta dell’Europa alle crisi è stata quella di perpetrare un modello che dal 2008 in poi segna il passo, non funziona, non genera crescita ma inquietudini, disoccupazione, paure. Si è cercato di negoziare sui trattati internazionali facendo finta di nulla, si sono colpiti i Paesi del Sud – e nuove nuvole sono all’orizzonte – ci si è divisi sulle grandi crisi internazionali o le si è affrontate con faciloneria, come in Libia. Si sono imposte regole severe in materia economica e non si è fatto nulla quando alcuni Paesi violavano i trattati internazionali e i diritti umani durante la crisi dei rifugiati. La letera di Tusk ripropone più o meno lo schema: serve uno scatto in materia di frontiere, immigrazione, terrorismo, perché le paure delle globalizzazione vengono da la. Tusk spiega ad esempio che occorre firmare i trattati commerciali, certo rassicurando i consumatori su alcune questioni.

Entrando al vertice Angela Merkel ha parlato di «sicurezza economia, più lavoro e terrorismo» e Tsipras di «agenda sociale, crescita e gestione dell’immigrazione umana». È una questione di accenti, ma certo Tusk, per non parlare del governo britannico, della presidenza francese e del blocco dell’est sembrano invece convinti che il tema sia uno e sempre lo stesso: quello che fa vincere le elezioni ai vari Orban e Le Pen. E che parlando la lingua dei leader della destra xenofoba, ma moderandone i toni, si spegnerà la minaccia populista nazionalista. Da due anni a questa parte non si fa altro e gli xenofobi crescono: se i problemi principali sono davvero il caos alle frontiere, il patrimonio culturale e lo stile di vita come scrive Tusk, allora le loro ricette semplici e brutali sono le migliori. E i leader europei che li inseguono, non capiscono che così facendo non salvano se stessi, ma danno loro un aiuto. I prossimi vertici ufficiali, a novembre e dicembre e i sei mesi che seguiranno – a marzo c’è un vertice a Roma – ci diranno che strada sceglie l’Europa. Al momento il bivio sembra quello tra una ripetizione di formule burocratiche e richiami all’unità e un passo nella direzione voluta dal gruppo di Visegrad. Non una bella scelta.

 

Mantovani: «Dall’immunologia nuove armi contro il cancro»

Eleonora aveva 18 anni. Il direttore di Onco-ematologia pediatrica di Padova Giuseppe Basso, che si è battuto fino all’ultimo per curarla, dice che aveva buone possibilità di farcela a vincere la leucemia se avesse accettato di fare la chemio. Ma i genitori della ragazza seguono la filosofia dell’ex medico e santone Ryke Geerd Hamer e credono che il tumore si curi da solo. Contro ogni evidenza scientifica. Pochi giorni fa una giovane donna affetta da un tumore al seno, e seguace di Hamer, è morta per ragioni analoghe a Rimini. Di ciarlatani che speculando sulle speranze dei malati propongono rimedi fasulli come il veleno dello scorpione azzurro oggi è pieno, soprattutto, il web.
«Purtroppo di casi del genere ce ne sono stati tanti e bisogna essere molto vigili» dice l’immunologo e oncologo Alberto Mantovani direttore scientifico di Humanitas e docente di Humanitas University. «Anni fa un veterinario di Agropoli pretendeva di curare il cancro con il siero di Bonifacio ricavato dalle capre. Poi, come ricorderà, c’è stato il caso Di Bella», dice il professore che fu tra i primi a schierarsi contro. «Dicemmo che il metodo Di Bella andava contro l’etica e contro ogni regola di corretta sperimentazione, perché per avviare la sperimentazione sull’uomo occorre che ci sia un’evidenza scientifica e lì non c’era. Ma la fecero lo stesso buttando via un sacco di soldi». E non è stato l’unico caso. Più di recente è accaduto con Vannoni e il «metodo Stamina a base di pseudo cellule staminali», ci ricorda Mantovani, che nel libro Non aver paura di sognare. Decalogo per aspiranti scienziati appena uscito con La nave di Teseo ripercorre questi e altri casi analoghi sottolineando la responsabilità sociale del medico, il dovere dello scienziato di denunciare. «Io penso che chi fa ricerca, in particolare nel settore della salute, abbia il dovere di esprimersi o come individuo o come società scientifica come accadde a noi del gruppo di cooperazione di immunologia. Era una società di giovani ricercatori nata in polemica con certi assetti tradizionali. E decidemmo di espellere due nostri membri per comportamenti a nostro avviso non etici, che riguardavano proprio cure per il cancro».
Qualche volta, però, non è sufficiente nemmeno la condanna e l’espulsione dell’Ordine dei medici di chi ha truffato i malati, per fermare bufale pericolose. Come quella costruita a tavolino dal medico inglese Andrew Wakefield che manipolò i dati di una ricerca per far credere che esistesse un nesso fra vaccino trivalente e autismo. Ancora oggi c’è chi ci casca.

Professor Mantovani quanti danni ha prodotto la leggenda diffusa da Wakefield?
Ha provocato danni enormi e continua a farlo. Ci fu una caduta delle vaccinazioni nel Regno Unito e l’onda lunga si è sentita un po’ in tutto il mondo. L’ultima epidemia da morbillo c’è stata l’anno scorso negli Usa. In California è stata chiamata Disneyland epidemic perché portata da turisti inglesi non vaccinati contro il morbillo.

Con quali effetti?
Le rispondo ricordando un caso drammatico accaduto l’anno scorso e purtroppo emblematico. Nel reparto di pediatria oncologica a Monza è morto un bambino di 18 mesi. Aveva più del 90 per cento di probabilità di salvarsi dalla leucemia linfatica acuta da cui era affetto, ma è morto di morbillo. Perché il suo sistema immunitario compromesso dalla malattia e dalla terapia non gli consentiva di essere vaccinato. La sua difesa dipendeva dagli altri. Le vaccinazioni hanno una dimensione fortissima di solidarietà sociale nei confronti dei più deboli. Quel bimbo è morto perché intorno a lui non tutti erano vaccinati. Non si tratta di un caso isolato. In Italia oggi ci sono 1500 bambini malati di cancro e poi bambini con immunodeficienze o che vanno incontro ad un trapianto. La parte più fragile della nostra società può essere protetta da chi invece si può vaccinare.

Nell’ambito dei vaccini sono stati fatti molti passi avanti, per esempio contro il papilloma virus. Quali sono oggi gli ambiti più promettenti?
L’Italia ha una grande tradizione nell’invenzione, nella produzione e nell’uso di vaccini. Siamo stati all’avanguardia nel debellare l’epatite B, grazie a una visione sociale della medicina. Cinque miliardi di persone sono state vaccinate contro la polio grazie al vaccino prodotto in Italia, per scelta di Sabin. L’ultimo vaccino che è stato introdotto è quello contro il meningococco di tipo B, sviluppato in Italia e approvato per uso clinico in Europa e negli Usa. Ora disponiamo di due vaccini contro il cancro: contro l’epatite B che causa una parte dei tumori del fegato e quello, molto importante, contro il papilloma virus, che causa 250mila morti all’anno soprattutto negli strati più poveri della popolazione. In Africa e nei Paesi in via di sviluppo la prima causa di morte di una giovane donna sopravvissuta alle malattie infettive nella prima infanzia, non è la tubercolosi, non è l’Aids, non è la malaria, ma è il cancro della cervice. Purtroppo ogni anno muoiono quasi 10 milioni di bambini sotto i 5 anni, di loro, almeno 2 milioni perché non hanno accesso ai vaccini di base. Serve un’alleanza globale che veda insieme i Paesi poveri e più ricchi. Per 5 anni ho servito nel board internazionale che si chiama Gavi che ha questo obiettivo prioritario affrontando temi globali di salute. Alcuni mesi fa ci siamo giustamente allarmati per una decina di casi di meningite in Toscana. Dovremmo ricordarci anche che c’è una fascia dell’Africa sub sahariana dove con periodicità purtroppo regolare compare la meningite, tanto da essere denominata African meningitis belt. L’anno scorso c’è stata una epidemia in Mali e l’Oms non aveva dosi sufficienti di vaccino. La situazione è stata tamponata con un milione e mezzo di dosi prodotte in Brasile e 900mila prodotte a Cuba. In questa dimensione di solidarietà sociale, che è così intrinseca al mondo dei vaccini, è fondamentale pensare alle donne e ai bambini dei Paesi in via di sviluppo.

Un capitolo del suo nuovo libro è dedicato alla dimensione internazionale della medicina. Che cosa pensa di norme proibizioniste come la legge 40 che limita la ricerca sulle staminali embrionali?
Penso che ci siano principi etici nella ricerca su cui è giusto e salutare confrontarsi. Ciò detto, sono stato sempre contrario alla legge 40 che mi è sempre sembrata una legge contro la vita. Il dovere di un medico è anche diffondere cultura scientifica. Andando a parlare nelle scuole, nei festival, uscendo dai laboratori. Perché il Paese continua ad essere scientificamente analfabeta e dobbiamo prendere decisioni in modo democratico ma anche informato su staminali, Ogm, sperimentazione clinica ecc. Come comunità scientifica abbiamo un dovere nei confronti della società.

Lei ha fatto scoperte importanti come il nesso fra infiammazione e cancro che hanno portato a un cambio di paradigma. Come è mutato il modo di affrontare questo tipo di malattie?
Sì c’è stato un cambiamento di paradigma che ha richiesto molti anni; per lungo tempo gran parte degli oncologi e degli altri specialisti pensava solo alla cellula tumorale nell’affrontare il cancro. Le ricerche che ho fatto io, ma anche altri, hanno messo in evidenza che il micro ambiente, la nicchia che sta intorno alla cellula tumorale è altrettanto importante. Una componente della nicchia ecologica è costituita, per usare una metafora, da agenti che si comportano come “servizi segreti deviati,” invece di proteggere passano dalla parte del nemico. Non solo, ma questi “servizi deviati” corrompono anche le altre cellule di difesa per cui, altri gruppi speciali delle nostre difese immunitarie vengono addormentati. Nella visione attuale del cancro si considerano le caratteristiche del micro ambiente, l’infiammazione che promuove il cancro e la soppressione delle difese immunitarie. Questo cambiamento di visione è stato accompagnato da un forte sviluppo di strategie diagnostiche e da terapie che sono basate su strumenti immunologici. Le nuova frontiera contro il cancro è basata sull’immunologia.

Quali risultati sta portando l’approccio immunologico nella lotta al cancro, può aiutarci a tracciare un quadro?
Abbiamo cominciato ad usare anticorpi per trattare i pazienti. Sono stati resi possibili da una rivoluzione immunologica che è stata fatta 30/40 anni fa. Gli anticorpi monoclonali sono entrati nell’uso clinico, li usiamo per esempio per trattare il tumore della mammella e del colon. Almeno un terzo dei nuovi farmaci che sono in sperimentazione sono anticorpi, questo è il primo grande risultato. Il secondo è stato cominciare a usare le “parole” del sistema immunitario. Le cellule del sistema immunitario sono come i “vocaboli” che lei ed io usiamo per comunicare. Noi le chiamiamo citochine. Alcune di esse sono entrate nell’uso clinico, per esempio sono dei fattori di crescita che vengono usati per proteggere dalla tossicità il midollo. Il terzo grande cambiamento che stiamo vivendo riguarda le cellule delle difese, se sono addormentate come delle auto con il freno a mano tirato, lo togliamo, le risvegliamo. È diventata una realtà in clinica negli ultimi 4 anni e sta cambiando lo scenario. Sono farmaci in parte approvati in Europa e nel mondo, in parte sono nella pipeline. Ed hanno cambiato la terapia del melanoma, un tumore su cui per 30 anni non avevamo fatto nessun progresso. Poi stiamo cominciando ad utilizzare le cellule, dunque un’unità più complessa. Proviamo a rieducare le cellule dell’immunità e a trasfonderle, come fossero un esercito da allenare che poi viene reinfuso.

Lei coordina un programma di questo tipo, che coinvolge l’ospedale di Bergamo, di Monza, il Gaslini e il Bambin Gesù?
Sì, è un programma sostenuto da Airc. Si tratta al momento di terapie sperimentali ma i risultati sono estremamente incoraggianti nei tumori del sangue, in particolare in alcune leucemie, ed è molto probabile che vengano approvate per uso clinico in parte come prodotto industriale, in parte come ricerca clinica indipendente. Inoltre con il collega Maurizio D’Incalci dell’Istituto Mario Negri abbiamo lavorato ad un farmaco per bloccare “ i servizi deviati” di cui parlavamo prima. Abbiamo visto che funziona in parte perché ferma i poliziotti corretti. Ma è stato importante come prova di principio e ha dato il la a sperimentazioni che sono in corso un po’ in tutto il mondo.

In che modo interagisce il cervello con il sistema immunitario?
Il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario sono i due nostri massimi sistemi per dirla con Galileo. Cominciamo a capire quali sono i meccanismi attraverso i quali si parlano, quali sono le molecole coinvolte e quali sono le conseguenze di questo dialogo. Stiamo vedendo la punta di un iceberg. Ci sono, per esempio, differenze molto impressionanti fra le risposte del sistema immunitario di anziani che vivono isolati e quelle di anziani che invece vivono una vita sociale. Alcune molecole del sistema immunitario sono fondamentali e, quando sono fuori controllo, causano problemi al sistema nervoso centrale. Alcune malattie genetiche dell’infiammazione e dell’immunità erano associate a un apparente ritardo mentale, quando si è capita la causa di questo uso delle parole apparentemente inappropriato, si è potuto affrontare il problema e i bambini sono tornati perfettamente a scuola. Più recentemente si è scoperto che alcune cellule del sistema immunitario sono particolarmente importanti per lo sviluppo di alcune aree del cervello. Personalmente credo sia meglio vivere una vita sociale molto intensa, questo a prescindere! Ma trovo affascinante il fatto che la coesione sociale sia un altro modo in cui ci difendiamo. Il sistema immunitario è specialista della difesa, che le due cose vadano perfettamente a braccetto è la nuovissima frontiera della conoscenza e della ricerca.

La passione di Alberto Mantovani per ricerca e divulgazione

Medico, oncologo, immunologo e scienziato italiano fra i più citati a livello internazionale, Alberto Mantovani è professore ordinario della Humanitas University e direttore scientifico dell’istituto chimico Humanitas. Oltre ai numerosissimi lavori scientifici he gli hanno valso numerosi premi (fra i quali l’ultimo in ordine di tempo è il premio europeo di oncologia 2016), ha scritto libri di divulgazione come Immunità e vaccini edito da Mondadori. Per La nave di Teseo è appena uscito il suo autobiografico e appassionato Non aver paura di sognare. Decalogo per aspiranti scienziati.  Mantovani ne ha parlato a Pordenonelegge il 16 settembre, incontrando le scuole. Il 20 novembre lo presenta a Milano per Bookcity.  L’11 novembre riceve il premio Antonio Feltrinelli 2016 a l’Accademia dei Lincei che l’accoglie come membro.

Il dramma degli yazidi. Il nostro reportage video

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Il genocidio degli yazidi per mano del Daesh, raccontato da chi è sceso in prima linea per aiutare questa minoranza: Jameel GH. Chomer, a capo degli interventi di Yazda, organizzazione no profit internazionale, ci parla degli omicidi di massa, rapimenti, stupri e violenze che hanno subito e con i quali la sua ong ha a che fare ogni giorno. Ma anche dei danni psicologici e dei problemi quotidiani dei sopravvissuti ora nei campi profughi.

(Questa è la terza puntata del viaggio in Iraq di Alessandro De Pascale)

La lotta per salvare l’arte e la memoria dal Medio Oriente all’Italia

Salvare la memoria- Nepal

Salvare la memoria racconta  la bellezza di città antiche della Siria, come Palmira,  ricordando com’era fino a cinque anni fa e com’è ora dopo essere stata a lungo nelle mani dei miliziani dell’Isis che hanno fatto saltare luoghi simbolo di questa antica città del deserto come il tempio di Baal e l’arco di Costantino. Ma non solo. La mostra ospitata, dal 15 settembre al 6 novembre, nelle sale del Museo di Sant’Eustorgio a Milano racconta anche tanti altri siti archeologici che purtruppo sono andati distrutti in Siria e in Iraq, in quella fertile fascia fra il Tigri e l’Eufrate dove si sviluppò la civiltà mesopotamica.

salvare-la-memoria-egittoFrutto della collaborazione fra i maggiori esperti del Vicino Oriente – e dedicata alle vittime del sisma di Amatrice del 24 agosto scorso, dove ono andati perduti significativi beni artistici ed architettonici – questa importante iniziativa curata da Elena Maria Menotti con Sandrina Bandera permette di conoscere attraverso 500 fotografie, video e testimonianze di archeologi, restauratori e filologi  la ricchezza storico-artistica e il passato multiculturale di terre devastate dall’Isis e in cui per millenni hanno convissuto pacificamente culti differenti, differenti modi di espressione artistica e molte lingue. Un passato per millenni politeista e tollerante che i jihadisti vorrebbero cancellare dalla storia distruggendo i resti archeologici che ne sono la testimonianza viva.
«Questa è una mostra corale, a cui ha lavorato tutto il comitato scientifico portando proprie proposte», racconta Menotti. «Abbiamo deciso di raccontare la lotta degli archeologi per salvare i monumenti antichi e il loro tentativoo di contrastare questa inaccettibile distruzione presentando al pubblico dieci figure di funzionari, archeologi, storici dell’arte, carabinieri del nucleo tutela che hanno dedicato la vita alla tutela e al recupero del patrimonio culturale».

Palmira 2007
Palmira 2007

Fra loro anche  Fabio Maniscalco, Marco Briganti che è morto a Nassiriya e Khaled al -Asaad, il “custode di Palmira” decapitato dall’Isis nell’agosto 2015. «Questa mostra è dedicata a lui e a tutti coloro che sono vissuti e vivono per salvare la memoria», sottolinea la curatrice. Come nell’anteprima avvenuta a  Mantova l’anno scorso , il percorso espositivo milanse allarga lo sguardo anche alla seconda mondiale e allo straordinario lavoro di recupero di opere d’arte trafugate dai nazisti grazie all’impegno di 007 dell’arte come Siviero, come il nucleo americano dei Monument’s men ed “eroi civili” come Pasquale Rotondi che salvò diecimila opere d’arte italiane durante la guerra.

salvare-la-memoriaL’obiettivo è ripercorrere e studiare in particolare la lunga sequenza di feroci distruzioni del patrimonio universale avvenute dagli anni Novanta  in poi: in Afghanistan quando i talebani fecero saltare le monumentali statue dei Buddha di Bamiyan, in Yemen ad opera di Al-Qaeda e dell’Isis, in Iraq a causa dell’invasione Usa e più di recente per i sistematici attacchi e saccheggi messi in atto dai miliziani dell’Isis. In Mali, dove i fondamentalisti hanno bruciato gli antichi manoscritti della biblioteca di Timbuctu, attacco sul quale il 27 settembre si pronuncerà il tribunale dell’Aja. L’Unesco e l’Onu parlano, per tutti questi differenti casi, di «epurazione culturale» e di «crimini contro l’umanità». Fin dai tempi della guerra nella ex jugoslavia.  Una guerra feroce  in cui persero la vita tantissimi giovani. Fra loro anche Fabio Maniscalco «che cercò di salvare e documentare il patrimonio della Bosnia, ammalandosi gravemente», ricorda Menotti. Ancora giovanissimo, aveva sviluppato esperienze pionieristiche nella tutela del patrimonio culturale a rischio in varie parti del mondo: a Sarajevo, in Albania, in Medio Oriente e in Kosovo. Nel 2008, poco più che trentenne, Maniscalco è morto per un tumore provocato dall’esposizione all’uranio impoverito che nei Balcani.( La sua storia è raccontata nella bella biografia Oro dentro, un archeologo in trincea Skira) di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli.

Monument's men
Monument’s men

« Come ha scritto Stefano De Caro dell’Iccrom  in un importante intervento al Parlamento europeo che riproponiamo in sintesi nel catalogo della mostra- approfondisce Menotti – dobbiamo salvare la memoria per tutti non solo per noi che viviamo in una situazione democratica, ma soprattutto per chi vive in situazioni di crisi e di guerra, per chi in quei Paese si impegnerà nella ricostruzione», rimarca la curatrice di Salvare la memoria. «È fuori dubbio che l’accesso alla cultura e all’arte faccia parte dei diritti umani. La cultura è fondamentale anche per poter combattere per i propri diritti».

Salvare la memoria, Milano
Salvare la memoria, Milano

Operaio ucciso a Piacenza, sulla dinamica è scontro tra procura e Usb

La foto fornita dall'ufficio stampa dell'Usb mostra il corpo dell'operaio egiziano di 53 anni travolto da un camion mentre stava picchettando all'esterno di un'azienda di logistica a Piacenza, 15 settembre 2016. ANSA/ USB - ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING

La versione dei fatti fornita dalla Procura di Piacenza nega che sia così, ma i lavoratori e sindacalisti di base della Gls di Piacenza insistono: l’operaio morto questa mattina travolto da un Tir partecipava a un picchetto di protesta e il camionista è stato incitato a partire. «Il conducente del camion che ha travolto e ucciso il nostro lavoratore è stato incitato a forzare il picchetto da un addetto vicino all’azienda» ribadisce a Left Riccardo Germani di Usb, presente alla manifestazione: «Gli urlavano “parti, vai!” e quello è partito investendo il nostro compagno».

I VIDEO. Il sindacato ha diffuso un video in cui è evidente lo svolgimento del picchetto:

In un altro video, la testimonianza di Ahmed Hamdin, collega e connazionale di Abdesselem El Danaf, rilasciata a Repubblica.tv.

 

LA VERSIONE DELLA PROCURA

«Quando è avvenuto l’incidente non era in atto alcuna manifestazione all’ingresso della Gls». La prima ricostruzione del capo della procura di Piacenza Salvatore Cappelleri riportata da Ansa: «Quando il Tir è uscito dalla ditta, dopo le regolari operazioni di carico, ha effettuato una manovra di svolta a destra. Inoltre escludiamo categoricamente che qualche preposto della Gls abbia incitato l’autista a partire. Davanti ai cancelli in quel momento non vi era alcuna manifestazione di protesta o alcun blocco da parte degli operai, che erano ancora in attesa di conoscere l’esito dell’incontro tra la rappresentanza sindacale e l’azienda. Allo stato attuale delle indagini riteniamo che l’autista non si sia accorto di aver investito l’uomo che è stato visto correre da solo incontro al camion che stava facendo manovra. Per questo si è deciso di rilasciare l’autista che, tra l’altro, è anche risultato negativo ai test di accertamento per le sostanze stupefacenti e l’alcol».

Il sindacato ha già ha indetto lo «sciopero immediato di tutto il settore della logistica a livello nazionale dalle 5 di oggi alle 5 di domani, con blocco dei magazzini e delle merci ed ha invitato le proprie strutture di fabbrica ad organizzare scioperi e fermate di protesta», sempre domani alle 15 una «mobilitazione sotto gli uffici del ministero del Lavoro in via Veneto a Roma per chiedere un incontro al ministro Giuliano Poletti» e una manifestazione a Piacenza sabato alle ore 12.

Al Baobab di Roma non è abbastanza emergenza. Il Comune getta la spugna: niente centro per i migranti

Nei giorni in cui a Roma sembra vicina una soluzione per il Baobab di via Cupa - il centro di accoglienza gestito da volontari che potrebbe trasferirsi all'ex Ittiogenico - a pochi chilometri dalla Capitale, a Fiumicino, i cittadini scendono in piazza contro l'arrivo di una cinquantina di immigrati che saranno ospitati in una struttura ad Isola Sacra, Roma, 11 Luglio 2016. La protesta, cominciata dopo il tamtam sui social network, è continuata anche oggi con cori e striscioni anti-profughi. "No agli immigrati", è stato scritto sulla palazzina che sarà usata come struttura di accoglienza e dove sono arrivati i primi 20 ragazzi, 17 da Costa D'Avorio e Ghana e 3 dall'Eritrea. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

«Non possono stare in strada, entro una settimana risolveremo», aveva detto Virginia Raggi non appena eletta sindaco di Roma. Ma i migranti di via Cupa continuano a dormire per strada. E continueranno a farlo. Il “no” del Comune di Roma è arrivato lunedì, dall’assessora alle Politiche sociali Laura Baldassarre: l’installazione della tendopoli promessa ai migranti del Baobab non si può fare, non ci sono i soldi. Il Comune non dispone di fondi e il terremoto nelle vicine città del Lazio, ha momentaneamente bloccato l’intervento della Protezione civile. Un’emergenza ha scalzato via un’altra emergenza.
La struttura, dopo la chiusura del centro Baobab a dicembre, avrebbe dovuto accogliere 150 delle 300 persone che ogni notte popolano via Cupa. Ma resta il nulla di fatto: «Passati tre sindaci e tre giunte, e con l’autunno alle porte, prendiamo atto che l’assessorato alle Politiche sociali alza bandiera bianca», commenta Roberto Viviani, volontario del centro. «Il Campidoglio non riesce ad allestire nemmeno una tendopoli capace di accogliere centocinquanta migranti».

«A Roma è emergenza umanitaria», aggiunge Andrea Costa, portavoce del Baobab. «Nessuno è felice di questo, ma quello che è certo è che non si vuole risolvere il problema e non si capisce perché». È da quando il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca ha ordinato lo sgombero del Boabab – a dicembre, in vista del Giubileo – che della sorte dei transitanti si occupano solo i volontari. Di fatto, sostengono dal Baobab, la Capitale non ha strutture per i migranti in transito: «Solo grazie al nostro sforzo e a quello di Medu (Medici per i diritti umani) siamo riusciti a far aumentare i posti alla Croce rossa e alla Caritas», continua Costa. «È una vergogna, trovare posto per 500 persone non è impossibile né difficile, in una città come Roma».

Il centro Baobab, in via Cupa a Roma, dopo le operazioni di censimento da parte delle forze dell'ordine, 11 agosto 2016. ANSA/CLAUDIO PERI
Roma, agosto 2016. L’accampamento di via Cupa

In questo lungo anno qualche politico ha provato a dare man forte ai volontari, anche se soprattutto in campagna elettorale. Da dicembre scorso, Stefano Fassina prova a fare pressione sul Comune di Roma e sulla Regione Lazio che ha individuato una struttura, indicandola al Comune. Non resta che mettere a norma l’ex Istituto Ittiogenico donato dalle Ferrovie dello Stato al Comune, e i suoi mille metri quadri di superficie potrebbero risolvere il problema dell’accoglienza. «La struttura individuata dalla Regione è utilizzabile o no? Cosa ostacola l’utilizzo?», si chiede il leader di Sinistra italiana. «La giunta Raggi, dopo settimane di incontri con i rappresentanti del Baobab, rinvia il problema al governo nazionale. E noi porteremo il problema anche in Parlamento», annuncia Fassina.

A un mese dall’insediamento della nuova giunta, con i migranti ancora in strada, Left denunciava l’abbandono dei transitanti in via Cupa, che ancora oggi possono contare solo su volontari e privati cittadini. Il messaggio delle autorità sembra più chiaro che mai: Everyone is welcome. Anzi no, scriveva il direttore.

I percorsi che i migranti hanno fatto e fanno prima di attraversare il mare e sbarcare in Italia, sono rappresentati graficamente nella mappa interattiva che Medu ha presentato nei giorni scorsi basata sulle testimonianze raccolte dai suoi operatori nel lavoro di questi anni.

Un bracciante morto nel Franciacorta. Mattarella visiti i campi del caporalato

Aveva 66 anni il rumeno morto lunedì dopo il malore che giovedì scorso lo aveva colpito mentre, con altri connazionali reclutati da una cooperativa rumena, era al lavoro in una vigna di Erbusco. Complici le bizze del tempo e l’estate che solo oggi dovrebbe congedarsi, la vendemmia in Franciacorta prosegue per le ultime battute con temperature che negli ultimi dieci giorni hanno spesso superato i 30 gradi. Caldo torrido e afa fuori stagione stanno insomma rendendo molto difficoltose e sfiancanti le condizioni in cui sono costretti a operare gli addetti alla raccolta dell’uva, molti dei quali arrivano ogni anno nel bresciano dall’Est Europa – e adesso anche da Paesi extracomunitari.
Da qui l’allarme lanciato ieri dai sindacati: Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil ritengono che il malore che ha provocato la morte per infarto dell’operaio, ricoverato in ospedale giovedì e deceduto pochi giorni dopo, possa essere la diretta conseguenza di «ritmi di lavoro sempre più pesanti».
Su Left n.37, Marco Omizzolo aveva scritto di Franciacorta, mettendo in guardia sulle condizioni di lavoro durante la vendemmia. Ecco qualche riga:

Il Franciacorta e i suoi preziosi vigneti simbolo del made in Italy nel mondo devono molto ai tanti lavoratori migranti impiegati ad agosto nella raccolta delle preziose uve. In origine erano braccianti polacchi o rumeni; uomini e donne disposti a vendemmiare per pochi euro l’ora, con contratti facilmente aggirati da pratiche diffuse di sfruttamento, sotto caporale e pagati a cottimo. Pratiche già denunciate da Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet in Ghetto Italia (Fandango), insieme al caporalato diffuso e a giornate lavorative anche di quindici ore. Ora però quei lavoratori sono stati sostituiti da indiani e pakistani. Probabilmente l’attenzione mediatica e le denunce di associazioni e sindacati hanno spinto gli imprenditori locali a cambiare strategia di reclutamento: ora chiamano a lavorare migranti già residenti nel territorio. «C’è un cambio radicale del flusso migratorio registrato soprattutto quest’anno», conferma Alberto Semeraro, segretario generale della Flai-Cgil di Brescia. Semeraro va nei campi ogni giorno e racconta che ad agosto è stato costantemente a contatto con i braccianti per cercare di contrastare forme diffuse di sfruttamento “grigio”, quello che aggira le norme dichiarando ad esempio poche ore di lavoro giornaliere sulle buste paga, mentre nella realtà la giornata lavorativa dura molto di più.

Come sta governando Virginia Raggi? Il bilancio di Left con gli interventi di Saviano e De Magistris

VIRGINIA RAGGI

Ogni giorno ha la sua croce per Virginia Raggi. E l’ultima, pesantissima, le è stata scagliata addosso da Roberta Lombardi, la deputata 5 stelle che per prima si è dimessa dal direttorio romano che avrebbe dovuto affiancare e aiutare la sindaca per tutta la durata della consigliatura. Direttorio che oggi non esiste più, sciolto senza troppi complimenti. Lombardi, per questo ennesimo scontro con la sindaca, ha scelto di cavalcare uno scoop dell’Espresso firmato da Emiliano Fittipaldi che sostiene che Raffaele Marra, fedelissimo di Raggi che è già costato numerose polemiche per via della sua vicinanza alla destra alemanniana, avrebbe comprato a un prezzo molto di favore un appartamento dal costruttore Scarpellini, un attico di lusso scontato da un palazzinaro contro cui il Movimento 5 stelle ha fatto diverse battaglie e che con il Comune di Roma ha fatto diversi affari. La storia, in effetti, non è bellissima.

In queste ore leggerete le cronache e i retroscena che arricchiranno questo ultimo capitolo delle movimentate avventure di Virginia Raggi sindaco di Roma, un libro pieno di colpi di scena e personaggi che entrano e escono rapidamente dalla storia. Le leggeremo con voi e ne scriveremo anche noi qui sul sito, naturalmente. Sul numero di Left in edicola da sabato 17, però, abbiamo provato ad andare più in profondità. Abbiamo provato a rispondere, cioè, alla domanda che più interessa i romani: che si chiedono – pensiamo – se oltre che gestire le polemiche e cercare nuovi assessori al Bilancio, Virginia Raggi e la sua giunta stiano riuscendo a fare qualcosa per la città.

Abbiamo contato le delibere approvate dalla giunta, che sono poche, 33, e sono quasi tutte nomine di collaboratori. Abbiamo visto le poche che si occupano di cose più concrete a cominciare dalla delibera con cui la giunta partecipa al bando per le periferie aperto dal governo. Quella, ad esempio, è una buona delibera, anche se gli interventi che si chiede di finanziare sono forse un po’ a pioggia e se il merito, quando e se partiranno i cantieri, andrà diviso con il governo che ha finanziato. Buona è poi la delibera che ferma una scandalosa speculazione edilizia che Alemanno aveva autorizzato su un nobiliare palazzo del ‘700, già nel mirino della magistratura. Molto altro però non c’è, e così siamo andati a vedere cosa stanno facendo gli assessori nel loro lavoro sui dossier, che non sempre richiedono in effetti un voto in giunta. Non serve, ad esempio, per riaprire una biblioteca in periferia (cosa fatta) o per dare un tetto ai migranti che dormono fuori dal Baobab (cosa non fatta), ma servono purtroppo per Raggi e Muraro per risolvere la vicenda Ama, a cui si è poi aggiunta quella dell’Ama con più della metà dei mezzi che sono fermi in attesa di riparazioni.

È un bilancio prevalentemente negativo, quello sui primi tre mesi della giunta Raggi. Ma che potrebbe rapidamente cambiare. Se, come abbiamo scritto sulla cover, Raggi, impallata, si sbloccasse. Smetendola di inciampare nelle trappole che lo stesso Movimento dissemina, tra codici etici e liti interne, e dando finalmente un profilo politico al suo governo, profilo che per ora si stenta a riconoscere. Ed è proprio per questo che Luigi De Magistris, che ha intervistato la nostra Tiziana Barillà, si offre di dare qualche consiglio («Napoli non vuole insegnare niente a nessuno, ma siamo a disposizione per collaborare. I 5 stelle si credono gli unici depositari del sapere, e invece potrebbero chiederci come abbiamo affrontato, ad esempio, il problema dei rifiuti») e che Roberto Saviano, con il contributo che ospitiamo in apertura, suggerisce a Raggi una svolta: «Non è detto che l’assessore al Bilancio debba essere un tecnico, anzi, sarebbe meglio che in questa fase la responsabilità fosse tutta politica». «Da qui una provocazione», continua Saviano: «Alessandro Di Battista assessore al Bilancio. È un fedelissimo, è romano, la base ha fiducia in lui. Dai comizi nelle piazze alle responsabilità concrete il passo è obbligato». Che poi è quello che sta scoprendo sulla sua pelle Virginia Raggi.

Ne parliamo su Left in edicola dal 17 settembre

 

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