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Strasburgo approva il Rapporto Forenza: «Le persone prima dei profitti, a cominciare dal Ttip»

Oggi, 5 luglio, il Parlamento europeo ha approvato il rapporto su Commercio internazionale, diritti umani e sociali e standard ambientali, di cui è stata relatrice Eleonora Forenza, eurodeputata de L’Altra Europa con Tsipras – gruppo Gue/Ngl. Approvato a larga maggioranza, il rapporto di cui è stata relatrice l’italiana Forenza, chiede che ogni accordo includa una clausola giuridicamente vincolante sui diritti umani e che la sua piena attuazione sia rigorosamente e costantemente monitorata.

«È un forte monito del Parlamento europeo», commenta Forenza, «in vista degli accordi commerciali internazionali dell’Ue». Il rapporto Forenza, poi, insiste sul fatto che i Paesi firmatari degli accordi commerciali con l’Unione europea debbano essere obbligati anche a ratificare e attuare le convenzioni fondamentali del lavoro dell’Oil, e sulla necessità di mantenere e rafforzare il ruolo dell’OIL, nel corso dei negoziati per gli accordi commerciali. Infine, si afferma la necessità di valutare l’impatto di genere degli accordi commerciali e si chiede la piena trasparenza nei negoziati come il Ttip e il Tisa.

«La mancanza di trasparenza è uno dei motivi per cui le persone non hanno fiducia nella politica dell’Unione», conclude Forenza. «Dopo il voto sulla Brexit, l’Ue non può continuare come nulla fosse. E non può continuare ademolire i diritti sociali e del lavoro, attraverso politiche neoliberiste ed austerità. Le persone devono sempre venire prima dei profitti».

Se ne è andato il poeta Valentino Zeichen. Così si raccontava su Left

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Se ne andato il poeta Valentino Zeichen, coraggioso letterato e artista, fin dagli anni Cinquanta  una delle voci più originali e contro corrente rispetto all’establishment letterario. Pensava la poesia come un servizio pubblico, con generosità, nonostante la mancanza di mezzi economici. Ci piace ricordarlo proprio con le sue parole, quando lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita de La Sumera (Fazi), il suo primo romanzo che in un primo momento era stato selezionato per il premio Strega. L’intervista  intitolata  Una questione di sensibilità è uscita su Left  il 5 marzo 2016. Eccola

«Ho iniziato a leggere con assiduità in riformatorio: c’era una biblioteca prevalentemente di libri d’autore» racconta il poeta Valentino Zeichen. «Costituiva un potenziale conoscitivo disinnescato, dato che la maggior parte degli internati erano analfabeti». Fu così che «avventurandomi per caso lungo certi scaffali feci degli incontri affascinanti, Salgari, Tolstoj, Dostoevskij, Swift. Leggevo intuitivamente e cominciai a fare nessi fra i libri».
Così si presentava Zeichen nel 1975 nel volume .Il pubblico della poesia curato da Berardinelli e Cordelli per Castelvecchi. Nato nel ‘38 a Fiume e approdato a Roma nel ‘50, scappando da una famiglia che era quasi peggio del riformatorio, Zeichen da allora vive in estreme ristrettezze nella Capitale, scrivendo soprattutto poesie,«Penso che il poeta sia un servizio pubblico, che debba essere accessibile a tutti», dice di sé. Respingendo però l’idea di chiedere un aiuto. «La legge Bacchelli equivale/ a un premio Nobel della miseria/anche se salva tanti finti artisti dalla miseria», annota in Aforismi d’autunno. La misura breve, aforistica alla Karl Kraus, l’espressione ironica , fulminante, una scrittura icastica e leggera sono da sempre la cifra letteraria di Zeichen. Che dopo molte raccolte di poesie ora, in età matura, esordisce nel romanzo con La sumera, edito da Fazi. Il 19 marzo Zeichen ha parlato con Aurelio Picca e Renato Minore a Libri Come di questo libro che celebra la bellezza di una Roma dove gli dei sono atei. E quella delle ragazze incontrate nei pomeriggi d’estate nei musei. («In fondo alla scalinata si rese conto che quel volto apparteneva all’arte dello scolpire e non del dipingere»).

Sempre disponibile al dialogo e all’incontro Zeichen ci accoglie dicendo.«Abbiamo tutto il tempo, il mio è a perdere, scorre».

Perché un romanzo dopo una vita da poeta?

A pranzi o alle cene ho ascoltato molte conversazioni in vita mia. Fondamentale per scrivere romanzi è un vero ascolto. È importante capire, sentire il senso del ritmo delle battute, capire quando una conversazione crolla e perché. Gli scrittori anglosassoni sono bravi nei dialoghi, proprio perché stanno attenti a quello che gli altri dicono. La risposta è veloce, a tempo. In passato ho scritto radiodrammi, ho una certa praticaccia.

È in parte autobiografico questo ritratto di Roma anni Ottanta?

Forse sì e poi c’è la Roma di allora, certi scenari, problemi climatici, di clima culturale.

Si diverte a prendere in giro i manierismi delle avanguardie, il teatro catacombale, in antri bui con sedie scomode, per dirla alla Ennio Flaiano.
C’è una certa teatralità tipica di quegli anni, una teatralità soprattutto gestuale, non dialogica. Ma soprattutto c’è l’arte. Sì l’ossessione dell’arte. Uno mette nei romanzi o nelle pièce ciò che conosce meglio.

Una passione che innerva anche il linguaggio?

Come no? Lo nutre. La felicità dei romanzi sta in quello che uno ama e sente. D’un tratto mi sono reso conto che oggi tutti sono molto ragionevoli, molto abili nel ragionamento, accade socialmente, ma io dico la sensibilità dove è finita? È morta? Le persone non sono più sensibili? Neanche la parola viene più usata. “Sensibilità “sembra una parola assolutamente scomparsa, quasi fosse psicotica, qualcosa di malato da rifiutare.

Mancano di fantasia le trovate di artistar come Hirst con il suo teschio di diamanti ?

Mi viene da ridere quando penso a Damiem Hirst. Gli ho dedicato il testo teatrale Apocalisse dell’arte, che ho scritto per Le Edizioni della Cometa. Lei sa che al museo della scienza di Vienna c’è il varano di Comodo? In quel testo ho immaginato che Hirst si presenti all’ingresso con i documenti per trasportarlo al Kunsthistorisches Museum che sta davanti a quello della scienza. Così, con un trasloco, crede di aver risolto la faccenda e di aver cambiato di segno quel meraviglioso oggetto imbalsamato.

Damien Hirst lo ha fatto con lo squalo in formaldeide!

Esatto! Si potrebbe fare, ho immaginato io, anche con il varano. Sarebbe una cosa pazzesca. Una lezione sull’assurdità dell’arte da Duchamp in poi.

Portando l’orinatoio al museo ci ha fregato?

Beh, certo, Duchamp ha fatto un bello scherzo a tutta l’arte successiva a lui. Portando qualunque cosa, qualsiasi oggetto, nello spazio museale, lo distruggono. Non c’è più l’aura dell’arte, ma solo la diffamazione di essa. La sensazione è questa…. come vede io rincorro sempre la sensibilità, la mia disperazione è un po’ questa. La morte della sensibilità, che non c’è più.

Oltre alla sensibilità ciò che conta per il poeta è la fantasia, che lei sembra distinguere dall’immaginazione, parlando di Shakespeare. È così?

Io dico che vanno a braccetto. Esiste un’immaginazione concettuale e c’è una fantasia che apre al possibile. È ciò che non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è l’imprevedibile…

Al fondo cosa la colpisce di più in Shakespeare?

Come è possibile che con un inglese di quattrocento anni fa possa produrre quel ventaglio di sentimenti, di conflitti e anche di grandi riflessioni? Questo è veramente il meraviglioso. Evidentemente l’inglese oggi è una lingua funzionale piena di neologismi adatti a questo scopo. Però lui, con una lingua seicentesca, in formazione, riesce a dire un mondo. Ecco la meraviglia, che commuove.

Tra i poeti italiani del Novecento ?

Amo i versi di Montale. Ma trovo anche che una poesia come “La pioggia nel pineto “di D’annunzio sia inimitabile, perché è costruita con un ritmo particolare… è costruita con l’acqua…

Invece non ama molto Pasolini, mi par di capire. Non mi interessa molto, le sue problematiche non mi interessano. Era un moralista?

Sì, forse, nel senso che avrebbe voluto privare del progresso futuro i giovani. Dopo l’Unità d’Italia aspiravamo a diventare un paese moderno, sviluppato. Con questa sua visione antimoderna, per una sorta di ingenuità bucolica, negava il valore di quello che tutti desideravano, pretendeva che non lo desiderassero. Ma non puoi continuare a zappare se c’è il trattore, non puoi pretendere che la gente usi la vanga o l’aratro tirato da un cavallo, da una bestia da soma, se sono state inventate le macchine.

Dunque questo suo vivere ai margini, questa sua vita un po’ bohémien, senza agi, non è dettata anche da un rifiuto della modernità?

Assolutamente no! Io sono modernissimo. Sono per la tecnica.

Una volta si è definito un ribelle, cosa significa per lei questa parola?

Forse un ribelle individualmente. Significa avere una propria opinione. Avere punti di vista diversi da quello che è il pensiero corrente. Per esempio non mi sono mai occupato d politica, non ho mai sposato un partito. Sono un impolitico come diceva Thomas Mann, non perdo tempo in giochi di ingegneria sociale, come ha fatto invece la gran parte dei miei coetanei, che hanno perso la testa intorno a questo problema, che forse non spettava loro.

La poesia come ricerca di un senso più profondo è una forma di ribellione al linguaggio razionale e ordinario?

Sì la poesia può far capire degli aspetti della vita. Ma anche della società. In questo senso io sono un poeta ironico, con un certo humour. Questo mi viene abbastanza riconosciuto dalla critica. In questo c’entra anche il fatto che ho una vita particolare, sono profugo, fiumano, vivo a Roma, le sono fedele perché mi ha accolto. In un certo senso me la sono cavata, ho fatto diversi lavori, sono uno che non parte da situazioni di privilegio. Anzi.

Adesso come vive la candidatura a un premio ufficiale come lo Strega?

Come vivo questa cosa? Ad essere del tutto franco, qualunque sia l’esito… con una buona dose di indifferenza.

Il barrito dei piccoli, il giornale dei bimbi di Scampia

Nasce il Barrito dei piccoli, il giornale dei bambini di Scampia, grazie a un progetto a cui partecipano personalità come Alessandro Mendini, mago del design, che ha immaginato anche la nascita di un nuovo museo dei bambini a Napoli di cui qui anticipiamo alcuni disegni originali.

L’idea  di questo giornale nasce dal Mammut di Scampia, il centro territoriale che dal 2006 opera nel campo della ricerca e della pedagogia.  E la rivista che ha visto la luce a fine giugno con il titolo il Barrito dei Piccoli è, di fatto, il primo giornale della città per bambini, fatto dai bambini. A sostenerli in questa avventura ci sono il coordinatore del centro Mammut Giovanni Zoppoli che all’infanzia – anche intesa in senso lato come possibilità, scoperta, spinta al cambiamento individuale e collettivo – ha dedicato molti anni di lavoro e poi Mario Punzo direttore della Scuola italiana di Comix e decani del giornalismo come Titta Fiore responsabile delle pagine di cultura de Il Mattino  che ha messo a disposizione le proprie competenze, mentre il fumettista Luca Dalisi partecipa concretamente alla realizzazione del Barrito dei piccoli con le sue tavole colorate. Sono nate così 38 pagine fantasiose, stimolanti, scandite da una serie di rubriche, dette le “tane”, affidate ai bambini giornalisti: fra queste spiccano la tana della cronaca, la tana del racconto scientifico e quella del racconto immaginario. In quest spazi i bambini raccontano pensieri, piccole e grandi paure e sogni, trovando un rifugio sicuro.

disegno di A. Mendini
disegno di A. Mendini

«Per noi il Barrito dei piccoli racchiude il senso di tutte giornate ricchissime passate in questi ultimi due anni tra classi delle elementari di Scampia e area nord di Napoli (diventate redazione stabile e centrale del Barrito) e di altri quartieri/città/nazioni  da Modena, a Genova, toccando addirittura le Isole Fiji», racconta Zoppoli
«In queste 38 pagine c’è solo una piccolissima parte degli animali mai incontrati e altrimenti inincontrabili partoriti dai bambini in questi mesi», annota nell’editoriale. «E ci sono un bel po’ di cose di noi grandi, come la campagna per riappropriarsi dei cortili di scuola, le opere di Tatafiore, Mendini, Dalisi (Luca e Riccardo) e molto altro» Obiettivo centrato? « Una cosa penso che siamo riusciti a farla: mantenere fede al compito che ci eravamo dati di parlare direttamente ai bambini da 6 a 10 anni, al di là della classe sociale di appartenenza e senza mai spacciare per disegno di bambino quello che era di adulto e viceversa. Siamo stati attenti a non fare il solito giornale per bambini che piace solo agli adulti, cercando di accorciare questa distanza (quella tra grande e piccolo) puntando sul dubbio “sarà di una bambino o di una adulto”, e soprattutto sulle priorità date a bellezza e interesse per contenuti e immagini».  Inoltre,  come sempre «abbiamo cercato di non venderci mai il territorio, la Scampia cinematografica, né abbiamo fatto leva sul sarcasmo piccolo borghese che ridacchia sulle storpiature dialettali, puntando invece sempre sulla meraviglia di un quartiere ricco e povero come ogni altro luogo della terra, marginalità trasformata in nuova centralità».  Ma soprattutto, prosegue Giovanni Zoppoli, «abbiamo cercato di rimanere fedeli all’idea che vuole i bambini cittadini ora, e non domani, di un mondo che se visto con i loro occhi potrebbe davvero cambiare. Ci siamo resi conti che per questa fascia d’età (6-10 anni) c’è davvero un vuoto senza uguali, forse perché è un’età nella quale non è così facile essere presi per i fondelli dal Mercato, ma nemmeno si è diventati tanto di gomma da rimanere indifferenti a certi richiami. Un vuoto che forse risale ai tempi del Corriere dei Piccoli, almeno dal giro d’inchiesta che ci siamo fatti prima di partire con questo primo esperimento così ci è sembrato (e sappiamo bene che questo vuoto siamo ben lontani dall’averlo colmato con il nostro piccolo gioco). ma intanto festeggiamo il nuovo barrito emesso dal nostro mammut, e continuiamo ad immaginare nuove strade».

disegno di A. Mendini
disegno di A. Mendini

Referendum contro la Buona scuola: 2 milioni di firme, ma c’è cautela

May 15, 2016 - Arzano, Italy - A stand of the FLC-CGIL, collecting signatures for the referendum on school. The referendum on the school regarding the repeal of provisions contained in Law 107 of 2015. (Credit Image: © Salvatore Esposito/Pacific Press via ZUMA Wire)

Fallita la raccolta firme per i referendum abrogativi dell’Italicum – solo 420mila firme – per la Buona scuola è stata raggiunta quota 2 milioni, secondo quanto comunicano oggi i promotori del comitato referendario contro 4 punti della legge 107. C’è cautela, però, perché si tratta di verificare firma per firma e allora è stato deciso di posticipare la consegna in Cassazione, prevista per oggi, 5 luglio.
«Una parte dei moduli arrivati al comitato nazionale – si legge nel comunicato stampa rilasciato dai promotori – presenta degli errori formali, quali la non certificazione o la mancata autenticazione». Da qui, la decisione di rimandare la consegna in Cassazione e di portare avanti per ancora una settimana la raccolta firme.
I 4 quesiti referendari contro quella che i promotori hanno definito la “cattiva scuola” di Renzi propongono l’abrogazione dei finanziamenti privati alle singole scuole, la chiamata diretta da parte del dirigente dei docenti  in sede e le norme sull’obbligo di almeno 400-200 ore di alternanza scuola-lavoro, oltre alle norme che danno potere al dirigente scolastico di scegliere i docenti da premiare economicamente.
Sboccerà la primavera politica nata in aprile? Intanto, come la Buona Scuola, anche il Jobs Act va avanti.
Pochi giorni fa sono state consegnate in Cassazione oltre tre milioni di firme raccolte dalla Cgil per i tre quesiti che abrogano due punti fondamentali del Jobs Act e propongono una legge d’iniziativa popolare in materia dei diritti del lavoro e dei lavoratori.

Matteo, esci dal talent! Il Caffè del 5 luglio

Tangenti e Pizza “ai vertici dello stato”. Non so se stupisca di più che le mazzette possano arrivare tanto in alto o che il signor Pizza, che della vecchia Dc possiede solo il simbolo, possa essere ancora là, al crocevia tra governo e affari L’Italia che non cambia. Un altro Pizza, il fratello, è finito in carcere. Par di capire che prendesse soldi e li distribuisse, spendendo il nome di suo fratello e del ministro dell’interno di Renzi. Per non sbagliare avrebbe incontrato Berlusconi, si sarebbe occupato del vertice dei servizi segreti, as usual, avrebbe favorito il fratello di Alfano, facendolo assumere alle Poste, con uno stipendio alto, ma non il più alto, e di questo il raccomandato si sarebbe lagnato. Inquisito ma non arrestato anche un deputato di Area Popolare partito di governo. Si chiama Antonio Marotta, avrebbe collezionato e distribuito tangenti, ma non si sa bene a chi: così il giudice non può accusarlo di corruzione ma “solo” di traffico di influenza, illecito finanziamento e ricettazione”. I simboli si sprecano in questa storia: se Pizza Giuseppe è il padrone del glorioso scudo crociato, il simbolo del nuovo centrodestra è proprietà di un altro del giro, Davide Tedesco. Continuità nel possesso, deja vu talmente forte da apparire caricaturale. Nulla cambia: ai vertici dello stato, c’è sempre bisogno di facilitatori e mazzette, di conti in nero e di fratelli.
Ha dato il meglio di sé, ieri in direzione. Non mi volete segretario? Battetemi al congresso. Non volete il doppio incarico? Cambiate lo statuto. “Basta con la sindrome del conte Ugolino”. Rivolto a Bersani. Basta -rivolto a Richetti- dire che avrei perso “il tocco magico”. “Caro Gianni -rivolto a Cuperlo- sono fuori dal talent”. “Ci sono dentro per la vostra macchiettista rappresentazione. C’è un racconto stereotipato che vede un gruppo di arroganti chiuso nel suo “giglio magico”. Non è così, mi occupo del paese. Alza la voce -come chi sa di dire bugie- addirittura grida per convincere gli astanti che il jobs act ha sconfitto in Italia il lavoro precario. Il governo ha fatto miracoli,dice, solo la minoranza non ci crede. Non toccate le riforme, giù le mani dal referendum. Qui fa sentire la voce di Napolitano: “io applaudivo da Palazzo Vecchio, voi applaudivate in aula”. Perciò se vincessero i “No” io andrei via e con me il governo, ma anche il Parlamento avrebbe finito (tradotto: andreste a casa). Evidentemente il premier ha già il potere di sciogliere le camere o forse il Presidente è rimasto Napolitano. La legge elettorale? Non si cambia, perché non c’è una maggioranza per cambiarla. I 5 Stelle? Sì, hanno vinto i ballottaggi, ma con lo loro bugie; e cita come mentitore Casaleggio, rischiando una querela da parte del figlio Davide. Quando però De Luca cerca di tiare su il morale della truppa plaudenti definendo la Raggi “bambolina imbambolata”, Renzi deve prendere le distanze: “è il sindaco di Roma”. Ieri, nel caffè, prevedevo che Renzi sarebbe tornato come nuovo, libero dalle ammaccature del voto nelle città o dal dovere di ogni valutazione critica, dopo un ciclo in lavatrice con “Nuovo”, il detersivo miracoloso che usa i fatti più recenti -Brexit, vertice con Merkel e Hollande, strage di italiani Dacca- per cancellare ogni memoria scomoda. Così è stato. E continuerà a essere. Intanto il Monte dei Paschi di Siena ha perso in borsa il 14%. Ora si sa che il governo dovrà salvarlo insieme alle altre banche, che il potere negoziale in Europa lo userà tutto per proteggere i possessori di obbligazione, che secondo “le regole” dovrebbero pagare i fallimenti bancari in solido con gli azionisti. Per Renzi tutto ciò è di sinistra, come il jobs act.
La Brexit si mangia i papà. Cameron, che il referendum l’ha voluto, perderà Downing Street. Boris Johnson, che lo ha vinto, non sarà mai leader. Farage da ultimo “si riprende la sua vita” anziché tentare di prendersi il Regno unito. Che non è mai stato così disunito. Con la City che vuole unirsi a Francoforte, la Scozia che si sente più europea che britannica, l’Irlanda del Nord che vorrebbe unire la sua di isola, le città che hanno votato contro, i giovani pure. La destra ha scoperto di poter vincere un referendum mettendo insieme diffidenza per la mondializzazione, paura dei migranti e del terrorismo, e amalgamando il tutto con il rimpianto per i fasti imperiali. Ma poi non può governare. Perché il capitale finanziario chiede che nulla ostacoli – neanche questa destra- la libera (e rapidissima) circolazione delle merci, pretende che gli stati nazione non si immischino nelle transazioni globali, e considera le disuguaglianze crescenti un semplice danno collaterale. Il nazional socialismo incontrò i Krupp, grandi industriali tedeschi. Farage, Johnson, forse anche Trump, non hanno finora avuto la stessa fortuna. Meglio così, anche se cresce l’incertezza.

I kamikaze arrivano nel cuore dell’Islam, a Medina

I kamikaze jihadisti in azione in Arabia Saudita, e uno dei tre attacchi proprio nel cuore dell’Islam, a Medina, la seconda città santa dopo La Mecca, vicino alla tomba di Maometto. L’attentato è stato eseguito nei pressi del recinto sacro della moschea del Profeta Maometto a Medina. Oltre al kamikaze sono morti anche due guardie della sicurezza. Altri due attacchi suicidi sono stati portati a termine a Qatif, capoluogo della regione a maggioranza sciita nell’est del Paese e a Gedda, vicino al consolato Usa, nel giorno dell’Indipendence day. Per il momento non ci sono rivendicazioni ma secondo gli analisti è solo l’ultimo atto di una escalation dopo gli attacchi terroristici dell’Isis a Istanbul, Baghdad e Dacca. Gli attacchi in Arabia Saudita sono avvenuti il giorno prima della fine del Ramadan. E nei giorni scorsi i capi di Daesh avevano incitato a compiere attacchi durante il mese sacro. Così come avrebbero spronato a farlo contro i sauditi.
L’attacco vicino alla tomba del Profeta è un tentativo di alzare la posta? Forse, visto che questo è un periodo in cui Daesh perde terreno sia nelle roccaforti in Iraq che in Siria, oltre che in Libia.
Anche la scelta di Medina è simbolica. Ogni anno milioni di pellegrini musulmani provenienti da tutto il mondo visitano la moschea, che è stata fondata da Maometto nel settimo secolo e contiene la sua tomba, così come quelli dei primi due califfi, Abu Bakr e Omar. Il complesso della moschea è seconda solo alla Grande Moschea della Mecca per  devozione da parte di sunniti e sciiti.

L’onta di Renzi è Angelino Alfano. E quello sputo di partito

“…no, loro lo fanno, però devono passare i 4 anni, perché sennò non ci posso tornare, no? Io se potevo rimanere lì me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua….che c. me ne sfottevo….stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l’idea…ci sono interessi….sono legati grossi interessi…grossi interessi non avete proprio idea…“.

Queste sono le parole di Antonio Marotta. Antonio Marotta ha 69 anni, è un avvocato e sta in quel partito che è una crosta e si chiama NCD. Antonio Marotta però non è semplicemente un parlamentare. Figurarsi. In questo Paese degli illustri sconosciuti come lui finiscono addirittura al CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura. L’orfano, per intendersi, che nella storia d’Italia ha messo i bastoni tra le ruote a Falcone, Caselli e oggi a Di Matteo. Gente che dovrebbe essere al di sopra di ogni sospetto e invece troppo spesso è al di sotto di qualsiasi livello di potabilità. Ma funziona così, qui da noi: la politica occupa posizioni dirigenziali affidandole troppo spesso ai più bravi servi. Mica ai più bravi.

In tutto questo Angelino Alfano, che per questo assurdo gioco di equilibrismi che se ne fottono della meritocrazia si trova a brigare da Ministro dell’Interno, dichiara, da Ministro del’Interno di essere “sicuro che si farà chiarezza”. Angelino Alfano, tra l’altro, è anche il segretario di partito di Roberto Formigoni (sì, quel Formigoni, lì, che ora è senatore ed è uno dei maggiorenti del partito, per dire) nonché il più longevo segretario del partito fondato da Marcello Dell’Utri, dopo Berlusconi ovviamente.

Questa gente, per intendersi, è maggioranza di governo. Questi sono gli alleati di Renzi. E non ci interessa sapere che questa sia l’unica maggioranza possibile perché no, c’è un limita di potabilità che questa inchiesta ha ulteriormente sottolineato. Perché viene difficile pensare come l’Italia possa cambiare verso con questa gente qui. O no?

Buon martedì.

Addio ad Abbas Kiarostami, il poeta del cinema iraniano

ten di Kiarostami

Il suo talento era fatto di silenzi che dicevano più di tante parole. Quello di Abbas Kiarostami era un cinema che aveva a che fare più con l’intensità della poesia che con il realismo in cui veniva ingiustamente confinato. La censura, si è spesso detto, lo aveva spinto verso un linguaggio ellittico, allusivo, scegliendo i bambini come suoi interpreti privilegiati. Più che la necessità, a noi pare la sua sia stata un’esigenza forte e consapevole quella di esprimersi attraverso dei piccoli antieroi, portando in primo piano il loro ricco mondo interiore fatto di emozioni, di immagini, di un intenso sentire che gli adulti troppo spesso sembrano aver perso.

Il regista iraniano Kiarostami scomparso ieri a Parigi all’età di 76 anni, è stato un maestro nell’indagare il non detto e la realtà più profonda delle relazioni umane. I suoi film, mai prevedibili, per quanto sviluppati su una linea paratattica alla Éric Rohmer, non svelano il loro significato facilmente. Dietro a quel tono calmo, meditativo, dietro quel velo di malinconia che sembra avvolgere tutto, si coglie un coraggioso dissenso verso la dittatura del reale in cui si è costretti a vivere, non solo quello di regime, ma anche quello della razionalità cosciente, delle convenienze, del dover essere. Kiarostami ha raccontato l’innocenza dei bambini stimolando lo spettatore a ritrovare dentro di sé, dimensioni profonde.

Diversamente da Jafar Panahi e da Mohammad Rassoulof,  nei suoi film non si è occupato direttamente del regime iraniano, ma questo non significa che evitasse la politica. Basta pensare a un suo film apparentemente minimalista come Ten (2002) realizzato mettendo due telecamere fisse in una macchina guidata da una donna per mostrare gli inaccettabili maltrattamenti che subisce.  L’ immagine di una donna al volante di un auto è di per sé una dichiarazione politica e “femminista” in Medio Oriente.

Ma si potrebbe parlare anche della sua più famosa trilogia, composta da Dov’è la casa del mio amico? (1987), La vita e niente di più (1992) e Sotto gli ulivi (1994) per dire quanto il suo cinema fosse capace di raccontare un intero mondo a partire da storie apparentemente qualunque, quotidiane, minimali, come quella del protagonista del primo film di questo trittico, un ragazzo che si mette in viaggio per restituire un libro scolastico; nel secondo film il regista vuole sapere se i due ragazzi che ha conosciuto con il suo precedente lavoro sono sopravvissuti al devastante terremoto accaduto in Iran nel 1990 e nel terzo, un altro regista esamina una scena apparentemente minore del secondo film,  per rivelarne poi tutta l’imprevista l’importanza. In tutti questi casi tutto comincia da un dettaglio, all’apparenza senza molta importanza, ma che finisce per essere una pietra di inciampo, un detonatore capace di mettere a soqquadro un intero ordine costituito.

In Close-up (1990), il suo film forse più conosciuto, la stranezza dei casi della vita è portata con divertita auto ironia a esiti surreali: protagonista di questo finto documentario è un mistificatore che finge di essere il regista Mohsen Makhmalbaf, finché i due s’incontrano davvero e il falso Makhmalbaf dovrà chiedere scusa a quello vero, volendo cercare una riconciliazione, non ancora avvennuta nella società iraniana che ha perseguitato le sue migliori menti e gli oppositori laici.

Con la sua spiazzante ironia e talora con una insistita lentezza, il cinema di Kiarostami è tutto fuorché rassicurante e pacificante, basta pensare a un film dal titolo accattivante come il sapore delle ciliegie del 1997 ( palma d’oro a Cannes): protagonista è uomo di mezza età che percorre il mercato di Teheran, alla ricerca di qualcuno che lo aiuti a morire, qualcuno che sia in possesso di una pala e disposto poi a seppellirlo senza fare domande. In questo film che racconta la vicenda di un uomo determinato a suicidarsi Kiarostami racconta la decisione lucida e determinata, di un depresso che ha deciso di farla finita e che non si riesce a fermare. E’ un film in presa diretta, in cui assistiamo a conversazioni che avvengono in uno spazio che non è né interamente pubblico né interamente privato come se fosse un unico monologo interiore. Che mette radicalmente in discussione chi guarda.  Come accade nel documentario che Kiarostami girò sui  bambini rimasti orfani a causa dell’Aids in Uganda e che mette alla sbarra le buone ragioni degli occidentali bianchi che vogliono adottare bambini.

Alcuni degli ultimi film che Kiarostami ha girato di fuori dell’Iran , purtroppo, non hanno la stessa forza dei suoi capolavori. Per esempio in Copia conforme (2010), girato in Italia, William Shimell e Juliette Binoche mettono in atto un gioco di ruolo che risulta piuttosto manierato e fine a se stesso. Una variazione sul tema della autenticità e della finzione, che non riesce ad avere la stessa pregnanza che ebbe nella trilogia Koker. E il sapore beckettiano delle due opere forse non basta a fare di Someone in Love (2012) e de Il vento ci porterà via due film indimenticabili. Ma ci restano i sui libri di poesie che  ( che si richiamano nella struttura agli haiku giapponesi) e soprattutto la sua opera cinematografica degli anni Settanta e Ottanta in cui sa raccontare magistralmente la realtà con lo stupore di un bambino.

«In bocca al lupo». Renzi sbeffeggia la minoranza dem

Il premier Matteo Renzi durante il suo intervento alla Direzione nazionale del Partito Democratico, Roma, 4 luglio 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

«Se volete che io lasci, chiedete un congresso anticipato e vincetelo». «In bocca al lupo», sorride Renzi, dopo aver parlato per un’ora di banche, barconi e referendum (e aver detto qui che lui, se vincesse il no, oltre a dimettersi scioglierebbe le camere). Ha infatti preso larghissimi, aiutato dalla cronaca della settimana, i temi di organizzazione del Pd e delle amministrative. Ne parla, certo, e prende di petto la minoranza dem, ma solo dopo aver fornito una serie di titoli alternativi ai giornali – che si distraggano pure, persi tra il ricordo commosso delle vittime dell’attentato di Dacca, tra l’orgoglio per le operazioni di recupero del barcone affondato nel Mediterraneo, carico di vite, e tra la trattativa in Europa per le banche e sulla Brexit. L’impressione che vuole dare Matteo Renzi con il suo intervento è infatti proprio questa: lui parla – e anzi fa cose che contano per il Paese, per la pace, per la crescita -, gli altri, Bersani&co, vorrebbero parlare solo di questioni interne, incapaci di comprendere che «nel tempo della comunicazione» qualcosa dai 5 stelle bisognerebbe imparare: perché «litigano più dei partiti e lo fanno senza il coraggio dello streaming», i 5 stelle, ma poi si mostrano all’esterno «come una falange». Quindi Renzi prima ricorda che sulle banche lui sta risolvendo problemi che si trascinano addirittura dal governo Ciampi (responsabilità quindi dei rottamati) e non certo i problemi personali di qualche banchiere amico (a lui, dice, lui dei banchieri «non importa molto» ma che «salvare i correntisti è salvare i cittadini»), e poi rivendica i margini di flessibilità ottenuti dall’Europa. Dice che «il jobs act è il vero modo per combattere la povertà» (e risponde così all’ironia di Bersani che si è detto «commosso» dal fatto che il ministro Calenda abbia parlato del problema delle disuguaglianze crescenti) e poi se la prende con «quelli che propongono il reddito di cittadinanza». Trova il tempo di rivendicare ancora pure le unioni civili, e di mandare in onda una clip su Cantona sull’importanza dei passaggi (e quindi della fiducia nella squadra): «Per come interpreto la politica io», dice, «l’importante è il passaggio e non fare gol». E poi, solo poi – e solo siccome il vecchio Pd vuole proprio parlare di come sono andate le elezioni di quindici giorni fa – Renzi parla del voto e del partito. Lo fa controvoglia: «Diciamoci la verità», dice con fare comprensivo, «a molti di voi delle amministrative non interessa, vi interessa parlare l partito». «Parliamone», allora. Renzi riconosce che «con Torino e Roma la palma va ai 5 stelle» ma nota che «il simbolo delle amministrative è stata Milano». E poi ci sono i piccoli comuni. «Davvero possiamo dare un giudizio nazionale?», si chiede Renzi. Insomma è un pareggio. Per cui non si giustificano quindi particolari interventi sul Partito. Respinte le richieste di modifiche sull’Italicum, «se volete che io lasci», aggiunge magnifico Renzi, «non avete che da chiedere un congresso anticipato e vincerlo». «In bocca al lupo». Allo stesso modo, «se volete dividere le cariche», se volete che il segretario non sia più automaticamente il candidato premier, «non avete che da proporre una modifica allo Statuto».

Appalti truccati nei ministeri, 24 arresti per riciclaggio e corruzione

Cinque misure interdittive con obbligo di firma, 24 ordinanze di custodia cautelare – dodici in carcere e dodici ai domiciliari – e il sequestro di 1,2 milioni di euro tra immobili, quote societarie, e conti correnti, oltre a decine di perquisizioni sul territorio nazionale.

Sono 50 in tutto gli indagati. Le Fiamme gialle hanno scoperchiato un’organizzazione criminale costituita da politici, imprenditori e funzionari pubblici che si spartivano tangenti per vedersi assegnati gli appalti dei ministeri. Tra i reati contestati nell’ambito dell’operazione «Labirinto» disposta dalla Procura di Roma, c’è l’associazione a delinquere finalizzata alla fronde fiscale, corruzione, riciclaggio, appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato.

L’associazione, spiegano gli inquitenti, ruotava intorno al faccendiere Raffaele Pizza, fratello dell’ex sottosegretario all’Istruzione del governo Berlusconi Giuseppe Pizza, attualmente segretario della Nuova democrazia cristiana e anch’egli iscritto nel registro degli indagati. Tra le personalità coinvolte vi sono anche due alti funzionari dell’Agenzia delle entrate, finiti in manette, e Antonio Marotta, avvocato e parlamentare dell’Ncd, che commenta la sua iscrizione nel registro degli indagati per traffico di influenza illecita definendosi «oggetto di un equivoco».

Marotta è un ex componente del Consiglio superiore della magistratura e siede a Montecitorio dal 2008, prima tra le fila dell’Udc, poi di Forza Italia e dal 2013 nel partito del ministro dell’Interno Angelino Alfano. Il deputato – per il quale i pm hanno chiesto la custodia cautelare, richiesta respinta poi dal gip – sarebbe il braccio destro del faccendiere Pizza, e avrebbe «coadiuvato» quest’ultimo nello sviluppo di un sistema affaristico criminale portando avanti l’attività di illecita intermediazione. Giuseppe Pizza, secondo i finanzieri, usava uno studio legale vicino al Parlamento per ricevere denaro di illecita provenienza e smistarlo – anche con la collaborazione del parlamentare – attraverso alcune società di comodo a lui riconducibili, che movimentavano grandi somme di denaro tra conti personali e aziendali.
Il faccendiere avrebbe adoperato i propri legami personali con personaggi ai vertici della politica e dell’imprenditoria «per aggiudicarsi gare pubbliche, sopratutto favorendo la nomina ai vertici di enti pubblici di persone a lui vicine per ricevere favori di ritorno e facilitazioni». A risalire al nome di Pizza è stato il Nucleo valutario della Guardia di Finanza, che, dopo aver indagato sull’emissione di un gran numero di fatture per operazioni poi risultate di fatto inesistenti, è riuscita a ricostruire la struttura dell’associazione criminale imperniata intorno al faccendiere.

Le indagini sono partite nel 2013, dopo le segnalazioni nei confronti di un consulente tributario romano e alcune società a lui riconducibile. Il sistema ricostruito dalle Fiamme gialle ha portato alla luce l’evasione fiscale di grandi somme di denaro – oltre dieci milioni di euro – per costituire fondi neri che sarebbero stati riciclati attraverso la galassia di società che facevano capo attraverso prestanome, a Pizza. Fondamentale sarebbe stato il sostegno assicurato al faccendiere dai due funzionari dell’Agenzia delle Entrate finiti in manette per corruzione aggravata. Al centro dell’indagine anche l’appalto del call center unico Inps-Inail: nella distribuzione di lavori e subappalti il gruppo avrebbe organizzato false fatturazioni per generare fondi neri da riutilizzare in attività di riciclaggio e finanziamento illecito ai partiti.