Home Blog Pagina 1065

La ribellione di Davide in carcere. Armato di codici e leggi

Il tratto è preciso, le parole tante ma nessuna di troppo. Dietro l’inchiostro blu c’è la penna di Davide Pagenstecher, 47 anni di cui gli ultimi 19 vissuti in detenzione. Per ribellarsi al concetto che «il carcerato deve soffrire», Davide ha impugnato un’arma che non ti aspetti da un detenuto: la legge. In regime di restrizione dal 27 febbraio 1998, dopo otto città e numerosi trasferimenti, adesso Davide si trova nella casa circondariale Dozza di Bologna, dal 26 febbraio 2001. Fine pena: 26 febbraio 2024. In una lunga lettera ci ha spiegato per filo e per segno perché sia necessario farla questa battaglia contro il trattamento disumano e degradante ai danni dei detenuti. Non deve trattarsi necessariamente di violenza fisica, spiega. E sottolinea che nessun detenuto deve mai rinunciare alla dignità umana, all’identità e alla propria personalità. «In altri istituti, in passato, sono stato massacrato di botte, i vecchi detenuti ci sono passati tutti. In questo istituto non ho mai subito violenze fisiche. Ma sono anni che tentano di distruggermi sotto il profilo identitario e psicologico. Non ci riusciranno e non mi fanno paura».

Una premessa che non costituisce mero sfondo retorico, utile per aprire l’argomentazione che segue sul sistema penitenziario e sulle modalità di espiazione delle pene è che, ovunque, anche in queste sedi ove trova costante nutrimento la più becera forma di cameratismo, a volte leggibile anche come “omertà delle divise”, ci sono operatori, forse troppo soli, che ritengono che esista un limite oltre il quale eseguire un ordine o schierarsi, poco conta la differenza, non sia più un dovere ma un’aberrazione del dovere stesso di essere, anzitutto, esseri umani che, con altri esseri umani, sono tenuti ad un’interazione positiva. È questo, indubbiamente, il caso ammirevole di chi mi ha invitato a scriverle la presente; un assistente di polizia penitenziaria che “gioca” dalla parte del diritto e secondo i principi costituzionali di tutela e sviluppo della persona.

LEGGI LA LETTERA
Quando in redazione riceviamo le dieci e più pagine scritte a penna da Davide non esitiamo, decidiamo di incontrarlo. Ha inizio la trafila burocratica – noiosa quanto il suono di queste due parole in fila. La richiesta di permesso per incontrarlo ci viene negata, la direttrice non ritiene che raccontare la sua storia sia opportuno. È gentile, non esita a invitarci comunque in visita nel carcere. Ma Davide no, meglio non incontrarlo. Insistiamo. Di lì a poco, nel mese di maggio, proprio alla Dozza si terrà CinEvasioni, il festival del cinema organizzato dal regista Filippo Vendemmiati. Cogliamo la palla al balzo ed entriamo alla Dozza. Davide è lì, nella saletta allestita a mo’ di sala cinematografica, in prima fila, da buon giurato. Avvolto in una giacca scura, saluta tutti e tutti salutano lui. L’aspetto è impeccabile, l’altezza media e gli occhi chiari, il tono della voce è basso, ma si alza non appena capisce che a salutarlo siamo noi, quelli di Left, che sono riusciti a entrare per incontrarlo. Prendiamo posto appena dietro la prima fila, tra il pubblico di detenuti e giornalisti, agenti e volontari del festival. Questo è il racconto degli incontri epistolari con Davide, ma anche di quelle ore trascorse tra le mura di un istituto penitenziario che, per quelle ore almeno, sono state mura come tutte le altre. Valicabili.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Lettera di un metalmeccanico indignato all’onorevole Sannicandro

Il segretario generale della Fiom-Cgil Maurizio Landini durante la manifestazione promossa in occasione dello sciopero di otto ore dei metalmeccanici, Napoli, 21 novembre 2014. ANSA/ CIRO FUSCO

Caro direttore, Le chiedo gentilmente di pubblicare la mia lettera aperta all’On Sannicandro.
La sua frase sui lavoratori metalmeccanici paragonati ad un parlamentare mi ha indignato moltissimo, e visto che lavoro in fabbrica come operaio da ben 22 anni, mi sono sentito in dovere di rispondergli, anche in virtù del fatto che l’On Sannicandro non si è mai sentito in dovere di chiedere scusa ai lavoratori per la sua frase indecorosa.
Cordiali saluti.
Marco Bazzoni

Ed ecco la lettera di Marco:

Egregio On. Sannicandro, chi Le scrive è un operaio metalmeccanico e rappresentante sindacale (sono iscritto alla Fiom Cgil dall’Aprile 2001).
Lavoro in fabbrica da quando avevo 20 anni, adesso ne ho 42.
Dopo aver ascoltato la frase del suo intervento alla Camera “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici”, mi sono sentito in dovere di risponderLe.
Lei pensa di non aver offeso nessuno con la Sua frase, ma Le posso assicurare invece, che mi ha indignato e sconcertato molto, e come me ha indignato tantissimi lavoratori metalmeccanici (e non solo loro).
Il paragone che ha fatto lo trovo completamente fuoriluogo, visto e considerato che la paga media di un lavoratore metalmeccanico e lontana anni luce dallo paga di un deputato.
Molto spesso lo stipendio medio di un metalmeccanico non arriva neanche a 1000 euro netti, quando va bene (per i lavoratori con un anzianità contributiva maggiore) sfiora i 1400-1500 euro netti al mese.
Sul sito della Camera dei Deputati, al seguente link: http://leg16.camera.it/383?conoscerelacamera=4 è spiegato molto bene quanto è la paga di un deputato, che se ci sommiamo indennità parlamentare, diaria, rimborso delle spese (comprese anche le spese telefoniche), si arriva a circa 12 mila euro al mese.Quasi dimenticavo senza contare, il rimborso delle spese di trasporto e viaggio, se no si va anche oltre.
Mi pare che tra lo stipendio medio di un metalmeccanico e quello di un deputato ci sia una bella differenza On Sannicandro, anzi c’è una differenza anni luce tra il vostro e il nostro stipendio, ecco perchè sono profondamente indignato per le sue parole.
Inoltre, non solo Lei non si è scusato con i lavoratori metalmeccanici (anzi, è arrivato a dire che ” chi mi attacca fa demagogia”).
Inoltre, in un intervista al Fatto Quotidiano uscita stamani (13 Agosto), alla domanda del giornalista “Non chiede scusa ai metalmeccanici?”, Lei ha risposto: “Mica li ho offesi”.Infatti, “mica ci ha offeso, ci ha fatto solo un complimento”.Ma per favore On. Sannicandro, ma si rende conto della gravità della Sua frase?
Quando si fanno queste gaffe, bisognerebbe quanto meno chiedere scusa, ma Lei purtroppo non l’ha mai fatto, anzi ha perfino provato a dare delle spiegazioni sul perchè di quella frase, che sinceramente non mi ha convinto per nulla.
Una gaffè del genere non me la sarei mai aspettata da un partito come Sinistra Italiana, che Voglio ricordarLe Lei rappresenta!
E poi Vi chiedete ancora, come mai molti operai non Vi votano più!

Marco Bazzoni-Operaio metalmeccanico e Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza-Firenze

Nelle nostre resistenze popolari non s’incontra il ribelle ma il tenace

La differenza sommaria tra rivoluzionario e ribelle sta nelle circostanze storiche. Rivoluzionario è titolo che esige una comunità di intenti, dallo stile di vita al programma. Comporta l’appartenenza a un insieme e alla sua disciplina. Ribelle può sussistere anche da solo, risponde a se stesso e a singole occasioni di ribellione. S’intende che questa distinzione vale per me e per il mio vocabolario.
Il rivoluzionario è stata la principale figura politica del 1900, secolo specializzato in rivoluzioni. Attraverso di esse è cambiata la geografia del mondo, rovesciando secoli di dominio coloniale, facendo sorgere nuovi Stati in tutti i continenti. Sono nate repubbliche da regni, libertà da tirannie. Con il 1900 si esaurisce la figura politica del rivoluzionario. Gli anni correnti l’hanno messa al bando. Si ammettono con fatica all’albo le rivoluzioni arabe del Mediterraneo. Si esalta Nelson Mandela censurando il suo passato di combattente rivoluzionario, capo dell’African National Congress, organizzazione armata clandestina dichiarata terrorista fino al 2008. Scaduta la parola rivoluzionario, la si sostituisce con minore responsabilità politica con il termine ribelle, dotato di ampio margine di sfumature. Ribelle è un figlio verso i genitori, uno studente verso un professore, un cuoco verso una tradizione culinaria e perfino un ciuffo di capelli. Ribelle connota più un carattere che un impegno. Implica in vari casi anche il verbo sfogare: lo sfogo di una ribellione qualsiasi.
Gioventù ribelle: se si cerca in Rete, la prima risposta identifica il titolo di un infelice videogioco. Scrivo queste righe in risposta alla domanda cosa significhi essere ribelle oggi. Qualunque sia il risultato della ricerca, lo considero una diffamazione dell’impegno civile, la sua riduzione a fallo di reazione.
Nelle molte resistenze popolari dentro il nostro Paese, dalla Valle di Susa alle trivellazioni petrolifere in Adriatico, non s’incontra il ribelle ma il tenace, non l’improvvisato ma il consapevole. Ribelle è una categoria personale, ognuno può esserlo stato anche a sua insaputa. Il presidente del Consiglio in carica ha agito da ribelle nel suo partito prima di assumerne la segreteria.
Scaduto il termine rivoluzionario, escludo la supplenza del generico ribelle. Oggi conta l’impegno civile cocciuto e condiviso.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Vallo a capire cosa vuol dire essere ribelle

Poi questi di Left lo domandano proprio a me che con questa parola devo fare molta attenzione, perché è concetto così prossimo alla rabbia che spesso nella mia (e non solo) storia le due parole si sono confuse, la rabbia si è mangiata la ribellione e non fu un bel vedere. Che poi non si sa cosa preferire se un mondo piatto e putrefatto uguale al mondo di padri e nonni o un mondo di figli completamente distrutto dal furore, insomma la questione è scomoda.
Ribelle a me fa pensare a donne belle una seconda e tante volte, ri-belle. Sarebbe la ribellione più interessante, forse la chiave di volta per sconfiggere la rabbia, ma io per ora volo basso e friggo. Mi limito a cercar ribellioni nelle cose di cui mi occupo, che sono campagne e tavole calde, beninteso non nel senso di rosticcerie, ma di tavole che riscaldano il cuore. Per ora questo so fare e di questo parlo, che mi pare cosa più onesta.
Ecco la prima caratteristica del ribelle, l’onestà. Non puoi essere disonesto e ribelle al contempo, perché la ribellione passa attraverso un profondo rifiuto allo stato delle cose, un rifiuto interno e radicale. Il disonesto viceversa la realtà la vuole così com’è, perché è lì che può fare soldi a manetta. Che per esser disonesti bisogna conoscere bene le cose, studiarle, essere ossessivamente precisi per poi poter esser strategici, calcolatori, razionali, in fondo.
Razionale, dunque, è il disonesto, che vuol che tutto sia come è sempre stato. Di conseguenza, per esser onesti si ha da esser irrazionali, per vedere le cose brutte, reagire di pancia e ribellarsi per far sì che quelle cose non ci siano più, perché altre più belle possano apparire come per incanto.
Ricominciamo da capo. Come una ribellione potrà mai esser bella, se la storia intera è costellata di nefaste rivolte e rivoluzioni che partivano proprio dal concetto di irrazionale rifiuto allo stato delle cose? Dipende da chi la fa? Da come la fa? Che ne so, come stava Robespierre prima e dopo la rivoluzione francese? Come Fidel Castro a Cuba e Lenin in Russia? Tanto per prendere degli esempi eclatanti di ribellioni riuscite male. E se erano stronzi loro? Come stavano viceversa i partigiani che davanti alle ingiustizie più inumane presero le armi per la sola ragione di dire no, costi quel che costi? Non mi pare avessero altra scelta se non il ribellarsi e bene fecero a farlo.
Allora deve avere a che fare con sta cosa della mancanza di bellezza dentro di sé l’esser rabbiosi e non ribelli, o viceversa l’esser belli perché ribelli? Dove andarla a trovare la ribellione è un altro paio di maniche. Adesso che mi metto a raccontare?
Da qualche anno mi occupo della cucina popolare italiana. Ho iniziato a farlo dopo aver osservato il mutamento della semantica nella gastronomia, che in parole povere voleva dire che mi accorgevo che nessuno parlava più come mangiava, che magari in alcuni contesti puoi anche permettertelo, ma se parli di cibo, mi pare deontologicamente corretto parlare come si mangia.
Per uno abituato a fritture, gesti di generosità a tavola, soffritti belli unti e sughi profumati, quando ascoltavo la gente parlare di sushi, julienne, riduzioni, impiattamenti come se fossero parole di vitale importanza, li prendevo tutti per matti. Ma state tutti fuori di testa? Una melanzana è una melanzana, per dio. Ma puoi riempirti la bocca a parlare di Pistacchio di Bronte? Ma sti gran cazzi, francamente, con tutti i problemi che ci stanno di sti tempi. Ecco, mi voltai verso il mondo e il mondo lo vidi brutto nel suo essere falso, superficiale, stupido, instupidito.
Ma visto che stupidi non si nasce, volevo capire chi fosse la causa di questa stupidità. Soprattutto mi interessava sapere se ci fosse qualcuno che a questa stupidità violenta si ribellasse. Capire se erano ribelli recalcitranti o se fossero incazzati. E che ne facevano di questa ribellione, nella loro quotidianità.
Provo a spiegarmi meglio, facciamo che io sia cresciuto vicino al mare e che so che per fare un buon sugo vado a cercare dei buoni pomodori dal contadino. Poi faccio sbollentare i pomodori, li lascio scolare, infine un soffrittino, una cottura rapida, una foglia di basilico ed ecco a voi il paradiso. Pasta a mano con sugo di pomodori freschi. Cosa la modernità mi propone in cambio, sentiamo? Cose meno buone, scatolette di cartone con dentro un pomodoro acido, raccolto da gente schiavizzata, trasportato dalla mafia e venduto in catene commerciali complici della mafia stessa. Oppure cose buonissime, fatte con pomodori biologici, raccolti uno a uno, fatto diventar presidio, per dirlo ai quattro venti che sei buono e caro e fai la filiera corta e i presidi e il chilometro zero. Che quindi un sugo buono costa 5 euro la bottiglia.
Signore e signori, questa è la modernità. Un luogo in cui i poveri mangeranno merda al supermercato e i ricchi mangeranno bene, benissimo. Un mondo in cui se non sei persona avveduta ti diranno che i pomodori del contadino non esistono più, non devono esistere, di fondo non sono mai esistiti.
Sapete che ho scoperto in questi anni allora? Che nei fatti ciò che sta succedendo è che si sta operando un’alienazione marxiana ai danni di chi sapeva mangiare. Tipo il serpente Ka che prova a stordire Mowgli. Fanno credere alla gente che il mangiare, il cucinare non sia un atto intimo, radicato, di conoscenza, intelligenza, non sia atto deduttivo che domanda una prassi quotidiana basata sull’intuito, che è la forma più alta di intelligenza. Loro ti diranno che il sapere è una accumulazione razionale di nozioni, che una ricetta è codificata per sempre, che devi guardare le dosi e la preparazione e le foto e i tutorial. Ma io a mia nonna non ho mai potuto domandare niente. Ho osservato, dedotto dai colori, dai tempi, dalla pazienza, ho tratto conclusioni che valessero per me e solo per me, benché quei gesti fossero figli di una intelligenza millenaria di uomini e donne che vivono in un luogo.
Allora smisi di esser Donpasta per diventar rovistatore. Così iniziò un viaggio che non so quando finirò. Iniziato ahimé con una parmigiana di melanzane e chissà, magari finirà con un dolce che offrirò alla mia bella. Ma non è roba facile da spiegare. Sono andato per campi, porti, da pastori, nonnine, poi nelle periferie distrutte per capire se esistesse ancora la cucina italiana, quella che io avevo in corpo in ogni mio gesto. Per dimostrare che a cancellar cose non funziona mai, si creano mostri, che ciò che era sfuggito era linguaggio, pratica, cuore, memoria della gente. Avevo ragione io, lo sapevo, me lo sentivo. Ho incontrato gente che poteva raccontarti per filo e per segno del perché la modernità avesse perso in partenza. Perché la modernità andava per selezione, filtrava fino a perdere l’essenza delle cose.

Questo racconto continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Giornaliste a piedi per le strade violente del Messico

MEXICO CITY, MEXICO - FEBRUARY 1 : Journalists attend a protest outside the Veracruz state representation office in Mexico, Mexico City on February 11, 2016. Mexican journalist Anabel Flores Salazar, 32, was found dead in Puebla on February 9, 2016 a day after she was abducted. Manuel Velasquez / Anadolu Agency

Che sia chiaro: il Messico non è il Paese turistico della pubblicità, ne quello decritto nei discorsi ufficiali. Qualche esempio, fra i piú recenti: i 43 studenti scomparsi di Ayotzinapa, gli omicidi di civili commessi dai militari in Tlatlaya, gli abusi contro i migranti che arrivano dall’America centrale per raggiungere gli Usa, il ritrovamento di fosse comuni in tutto il Paese. Tutte storie del Messico di oggi che per essere raccontate hanno bisogno di giornalisti, ma questi giornalisti sono in pericolo». Elia Baltazar è una delle migliori croniste messicane. Se vuoi conoscere le vene aperte di Città del Messico, devi attraversarla con lei. Non a caso è tra le fondatrici del gruppo Periodistas de a pié, giornaliste a piedi.
Quando sei dentro una guerra civile non dichiarata e rischi di ritenerla normale, devi inventarti nuovi strumenti per non soccombere. «Nel 2006 inizia ad aumentare la violenza. Al principio non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo, ma intuivamo che tutto cambiava e rapidamente», ci racconta Elia. Il 2006 è l’anno in cui viene lanciato il Plan México, un programma di 400 milioni di dollari tra Usa e Messico, una dichiarazione di guerra al narcotraffico che ha prodotto piú di 22mila desaparecidos e 70mila morti, tutti civili, tra 2006 e 2012. In una lista a parte vanno registrati i giornalisti uccisi o fatti scomparire. Solo nel 2015 sono state 326 le aggressioni , una ogni 26,7 ore.
In questo scenario di cambiamento «la prima cosa che abbiamo deciso di fare come giornaliste è stato un esercizio di autocritica, domandandoci se stavamo facendo bene il nostro lavoro nei giornali in cui ognuna di noi lavorava per portare in primo piano i temi emergenti». Elia Baltazar si è posta queste domande insieme ad altre colleghe che vivono e lavorano a Città del Messico: Marcela Turati, Margarita Torres, Daniela Pastrana, Daniela Rea, Verónica García de León, Tere Juárez, Mónica González, Celia Guerrero. Ognuna di loro, dal proprio giornale-frontiera, scrive ma non parla delle vittime, lascia che siano le vittime a parlare. In una guerra civile non dichiarata la loro realtá deve essere filtrata, manipolata, diluita. Las periodistas de a pié rompono il gioco retorico e mettono le parole delle vittime in primo piano. Ma le storie non bastano. Analizzano dati e cercano di produrre quelli che non ci sono, perché «i dati – dicono – sono un arma politica». Investigano laddove è più difficile guardare: scomparse, femminicidi, torture, aggressioni. Producono prove e raccontano per non cancellare

Questo articolo continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Quando Rosa Parks rifiutò il posto riservato ai neri

Il mondo, la cultura, la conoscenza, le relazioni sociali non cambiano prevalentemente tramite piccoli spostamenti, miglioramenti incrementali, piccoli aggiustamenti al margine. Occorre che qualcuno faccia un salto di lato, o fuori, che rovesci il tavolo, cambi la prospettiva e/o le regole del gioco. Per quanto favorita dai mutamenti incrementali, nei loro successi e anche (soprattutto) nei loro fallimenti, si tratta sempre di una cesura. Nelle scienze questo atto di rottura si chiama mutamento di paradigma, come quando dal sistema tolemaico si è passati a quello copernicano, passaggio non a caso definito rivoluzione copernicana. Senza questi atti di rottura non ci sarebbe stato progresso scientifico e conoscitivo, anche se incontrano per lo più forti resistenze più o meno interessate e in buona fede.

novanta_20160812155229878

Basti pensare, per rimanere a un esempio più vicino a noi, alla difficoltà con cui l’establishment accademico e politico prende atto del fallimento della teoria secondo cui l’austerity nel medio-lungo periodo genera ripresa e benessere, una teoria che, nella forma del Washington consensus a suo tempo imposto ai Paesi in via di sviluppo, era già stata falsificata (con esiti drammatici per le popolazioni coinvolte), ma che continua ad essere proposta e imposta, nonostante le severe critiche di cui è oggetto ormai anche dall’interno degli stessi organismi che la avevano fatta propria (Ocse e Fmi). La necessità di azioni di rottura, di ribellione, per produrre un cambiamento riguarda anche le relazioni sociali.

novanta_201608121551500

Se Rosa Parks un giorno non avesse rifiutato di sedersi nella parte dell’autobus riservata ai neri e se molti altri e altre non l’avessero seguita nonostante tutti i rischi che ciò comportava, se alcune coraggiose ragazze e ragazzi neri non avessero sfidato le regole iscrivendosi alle università fino ad allora riservate ai bianchi, la questione razziale sarebbe oggi negli Usa ancora quella in cui i neri erano visti e definiti come meno umani e dalla cui contaminazione occorreva difendersi. Certo, il razzismo continua ad esistere negli Usa e i ragazzi neri continuano a essere esposti al rischio di morte violenta in una percentuale infinitamente superiore ai loro coetanei bianchi. Ma quella ribellione ha aperto la strada a che potessero rivendicare pari diritti e dignità. Se Franca Viola, una giovane donna siciliana, non avesse rifiutato di sposare chi l’aveva rapita e violentata, in Italia avremmo dovuto aspettare ancora a lungo che venisse abolito quel monstrum morale e giuridico che era il matrimonio riparatore, e con esso anche l’altra mostruosità del delitto d’onore.

novanta_20160812155133249

C’è voluta la forza dirompente – ribelle – del movimento delle donne e delle analisi femministe per mostrare quanto di rigido e oppressivo ci fosse nei modelli di genere prevalenti, spesso incorporati anche nella legislazione, oltre che nell’organizzazione della famiglia. Ancora, se le persone omosessuali non avessero rivendicato pubblicamente la propria normalità, le leggi e i libri di medicina continuerebbero a definirli devianti e/o malati. Ribellione necessaria, positiva, per me è quella che apre il cervello, aiuta a cambiare prospettiva, a ridefinire i termini delle questioni. Tutto il contrario non solo delle rottamazioni fini a se stesse, ma anche delle ribellioni identitarie: che si consegnano mani e piedi (a volte letteralmente, fino alla consegna della propria vita) a visioni e poteri sì alternativi a quelli contro cui ci si ribella, ma altrettanto e spesso più chiusi e dogmatici.

novanta_2016081215525883

Questo articolo continua su Left in edicola dal 13 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Crescita zero,governo in panne.Caffè del 13 agosto 2016

L’Italia non cresce,allarme PIL, debito record, crescita zero. Nell’ordine, ecco i titoli di Stampa, Repubblica, Corriere e Sole24Ore. I dati sono presto detti. Nel secondo trimestre l’Italia ha totalizzato il risultato peggiore in Europa insieme alla Francia: crescita zero. Ma in Francia hanno pesato gli scioperi contro il jobs act e la crescita tendenziale nell’anno resta dell’1,4% il doppio che in Italia, dove non supererà lo 0,7%. La Germania è cresciuta dello 0,4 nel trimestre e dell’1,7% nell’anno. Lo stesso l’Euro zona, o,4 e 1,8%. Inoltre in Italia ristagnano i consumi e il debito pubblico è cresciuto in un solo mese di ben 7 miliardi toccando i 2.248,8 miliardi di euro, una cifra che spaventerà i rigoristi europei rendendo improbabile (o molto salata, in termini di condizionamenti politici) la concessione di nuovi trattamenti di favore al nostro governo, pur di mantenerlo in sella. E Renzi che fa? Invece di riconoscere che jobs act, taglio dell’IMU e incentivi a pioggia alle imprese si sono rivelati una medicina poco efficace, accusa chi lo contesta rendere il paese meno stabile e promette sfracelli in Europa, la quale dovrà concedere “più flessibilità”.

La narrazione s’è rotta, più nessun gli crede. Per Repubblica, Francesco Manacorda parla di “Riforme che mancano” e Stefano Folli, descrive un premier preoccupato solo di non perdere il referendum, intento a nascondere la cenere (dell’economia) sotto il tappeto, facendo così aggrovigliare i nodi del nostro ritardo senza provare a scioglierli. Guido Gentili, sul Sole24Ore, cita Krugman e spiega come la nostra palla al piede sia la più bassa produttività. Mario Deraglio, per la Stampa, disvela il cortocircuito finanziario che potrebbe scatenare la tempesta perfetta: il debito che cresce dovranno finanziarlo le banche, ma alcune banche hanno bisogno di finanziamenti pubblici. Dario Di Vico, per il Corriere, avverte che il peggio potrebbe ancora arrivare: solo un quarto delle nostra industria ha superato il check della crisi, un quarto è defunto, la restante metà rischia di perire o scappare all’estero.

Piove, governo ladro? No, il governo forse non ruba, ma se continua a negare che fuori piove inevitabilmente si troverà la casa allagata. Da anni s’è rotto, ovunque nel mondo, il meccanismo che autorizzava a sperare nell’arrivo dopo ogni crisi di una crescita sostenuta. L’economia cinese rallenta, quella di paesi emergenti come il Brasile è nelle peste per il crollo del prezzo delle materie prime, le disuguaglianze crescenti negli Stati Uniti e il concentrarsi della ricchezza in pochissime mani alimentano la speculazione finanziaria (con bolle che scoppiano sempre più di frequente) e scoraggiano investimenti e consumi. L’Italia sta peggio perché mafie, corruzione ed evasione continuano a succhiare risorse, perché è governata alla giornata e dunque male -si pensi alla rete WiFi, penosamente inadeguata-, perché la metà della sua industria produce per il mercato interno e, in assenza di una crescita sostenuta della domanda, ha bisogno per sopravvivere di continue dose di metadone; sotto forma di sgravi governativi con cui far cassa o di tangenti da pagare per accaparrarsi commesse.

Quello che servirebbe, amici miei, è una politica di sinistra. Un piano di investimenti pubblici (che in parte ne trascinerebbero di privati) per riconvertire l’industria. Solo dopo aver individuato precisi orientamenti di politica industriale. Puntare sui consumi collettivi, sullo sharing, cioè sul solo modo di consumare che si offre ai nostri figli, i quali sono più poveri dei genitori, e lo sono in Italia ancor più che nel resto dell’occidente. Una lotta severissima all’evasione fiscale, all’intermediazione mafiosa, alla corruzione (che resta il lubrificante abituale del rapporto politica impresa). Non meno tasse, ma trasparenza delle tasse come della spesa: in modo che si sappia dove finisce ogni euro, in quale servizio sanitario, per aiutare (e come) i ragazzi a trovar lavoro, per sostenere quali poveri e in che modo. È realizzabile una tale politica “di sinistra”? È difficile, perché l’Europa a trazione tedesca non ragiona in codesto modo. Ma non impossibile, finche Mario Draghi, stampando euro e comprando titoli del debito, renderà meno insopportabile il peso del debito italiano.

Coraggio, visione del futuro, capacità di autocritica. Questo serve. Matteo Renzi cercherà, invece, di prender tempo. Proverà a vincere il referendum, comprandosi pezzi di ceto politico -la minoranza a cui ora vuole concedere l’elezione dei consiglieri senatori- e usando la parola magica “riforma” – meglio una riforma così così che nessuna riforma- esattamente come i conquistadores usavano vetri colorati e pajiettes per gabbare gli indios. Poi – magari con un nuovo patto del Nazareno- modificherà la legge elettorale, lasciandone l’impianto (proporzionale con premio di maggioranza) che tradisce il principio della rappresentanza, ma rinunciando al ballottaggio, che ormai -si sa- favorirebbe i 5 Stelle. È una politica questa? Sì, è la politica dello struzzo. Commenta un Altan: “Dice il Renzi che ha fatto un errore, forse”. Risponde l’altro Altan: “Allora è di sinistra, forse”. Giannelli titola “Viaggiare informati” e disegna una fila di macchine in autostrada: “Rallentamenti sull’autosole” dice la radio su una vettura. “Altro che rallentamenti, siamo completamente fermi” si ribatte da un’altro auto. “È la tecnica dell’informazione sul PIL”, è il commento finale. A questo punto si illumina di luce nuova la vignetta di Mannelli sulla Boschi. “Lo stato delle cosce”, aveva detto. Molto meglio, per questo governo, parlar di cosce che di cose.

La fantasia di Colombo. Il talento di Marco Polo e Ibn Battuta. Storie di grandi viaggiatori

«Il viaggio è fatale per il pregiudizio, la bigotteria e la ristrettezza mentale» scriveva Mark Twain. E nella storia sono stati tanti i grandi viaggiatori, alcuni figure anche leggendarie, che hanno lasciato libri e testimonianze di grande fascino e apertura mentale. Pensiamo per esempio a Marco Polo e al suo immaginifico Milione oppure a un coltissimo viaggiatore arabo come Ibn Batuta. Grandi viaggiatori sono stati i mercanti, ma anche gli avventurieri e i pirati. Viaggiatori sono stati, soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti. Anche se erano una ristretta elite. Ha raccontato queste e tante altre tipologie di viaggiatori il docente di letteratura anglo-americano Attilio Brilli, fra i massimi esperti di letteratura di viaggio. A cui ha dedicato numerosi saggi. Fra i quali Viaggio in Oriente, Il grande racconto del del Grand Tour  e più di recente  Mercanti e avventurieri (Il Mulino), che sarà a centro della sua conferenza al festival Con-vivere a Carrara, l’8 settembre mentre il 4 settembre a Sarzana  al Festival della mente parlerà del viaggio fra spazi reali e immaginari.

Professor Brilli i mercanti che si mettevano in viaggio nel medioevo e nei secoli successivi erano anche un po’ degli avventurieri?

Lo era un personaggio come il fiorentino Francesco Carletti (1573 – 1636), che fece un viaggio intorno al mondo stupefacente, viveva mercanteggiando, senza scrupoli. Iniziò portando i neri nel nuovo mondo. Durante il viaggio in momenti di bonaccia, quando mancavano i viveri e l’acqua scarseggiava, buttano gli schiavi fuori bordo – purtroppo quel che succede ancora oggi in viaggio fra la Libia e l’italia – . Carletti, raccontando quei momenti, scrive:”mi veniva male nel veder buttar via la roba mia”.  Per lui quelle persone erano “roba” , mercanzia, niente altro. Questo è per dire della mentalità del tempo. Quando Francesco Carletti arrivò in America  si domandava chi erano in realtà  i conquistadores. Erano ribelli spagnoli, senza arte né parte, per un verso. Per  un altro verso era gente che si dava all’avventura pur di scoprire qualcosa di nuovo,  si imbarcavano per l’ignoto e diventano poi conquistadores in Spagna. Curiosamente dice la stessa cosa Filippo Sassetti (Firenze, 1540 – Goa, 1588) che invece viaggia in senso opposto, va verso Oriente e vive e commercia con le colonie portoghesi, a Goa: i portoghesi erano dei veri e propri avventurieri, gente che si dava alla ventura, che andava alla scoperta del nuovo mondo, nuovi modi di vivere e così via. Sia Carletti che Sassetti sono già degli avventurieri. Gli inglesi definicono questi personaggi merchant adventurier, mercanti avventurieri dove avventurieri non ha il senso negativo che gli diamo noi, indica colui che si dà all’avventura, che scopre nuove terre, nuovi canali di mercanzia, luoghi  dove poter imbastire nuovi scambi e commerci con le spezie, con le pietre preziose e altro.

Per partire verso l’ignoto ci vuole una dimensione interna di fantasia. Fu importante per Colombo che andò alla ricerca di nuovi orizzonti, di cui non aveva esperienza, ma che “intuiva” possibili?

Sì, nel  modo più assoluto.  Colombo è l’esempio più affascinante in questo senso. Basta leggere una testimonianza del figlio Fernando; dice una cosa stupefacente: “mio padre aveva  due  libri nella biblioteca di bordo,  uno dei due era Il Milione di Marco Polo”. Tutti i navigatori avevano una piccola biblioteca a bordo. Erano meno sprovveduti di quel che si pensa. Il secondo libro che Colombo portava con sé era un un testo John of Mandeville, i cui viaggi erano totalmente immaginari, non si mosse mai da Oxford, non uscì dalla biblioteca e lì  stilò una sorta di regesto di tutti i libri dell’antichità, da Erodoto in poi, i grandi enciclopedisti medievali, Isidoro di Siviglia eccetera. Colombo aveva questo libro di viaggi immaginari o antichi, del mondo calssico. Se si fosse basato su di esso  figuriamoci se sarebbe arrivato! Marco Polo va via terra in Oriente, Colombo va per mare verso Occidente, ma Colombo vi leggeva il grande impulso a confrontarsi con l’ignoto; cercava di sfondare il muro d’ombra di ciò che  sconosciuto.

Yahyâ_ibn_Mahmûd_al-Wâsitî_005Lei ha scritto un libro sui viaggi in Oriente che erano connotati di forte esotismo nell’Ottocento. Poco si sa invece dei viaggiatori arabi. Fra questi però ci sono figure molto affascinanti come Ibn Battuta. A spingerlo ad esplorare il mondo era il desiderio di conoscenza?

Quello di Ibn Battuta è un caso  molto  interessante. Il suo viaggiare ha tre dimensioni che si completano; tipiche della mentalità araba. Viaggiò per  quasi tutto il mondo conosciuto allora,  diceva di voler andare  nelle molte  madrasse e scuole coraniche che sono sparse per il mondo. I suoi erano viaggi di studio, certo, ma anche lui mercantaggiava. Lo facevano anche per sopravvivere, per finanziarsi il viaggio. E poi si muoveva come uomo di cultura, divenne uomo di corte, molto ricercato, alle Maldive. Lì diventò un grande personaggio politico, portando un sapere che a loro era ignoto, per esempio nell’amministrare. Non a caso Ibn Battuta viene visto come il Marco Polo arabo. Anche per il mercante e viaggiatore veneziano la grande fortuna fu che divenne una sorta di confidente del Kublai Khan, un  supervisore delle sue terre. Nel Milione dice che Kublai aveva grande stima di lui  perché gli indicava i problemi reali, dove c’erano amministrazioni che non funzionavano. Tutti gli altri suoi collaboratori invece tendevano sempre a rassicurarlo a dirgli che andava tutto bene, anche se non era così.  Ibn Battuta ( autore de I viaggi, Einaudi ndr) era un intellettuale, un mercante, ma soprattutto un uomo dotato di un desiderio di conoscenza molto grande.

Parlando di viaggi fatti per conoscere,  l’Italia è stata per secoli meta del Grand tour , una moda che durata fino alle epoche napoleoniche?

Il Grand tour è stato molto importante. A volte lo si vede superficialmente, ma fu una spia di un modo nuovo di rapportarsi al mondo. Nasceva dall’empirismo di Francis Bacon. Il quale consigliava di  non prendere niente per vero che tu non possa dimostrare e sperimentare nella realtà dei fatti. Il Grand tour diventò un modo per scoprire tutto ciò che di  interessante c’era da scoprire nel mondo. Venire in Italia per vedere la grande tradizione pittorica, la scultura da Michelangelo a Canova per esempio. Ma si dimentica che molti viaggi erano di carattere scientifico, per esempio John Ray mette nell’indice del suo libro una specie di rassegna botanica.  Linneo in fondo si basò sugli studi del Grand tour, su ciò che gli riportavano di volta in volta i viaggiatori. Nel Settecento finisce per sistematizzare le informazioni raccolte. I primi viaggiatori in Oriente, in Yemen che veniva chiamato Arabia felix, portarono a Linneo un albero che lui non conosceva, l’albero del balsamo della Mecca. In qualche modo il Grand tour insegnava a non ignorare niente poi l’interesse si restringe alla tradizione artistica, ma era partito con un approccio universalistico, tutto ti deve interessare dalle piante, alle forme politiche e così via. Insomma il viaggio è stata una grande matrice di conoscenza.

Oggi il viaggiare si è democratizzato, ma dall’altra parte  assistiamo ai viaggi dei migranti e dei rifugiati, che sono costretti a spostarsi.

Il dramma dei migranti oggi è un tema importantissimo .Quello che posso dire riguardo al passato è che  dalla tarda latinità in poi, si è parlato di migrazioni di popoli.  Uno studente italiano oggi sui libri di  storia trova capitoli dedicati  al tramonto del mondo romano e alle invasioni barbariche. Se fosse uno studente tedesco  il suo manuale  tratterebbe quella stessa materia come migrazioni di popoli.

Dall’altra parte si assiste al turismo di massa,  è diventato una forma di consumismo  per il viaggiatore che viene da Paesi ricchi?

E’ un fenomeno ormai molto diffuso.  Quello che manca è la chiave è sapere come fare un viaggio, il gusto della preparazione che permettere di capire più in profondità il luogo  che visitiamo.  I viaggiatori del Novecento mi hanno insegnato molto in questo senso. Tenevano presente chi li aveva preceduti. Non è una forma di nostalgia. Chi c’è stato prima di me mi dà le chiavi di lettura e mi permette di vedere le differenze.  Nelle Città invisibili Calvino immagina che chi voglia andare a visitare una determinata città debba  portarsi una mazzetto di cartoline per vedere come era trenta o cinquant’anni  prima. Ecco, io direi,  se non c’è questo doppio sguardo, meglio restare a casa.

 

La lettera di Davide a Left: «Sono anni che tentano di distruggermi sotto il profilo identitario e psicologico»

Una premessa che non costituisce mero sfondo retorico, utile per aprire l’argomentazione che segue sul sistema penitenziario e sulle modalità di espiazione delle pene è che, ovunque, anche in queste sedi ove trova costante nutrimento la più becera forma di cameratismo, a volte leggibile anche come “omertà delle divise”, ci sono operatori, forse troppo soli, che ritengono che esista un limite oltre il quale eseguire un ordine o schierarsi, poco conta la differenza, non sia più un dovere ma un’aberrazione del dovere stesso di essere, anzitutto, esseri umani che, con altri esseri umani, sono tenuti ad un’interazione positiva. È questo, indubbiamente, il caso ammirevole di chi mi ha invitato a scriverle la presente; un assistente di polizia penitenziaria che “gioca” dalla parte del diritto e secondo i principi costituzionali di tutela e sviluppo della persona.

Ergo il sistema penitenziario italiano, di cui purtroppo il carcere di Bologna, e segnatamente il reparto penale, “penale tout court”, rappresenta un chiaro quanto devastante esempio, allo stato attuale, ma da lungo tempo e sempre più, è la cristallizzazione del fallimento neoliberista della soluzione dei conflitti sociali. È, così come abbandonato a se stesso attraverso l’assordante silenzio delle istituzioni e di coloro che all’interno dovrebbero occuparsi di progressioni rieducative, come inutilmente sancito dall’art. 27, co. 3 della Costituzione repubblicana, null’altro che la perenne università del crimine che si autoalimenta attraverso la costante produzione di recidiva e di amplificazione delle attitudini e delle capacità criminali della maggior parte dei detenuti, quelli che senza sostegno non riflettono sulla possibilità di cambiare e di riconciliarsi con la società in un’ottica di integrazione etica e non conflittuale.

Eppure l’argomento è annoso e arricchito da fiumi di parole scritte che, tuttavia, dopo la loro icastica presentazione in pompa magna, cadono nel nulla della più totale e sciocca indifferenza. I detenuti e il carcere, attraverso lo svolgersi malato delle attività dinamiche è, soprattutto, un business immenso capace di soffocare ogni possibile richiamo al rispetto dei diritti umani e sociali. Poco conta, poi, sei i mancati processi rieducativi sono causa ed effetto dei principi, tanto dibattuti e posti al centro del populismo della “sicurezza a tutti i costi”, di prevenzione generale e speciale che costituiscono il presupposto imprescindibile per l’abbattimento della recidiva e l’abbassamento della soglia di criminalità nel sistema sociale. Ecco come la demagogia della certezza della pena, letta unicamente in chiave retributiva ed interpretata attraverso il paradigma più classico quanto becero del neoliberismo, distrugge ogni possibilità di recupero sociale e racconta ad un popolo poco informato la menzogna della sicurezza che, in questi termini, troverebbe certezza nell’applicazione della pena detentiva come unica cura dei problemi sociali.

Un chiaro esempio dell’insignificanza normativa sul rispetto dei diritti umani e della tutela dei singoli e della società, è pacificamente riscontrabile nel fallimento fattuale del codice di condotta che deve informare l’agire dei soggetti responsabili dell’applicazione delle leggi e dell’ottemperanza verso le stesse di cui alla Risoluzione Onu n. 35/169 del 17 dicembre 1979 che prevede, in particolare all’art. 5, che gli stessi non possono infliggere, suscitare o tollerare atti di tortura fisica e psicologica ovvero qualunque altra forma di pena o trattamento disumano o degradante (…) invocando, poi, all’uopo di mera discolpa, alcuna condizione o giustificazione.
Seguendo la via delle grandi dichiarazioni che prima di cadere nel nulla vengono poste a sostegno delle grandi strategie di esplicitazione dell’autoreferenzialità, tanto utile quanto irrinunciabile per le istituzioni totali, si noti come, in particolare, è fatto assoluto divieto di tortura e di ogni altra forma di trattamento crudele, disumano e degradante dall’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dall’art. 7 del Patto internazionale sui Diritti civili e politici adottato nella Convenzione di New York del 16 e 19 dicembre 1966, ratificata dall’Italia e resa esecutiva con la Legge 25 ottobre 1077, n. 881, dall’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata dall’Italia e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché dal nostro inascoltato art. 27, co. 3 della Costituzione. E nemmeno pare importare, atteso il contenuto delle cosiddette leggi e leggine “svuotacarceri” che, oltre ad essere del tutto scarno, nemmeno trova applicazione presso la magistratura di sorveglianza, come il neo introdotto art. 35 ter L. 355/75 e succ. mod cd. Ordinamento Penitenziario che dovrebbe prevedere un risibile sconto di pena, un giorno su dieci espiati, per coloro che si sono trovati, anche per tempi lunghissimi, ad affrontare condizioni di sovraffollamento e promiscuità che integrano, secondo quanto sancito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, palese violazione dell’art. 3 Cedu, ovvero tortura che gli arresti giurisprudenziali, pur nella forma della c.d. sentenza pilota, appunto della stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, definiscano il trattamento degradante, di cui all’art. 3 Cedu, come «un trattamento tale da ingenerare nelle vittime sentimenti di paura, angoscia e inferiorità, in grado di umiliare ed eventualmente rompere la loro resistenza fisica e morale». Anzi, non solo non importa; tale tipo di trattamento, qui a Bologna come nella maggior parte delle carceri italiane, assume il valore di vero e proprio architrave del sistema sanzionatorio penale: «il carcerato deve soffrire».

E si noti inoltre, onde sottolineare anche l’aspetto relativo alle violazioni vere e proprie delle norme comunitarie, costituzionali e penali, che, in ossequio a quanto disposto dagli artt. 10 e 117 della nostra Costituzione, le norme della Convenzione europea devono trovare immediata applicazione – c.d. principio di self executive – nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del del loro inserimento nell’Ordinamento giudiziario italiano (…) «In virtù della Convenzione europea, in Italia, il Giudice nazionale non è oggi solamente chiamato (e con lo stesso, in ogni caso, tutti gli operatori del diritto anche in sede amministrativa) a verificare – nel momento astratto della sua valutazione e formulazione – la conformità costituzionale del sistema normativo da applicare, ma deve valutare, alla luce dei principi sanciti dalla citata Convenzione, tale sistema nel momento operativo della sua concreta ed effettiva valutazione, per evitare che lo stesso, distortamente interpretato, possa risolversi nella violazione dei diritti fondamentali della persona, da essa riconosciuti e tutelati (Cassazione sez. I 12 maggio, 19 luglio 1993)». Un chiaro esempio, questo, di fantascienza giuridica, vieppiù laddove tale sacrosanto principio venga visto in un’ottica di comparazione tra lo stesso e la consueta attività del giudice penale nazionale, cui è parte integrantre la magistratura di sorveglianza, che, a Bologna come in altre amare realtà, altro non esprime che una manifesta abiura per le progressioni rieducative extramurarie attraverso una visione parossisticamente restrittiva sulla concessione di benefici penitenziari che, peraltro, oltre ad essere manifestazioni di umanità espresse dal legislatore penitenziario, assurgono ad imprescindibile strumento di abbattimento della recidiva, come chiaramente dimostrano le statistiche fornite dallo stesso Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Oltracciò, e Bologna fa scuola, a ulteriore fondamento logico di quanto qui esposto, peraltro in via di mera sintesi laddove si consideri, in concreto, il novero sterminato di problematiche, è corretto e opportuno sottolineare il nesso fisiologico che vincola, in negativo assoluto sotto il profilo del dato teleologico, i principi costituzionali di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge – art. 3 Cost. – che che devono caratterizzare l’esecuzione della pena conservandone il principio di legalità e certezza del diritto – art. 25, co. 2 Cost, ovvero quelli di divieto di tortura e trattamenti contrari al senso di umanità di cui all’art. 3 Cedu e al diritto pattizio e convenzionale precedentemente richiamato, con una prassi illeggittima che sottopone costantemente i soggetti qui detenuti a trattamenti disumani, degradanti, di privazione della dignità (prassi che si manifesta nei modi più disparati possibili: perquisizioni continue, provocazioni, istigazioni, dispetti, silenzi, etc.), ovvero di assoggettamento ad una pena di fatto ben più grave e pesante di quella in concreto irrogatagli in nome del popolo italiano e, attenzione, in uno Stato di Diritto, in quanto espiata in uno stato di costante e reiterata violazione dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

Sarebbe dunque il caso di rammentare anche ai più sordi che un differente e previsto orientamento risocializzativo, rispondendo a un’esigenza di rispetto della dignità umana, riflette una precisa opzione per cui l’efficacia dell’Ordinamento penale non risponde solo al criterio di esercizio del potere coercitivo dello Stato ma all’ambizione, semplicemente di buon senso, che il valore delle norme e della loro dimensione precettiva possa essere liberamente fatto proprio da tutti i cittadini, anche da parte di coloro che dette norme hanno violato. Ciò significherebbe far sì che l’impatto del sistema penale punitivo non si debba configurare mai come impedimento o sbarramento di ogni prospettiva esistenziale dell’individuo considerato come essere sociale, ma come occasione percorribile al fine del recupero di un rapporto proattivo e costruttivo con il tessuto sociale. L’orientamento alla risocializzazione non dovrebbe implicare una pena, un trattamento che, più o meno, “terapeuticamente” risocializzi, quanto che l’intervento punitivo comporti il minor possibile sacrificio dei diritti fondamentali dell’individuo e, dall’altra, assuma evidenze significative sotto il profilo della produzione di valori di solidarietà sociale e, per dirla con Gherardo Colombo, di perdono responsabile.

Tutto ciò allude alla rottura dell’impermeabilità ed extraterritorialità del carcere. La sperimentazione, già ampiamente adottata in altri Stati europei con esiti assolutamente positivi, di forme aperte di carcere contribuisce a ricondurre il diritto entro il suo alveo naturale, a rimettere in primo piano i soggetti, le loro storie e realtà, anziché le fattispecie penali che omologano gli individui nell’unicità ed irrevocabilità della pena. Solo la socializzazione di dinamiche istituzionali aperte ha come presupposto la promozione e la valorizzazione di quelle libertà che sono in grado, a un tempo, di permettere trasformazioni individuali in un costante divenire sociale.

La conclusione è un semplice auspicio che riguarda direttamente la comprensione e l’azione di tutti coloro che, in diversa misura, gestiscono, in piena titolarità, il potere di decidere sia legiferando che amministrando e giudicando. È l’auspicio che si finisca, una volta per tutte, di lanciare inutili proclami e, contestualmente, si aprano gli occhi su questa realtà, comprendendo che chiusura, stigmatizzazione e sofferenza non aiutano ma distruggono una società sempre più vuota di principi e idee.

Che c’avete in testa quando tirate in ballo il Che?

Il deputato M5s Alessandro Di Battista, prima della partenza per il suo tour di 4000 km in scooter per l'Italia #iodicono, per dire no al referendum Costituzionale, in Piazza Montecitorio a Roma, 7 agosto 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

«Scusi, della “Che Guevara” c’avete anche i borselli?». Quella di Checco Zalone in Sole a catinelle forse è la considerazione politica più sensata degli ultimi tempi. L’Italia chi è Che Guevara se l’è proprio scordato, se a tirarlo per la giacchetta sono politici di ogni sorta.

13895322_10153944024792737_9192121566686976621_n

Di Battista fa il suo tour in bicicletta, si fa fotografare mentre legge a letto e dice di avere Guevara nel suo pantheon, ma è alla guida – non da solo, certo, ci mancherebbe – del Movimento 5 stelle. No, le due cose non possono coesistere. Il noeuropeismo sul filo della xenofobia del M5s si scontra con l’internazionalismo e il terzomondismo del Che, mi spiace.

Sala GuevaraAncora: 5 febbraio 2016. Giuseppe Sala, candidato alle primarie del centrosinistra di Milano, alla vigilia del voto, caccia fuori una maglia rossa con l’effige del Che: «Ora la metto nel cassetto, con la lavanda. Ma spero di poterla tirare fuori quando, a giugno, sarò sindaco della città». Sala ha vinto, adesso è sindaco di Milano, se lo abbia fatto davvero non è dato saperlo. Quello che forse è certo è che Guevara non avrebbe gradito essere riposto in un cassetto in compagnia della lavanda.

Prima di lui, l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino: «Siamo realisti, vogliamo l’impossibile», dice il guerrigliero Ignazio, intendendo come “impossibile” continuare ad amministrare Roma. Vabbè, meglio non infierire, ma non confondiamo marziano con marxiano.

Il fatto è, abbiate pazienza, che oltre a una motocicletta e a un discreto numero di aforismi (veri o falsi che siano, sulla rete non importa) Ernesto Guevara è pure portatore di un pensiero. Anzi, di una teoria politica. Si chiama guevarismo.

Sarà che è diventato una specie di rockstar, della quale non si conosce nemmeno una canzone. Sarà che la parte politica che dovrebbe stargli più vicina ha smesso di occuparsene tanto tempo fa. E non nel celebrarlo, s’intende. Perché se Guevara è stato – come è stato – un guerrigliero sì, ma anche un politico e un pensatore; allora “stare dalla sua parte” dovrebbe voler dire quantomeno riflettere su quel pensiero. Ma, a sinistra, discutere del Che, ricordarlo o anche solo citarlo è “anacronistico” se non “ridicolo”, è una roba da ragazzi… alla stregua di chi indossa la kefiah basco in testa e sigaro in bocca. Così, tanto per giocare, per scimmiottare quel fico di un guerrigliero.

Casa Pound

 

Intanto la destra, quella estrema, come abbiamo visto, lo usa e lo abusa. Tipo Casa Pound, sì Casa Pound. Anno 2009, i fascisti del terzo millennio svolgono un’iniziativa dal titolo: “Aprendimos a quererte” (hanno imparato ad amarlo… loro) per rendere omaggio a Che Guevara (si legge nel loro invito): «CasaPound si appresta a celebrare la figura del Che e, con esso, la memoria della destra rivoluzionaria. In confronto aperto con la sinistra radicale».

Che in Italia il Che e il guevarismo tornino al loro posto – che non è certo CasaPound, e nemmeno una maglietta – non è e non deve essere una speranza. Ma una responsabilità della sinistra. Serve onestà, conoscenza, l’abbandono dell’idolo usa e getta. Il Che non è mai stato un pacifista, inutile indossare la sua maglia impugnando una bandiera della pace. Si può anche non essere d’accordo con Guevara, non è necessario modificarne i contenuti (purché siano di nostro gradimento, o utilità).
Perché in questo sì ha ragione Guevara: per un mondo nuovo è indispensabile un Uomo nuovo. Altrimenti non se ne esce. Ma in questo chissà perché non lo cita mai nessuno.