Home Blog Pagina 1098

(Br)exit Farage. Perché cadono le teste della destra britannica

Teste che cadono dopo aver vinto e cambiato – forse – la storia del loro Paese. Dopo Boris Johnson è la volta di Nigel Farage. Anche David Cameron si è dimesso, ma lui aveva perso. A pochi giorni dal referendum che ha potenzialmente portato la Gran Bretagna fuori dall’Europa comunitaria – sul quando e sul come la chiarezza è poca, sia da parte dell’Unione, dove è in corso uno scontro tra Bruxelles e Berlino dalle conseguenze poco chiare, sia a Londra – tutti i leader di partito ballano e il segretario con più mesi di attività alle spalle è Tim Farron del partito liberal-democratico, nominato nel luglio 2015, dopo la disastrosa esperienza del partito come partner minore della coalizione con i conservatori.
Ma torniamo a Farage: con una conferenza stampa a sorpresa ha annunciato di dimettersi dalla sua carica di leader dello Uk Independence Party (Ukip) perché «dopo essermi ripreso il mio Paese, è ora di riprendermi la mia vita». Farage ha scherzato ricordando come nel 1994, quando per la prima volta corse per una carica elettiva, ottenne pochi voti in più di Screamin’ Lord Sutch, personaggio mitico e minore della storia musicale dell’Inghilterra degli anni ’60, che da un certo momento in poi si presentava alle elezioni con il suo Official Monster Raving Loony – e che proprio nel 1994 prese 1114 voti, in un seggio.

 

Ma torniamo a Farage, che nel 1994 suonava un po’ come il signore qui sopra, Screamin’ Lord Sutch, appunto. Ci ha messo 22 anni, ma la parabola della sua figura da rappresentante perfetto dell’inglese medio, foto al pub, sigaro, battuta sempre pronta e linguaggio schietto è quella di molti altri personaggi del panorama politico europeo. Da semi-paria o marginali, a centrali nel dibattito politico, se non nei consensi. La sua ossessione con il ritorno alla Vecchia Inghilterra, le frasi a effetto sull’invasione degli immigrati e le paure disseminate a man bassa – come il riferimento al numero delle persone straniere sieropositive residenti in Gran Bretagna a spese dell’NHS, la sanità pubblica, nel dibattito Tv che precedette le elezioni europee nel 2014 – sempre dette con il sorriso sarcastico stampato sulla faccia sono uno dei tormentoni della politica del Regno di Elisabetta da qualche anno a questa parte. Se il sistema elettorale maggioritario puro britannico non ha mai premiato lui e neppure il suo partito oltre misura, la sua presenza è riuscita a cambiare il tono del dibattito politico, spostando i conservatori a destra.

epa05178542 Nigel Farage (L), leader of the United Kingdom Independence Party (UKIP) and Member of the European Parliament, and European Commission President Jean-Claude Juncker (R) chat at the start of a European Parliament plenary session held in Brussels, Belgium, 24 February 2016. According to the Parliament's agenda, members of parliament are to discuss the results of of the European Council meeting held on 18 and 19 February which was topped by negotiations over a deal with Britain. EPA/OLIVIER HOSLET
Che ne sarà ora dell’Ukip è difficile a dirsi. Già tre volte Farage si è dimesso per poi tornare guidare il partito, che è evidentemente una sua creatura e che senza di lui rischia di scomparire. Specie adesso che il referendum è fatto. Può anche darsi che proprio il timore di perdere di centralità e peso politico abbia consigliato al buon Nigel di farsi da parte. L’altra possibilità è che Farage tema che tutte le sparate, esagerazioni e bugie dette durante la campagna referendaria gli tornino indietro e che voglia evitare di essere sulla scena pubblica quando la conseguenze pratiche della Brexit prenderanno forma.

Attenzione però: Farage non si è dimesso da eurodeputato e ha detto che «Seguirà con attenzione la situazione della Brexit e le trattative» e che nella delegazione che negozierà con Bruxelles dovranno esserci rappresentanti di tutto lo spettro politico. Una candidatura? Difficile venga accolta. L’altra battuta è: vedremo che situazione ci sarà nel 2020. Ovvero: una bella pausa di riflessione, un po’ di presa di distanze e poi, se ce ne sarà l’occasione, un bel ritorno alla guida della sua creatura.

epa04220778 width=

Per paradossale che sembri, tutta la partita referendaria era una partita interna alla destra britannica e alla sua leadership e i risultati non sono buoni per nessuno. David Cameron, che aveva scommesso sul referendum per tenere a bada la rivolta nel suo partito e tagliare le teste dei suoi avversari, è stato il primo a essere decollato. Secondo è venuto Boris Johnson, che era rimasto indeciso sulla posizione da prendere tra Remain e Leave chiedendosi quale scelta sarebbe stata migliore per il suo futuro politico. L’ex sindaco di Londra sperava di ottenere un buon successo del Leave, senza vincere, e di poter segnalare come la maggior parte dei voti per l’uscita dall’Europa venissero dalla base conservatrice. Ha vinto e, quindi, perso. Terzo a uscire di scena, almeno per ora, è Farage, vittima del suo trionfo.

Quarto potrebbe essere Michael Gove, che ha prima tradito Cameron, poi guidato la campagna per il Leave assieme a Johnson, poi gli ha assicurato che avrebbe diretto il suo staff per contribuire ad aiutarlo a divenire leader dei conservatori e, infine, lo ha mollato. Oggi Gove è terzo per sostegni di deputati ricevuti tra le persone candidate a guidare i tories e il Paese e potrebbe non partecipare al ballottaggio. L’enorme paradosso è che nettamente in testa per sostegni ricevuti c’è Theresa May, unica candidata leader a essersi schierata per la permanenza nel Regno Unito.

Quanto al Labour, la situazione rimane di stallo. C’è una parte dei deputati fedeli a Corbyn che propone una mediazione interna svolta dalla leadership della TUC, il Trade Union Congress, i sindacati, che sono più vicini al leader ma hanno assoluto bisogno di un’opposizione che funzioni. Il problema è che le fazioni non si parlano e che, senza uno sfidante ufficiale, non c’è, per coloro che vogliono defenestrare il leader di sinistra, un modo per far dimettere il capo del Labour. Corbyn non ha nessuna intenzione di dimettersi e promette battaglia in caos di una sfida. È una situazione molto difficile che rende meno gravi le divisioni e il caos interno al partito conservatore.

 

Maschio, femmina o X. Il Canada valuta il terzo genere per i documenti d’identità

Prime Minister Justin Trudeau poses for a photo as he greets spectators at the annual Pride Parade in Toronto on Sunday, July 3, 2016. (Mark Blinch/The Canadian Press via AP)

Sfilando tra le bandiere arcobaleno che nella giornata di ieri hanno invaso la città di Toronto, il primo ministro Justin Trudeau ha dichiarato che il governo federale canadese sta valutando l’iter giuridico che potrà permettere l’utilizzo del genere neutro nei documenti d’identità.

Le dichiarazioni di Trudeau, primo ministro nella storia del Canada ad aver aderito al Pride, fanno eco a quelle della provincia dell’Ontario che la scorsa settimana ha concesso ai propri cittadini di poter indicare con una X il genere sulle patenti di guida, comunemente utilizzate in Nord America come documento d’identità.

Il Canada non è tuttavia il primo Paese a prendere in considerazione questa possibilità. Australia, Nuova Zelanda e Nepal hanno già infatti legittimato l’uso del terzo genere da tempo.

La transgender nepalese Monika Shahi è stata la prima nel Paese asiatico a ricevere il passaporto con il sesso che indica 'O', che significa other, altro.
La transgender nepalese Monika Shahi è stata la prima nel Paese asiatico a ricevere il passaporto con il sesso che indica ‘O’, che significa other, altro.

In conclusione del suo intervento, Trudeau ha poi ricordato le 49 vittime della strage di Orlando, sottolineando la simbolica importanza di luoghi come il Pulse, definendoli centrali nella costruzione di spazi e comunità più sicure. Il primo ministro canadese ha poi rinnovato il suo impegno nell’attenuare ulteriormente le restrizioni imposte agli omosessuali nella donazione del sangue. Ad oggi la legislazione canadese consente agli uomini che hanno avuto rapporti con altri uomini di donare il sangue dopo un anno di astinenza.

Il cast di Game of Thrones in Grecia al fianco dei rifugiati per un appello all’Europa

I protagonisti della serie Game of Thrones, Lena Headey, la spietata Cercei Lannister, Maisie Williams, che interpreta Arya Stark e Liam Cunningham, Ser Davos nel mondo di Westeros, sono sbarcati in Grecia e hanno visitato i programmi di supporto per i rifugiati lanciando un appello ai leader europei: riconsiderate l’accordo preso a marzo con la Turchia che rende ancora più drammatica la situazione dei migranti, la maggior parte in fuga dalla guerra in Siria.

La visita ai campi profughi delle tre star del Trono di Spade è stata organizzata dall’International Rescue Committee (IRC), qui gli attori hanno potuto incontrare molti dei 57mila profughi approdati in Grecia ed ascoltare le loro storie. Lena Headey ha commentato così uno di questi incontri avvenuto con una giovane donna siriana e i suoi tre figli, sull’isola di Lesbo: «Questa gente vorrebbe solo poter andare a casa, ma non può farlo. Vogliono che i loro figli continuino ad andare a scuola, ma non possono, perché sono bloccati qui. Siamo noi che possiamo fare qualcosa di meglio per loro. Noi possiamo e dobbiamo fare qualcosa di meglio per questa gente». Non è stato da meno Cunningham: «57mila persone sono bloccate in Grecia. Campi profughi in Europa? È davvero questo lo standard che i leader europei vogliono fissare come modo per rispondere alla crisi dei rifugiati globali?». Williams ha concluso: «Ora sentiamo come una nostra responsabilità raccogliere le storie di queste persone e cambiare il modo in cui vengono percepite». Il viaggio dei tre attori è stato anche documentato sui social media con tweet, foto e video. Eccone qualcuno:

 

Qui l’audio con l’intervista completa al cast

Il trafficante pentito: «Chi non non paga muore e i suoi organi venduti»

Un fermo immagine tratto da un video della Marina Militare mostra un momento delle 40 operazioni di soccorso nel Canale di Sicilia che ha permesso di salavare oltre 4mila persone, 23 giugno 2016. ANSA/ MARINA MILITARE ++HO - NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

«Mi è stato raccontato che le persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani che le uccidono per prelevarne gli organi e rivederli in Egitto per una somma di 15mila dollari. Gli egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche». A raccontare il traffico di esseri umani che viaggia sui binari dell’orrore, è un pentito, il primo del network internazionale che lucra sulla disperazione dei popoli in fuga dall’Africa.

È un collaboratore di giustizia, un eritreo arrestato nel 2014. L’uomo collabora con gli investigatori della Dda di Palermo che dalle prime luci dell’alba hanno condotto una vasta operazione in tutta Italia, arrestando 38 persone che fanno parte di un’organizzazione criminale.

Un fermo immagine mostra un momento dell'operazione che ha permesso alla Polizia di Stato di eseguire 38 fermi, emessi dalla Dda di Palermo
Un fermo immagine mostra un momento dell’operazione che ha permesso alla Polizia di Stato di eseguire 38 fermi, emessi dalla Dda di Palermo

Durante l’operazione, denominata Glauco 3, è stata individuata a Roma – lo scorso 13 giugno – la centrale delle transazioni in un esercizio commerciale dove sono stati sequestrati 526.000 euro e 25.000 dollari in contanti, oltre a un libro mastro riportante nominativi di cittadini stranieri e utenze di riferimento.

Le indagini hanno avuto una svolta grazie alle dichiarazioni del pentito, che ha fornito un quadro a livello internazionale della rete criminale. L’organizzazione  transnazionale sarebbe composta  da 25 eritrei, 12 etiopi e un italiano. Le attività del network interesserebbero oltre che le basi operative del Nord Africa, anche Agrigento, Palermo e Roma, ma anche altri Paesi europei.

 

Gufo e lunare. Il Caffè del 4 luglio

Discutere del doppio incarico? Lunare. Nello sciocchezzaio semplificato che Matteo Renzi regala alle trasmissioni televisive, la luna è lontana dal mondo reale. Chi l’ammira, guardando un alto, è dunque lunatico, volubile, bizzarro. Creatura notturna, come il gufo. Se tanto mi dà tanto, la direzione del Pd avrà il copione consueto: una relazione del segretario disseminata di frasette per irritare i dissidenti, per farli “venire allo scoperto” e poi servirli con la levata degli scudi fedeli della maggioranza, che è entrata in direzione perché Renzi ha vinto le primarie. Infine tutti a casa, con o senza (scontato) voto finale. L’umiliazione subita da Renzi a Napoli, Giachetti e il Pd asfaltati a Roma; la sconfitta a furia di voti a Torino, tutto ciò è il passato, è “vecchio”. Nuovo è il Brexit, nuovo è il triunvirato con Hollande e Merkel, nuova è la battaglia per salvare il Monte dei Paschi e le altre banche, cui Financial Times dedica oggi la prima pagina, nuovo è il funerale di stato per gli italiani sgozzati a Dacca. “Nuovo” potrebbe chiamarsi il detersivo con cui la politica di governo lava le sue colpe. Un ciclo in lavatrice con “Nuovo”, e il Renzi sconfitto, ammaccato e logoro del dopo ballottaggio, torna bianco che “più bianco non si può”. Resta da vedere cosa diranno oggi Gianni Cuperlo e Walter Tocci. Consiglierei loro di dire qualcosa di semplice, più semplice degli slogan del segretario ma anche con più sostanza. Costruiremo comitati per il No al referendum• Questo dovrebbero dire: perché è la riforma costituzionale la madre dell’italicum, perché quella riforma vuol mutare una democrazia rappresentativa in plebiscitaria: sei per Renzi o contro, politica o anti politica? Non si può cambiare prima di ottobre, in fretta e male, la legge elettorale, dando l’impressione di voler truffare i 5 Stelle. Si può e si deve fermare con un voto la riforma che deforma la costituzione, Facciamolo!

Il commando dei giovani ricchi, “La doppia vita dei killer”, “Sgozzati dai bamboccioni”. C’è qualcosa di osceno, oltre che di sciocco, in questi titoli del Corriere, della Stampa e del Giornale. Appena meglio, Repubblica dà almeno la notizia: “I kamikaze figli dell’alta borghesia”. E allora? Ci sentiamo traditi, siamo stupiti perché gli assassini non erano sporchi, brutti, poveri e (dunque) cattivi? Ho scritto tanto ieri e l’altro ieri della mondializzazione e dell’anti mondializzazione globalizzata; ho ricordato come con il sorriso sul volto ci si possa attaccare alla vita o scegliere di morire ammazzando. Ho scomodato Adorno. Non aggiungerò se non quel che è ovvio: il messaggio semplificato e radicale del wahabbismo arriva prima nelle università, come una lama taglia il grasso delle menzogne politiche e ideologiche locali, ma consegna alcuni giovani alla menzogna globale e al loro destino di morte. Christine Lagarde, pagina 12 di Repubblica, invoca : “una globalizzazione dal volto umano, la sfida per battere le disuguaglianze”. Le darei ragione, se non avessi motivo di ritenere che il Fondo Monetario Internazionale, la struttura che Lagarde presiede, al massimo pensi un lifting, che, si sa, alla lunga restituisce persino più mostruose le rughe che pretendeva di cancellare.

La tragedia del Bangladesh. Kushi Kabir, attivista dei diritti civili, sostiene che nel suo paese “la forma prevalente dell’Islam (era) il sufismo, spirituale e tollerante». «Dal 2013 tutti coloro che hanno una mentalità razionale, scientifica, coloro che si dicono atei o che mettono in dubbio la religione hanno cominciato ad essere uccisi. Poi è successo ai preti e alla ridottissima minoranza sciita e già prima gli ahmadi. Attentati ogni due – quattro mesi, poi anche due o tre nello stesso mese. Prima che ce ne accorgessimo, sono passati al machete». Ad aprile ecco cosa Amnisty International scriveva a proposito di quel paese: “E’ scioccante che nessuno sia stato punito e che non sia data protezione a membri della società civile che sono minacciati». Il Bangladesh è conteso da clan familiari, maggioranza e opposizione, che hanno per leader delle donne, ma usano la politica, come la minaccia del terrore, per rafforzarsi e regolare i conti fra di loro: arresti, persone scomparse, omicidi mirati. Le vittime innocenti dell’altra sera erano un messaggio che la jihad (non importa se già collegata con Daesh o al Qaeda) lanciava a quel potere, nella speranza di poter prendere il potere. Vittime straniere perché se ne parli. Occidentali, perché in occidente la vita ha un valore.

25 bambini dilaniati, 126 vittime a Bagdad. Lo sapevate? Erano sciiti. E la strage, questa volta, è stata rivendicata dagli assassini di Al Bagdadi. È stata compiuta nel nome di Al Wahhab, il nume dell’ideologia al potere in Arabia Saudita e in tanti stati islamici “moderati”. Lo sciita è “apostata”, perché si dice musulmano ma non segue la “vera” Sharia, la legge islamica come l’ha interpretata lo wahhabismo nel settecento. Apostata è lo Yazida, che adora “l’angelo pavone”. Apostata la donna curda che combatte a volto scoperto Daesh a Kobane. Quando da noi si insiste sul “terrorismo islamico”, certo che è terrorismo islamico ma quando lo si ripete, come se ripeterlo fosse di per sé una medicina, si sottintende che la guerra tra “islamici”, la guerra mossa dall’Arabia sunnita allo Yemen a maggioranza sciita, il confitto tra curdi laici e turcomanni islamisti, che tutto questo non ci interessi affatto. Che si scannino tra loro le “bestie islamiche”, direbbe Sallusti. Anche a Dacca si scannano tra loro. Ma ogni tanto lo fanno per procura: ammazzano 9 italiani per far più male ai loro nemici islamici. O sparano ai turisti all’Aeroporto Ataturk per contestare la tregua di Erdogan con Putin. È la mondializzazione, miei cari! Con il gambero che fa il giro del mondo prima di arrivarvi in tavola, fanno il giro del mondo anche i virus distruttivi del terrore, le ideologie del ritorno al medio evo, i batteri dell’odio per le donne. Il mondo si salva insieme, o perisce.

Trattative, riunioni chiuse, telefonate. Le difficoltà di Virginia Raggi

Il neo sindaco di Roma Virginia Raggi, affaccia al balcone dello suo studio in Campidoglio, 02 luglio 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

«Se Raggi non si sbriga a formare la giunta e a rendere immediatamente operativi i punti fondamentali del suo programma, la faranno a fette». Il Fatto Quotidiano, che pure è il giornale che ha sollevato il caso delle consulenze con la Asl di Civitavecchia, non si può certo considerare un giornale ostile a Virginia Raggi. È un giornale. E così però scrive Antonio Padellaro rispondendo alla lettera di un lettore. Lo scrive per spronare la sindaca, Padellaro, che però aggiunge: «Il 7 luglio quando la nuova inquilina del Campidoglio annuncerà la giunta saranno passati 17 giorni dalla sua elezione. Francamente troppi».

Non è più neanche ormai il ritardo, però, il problema di Virginia Raggi. I giornali di questi giorni – non senza ragioni – parlano soprattutto di riunioni segrete, vertici ristretti, veti incrociati, correnti, con Roberta Lombardi e Paola Taverna da un Lato, e la sindaca, Alessandro Di Battista (che però si espone poco) e Luigi Di Maio dall’altro (il candidato premier in pectore da Spoleto ha difeso Raggi sul caso MArra, dicendo che «chi ha operato bene anche in altre forze politiche può essere coinvolto»). Per il Movimento che doveva decidere tutto in rete, non è il miglior spettacolo che si possa offrire. Non sembra neanche un Movimento – si deve notare – ma proprio un odiato partito, o quasi una coalizione.

Uno spettacolo che produce (e si alimenta) di gaffe e incidenti. Come le prime due nomine firmate dal sindaco e destinate a saltare: Davide Frongia, il fedelissimo consigliere comunale al secondo mandato, forse sarà infatti vicesindaco o assessore al Patrimonio, alla fine, e non capo di gabinetto – carica per cui aveva una parziale incompatibilità; Raffaele Marra, soprattutto, già dirigente vicino a Gianni Alemanno e Renata Polverini, non sarà vice capo di Gabinetto: scoppiata la polemica, il suo incarico è prima stato definito «temporaneo», poi, intervenuto direttamente Grillo con una telefona alla sindaca, si è detto che sarà spostato «ad altro incarico».

Chi prenderà quel posto ancora non si sa – e stasera, dopo un week end di pausa, c’è una riunione del mini direttorio romano – ma tanto di caselle aperte ce ne sono ancora pure nella giunta. Nome più nome meno si è comunque in alto mare. Mancano, ad esempio, l’assessore alla mobilità (ha detto di no – purtroppo – Cristina Pronello, la professoressa del politecnico di Torino di cui vi abbiamo raccontato le idee su Left), e manca l’assessore al Commercio, un ruolo decisivo nella Roma dei mercati e dei bancarellari. C’è da trovare, infine, qualcosa per Marcello De Vito – che è il nome che tiene tutto in stallo, che rende più difficili le trattative, lui, malvisto dalla sindaca e da Frongia, ma caro a Taverna e Lombardi.

E così il Friuli-Venezia Giulia scopre la ‘ndrangheta

Non che non si sapesse, per carità. Figurarsi se in giro c’è ancora qualcuno che pensa esistano territori incontaminati dalla ‘ndrnagheta e figurarsi se il ricco Friuli, da Trieste in giù, non potesse essere un piatto troppo ricco per diventare boccone tra i denti della criminalità organizzata. Però la notizia arriva con tutta una sua drammaturgia degna di un film e allora forse vale la pena raccontarla.

Già durante l’inaugurazione dell’anno industriale il presidente vicario della Corte d’Appello di Trieste Alberto Da Rin aveva dichiarato senza troppo riverenze che l’azienda ‘IT Costruzioni Generali’, che guarda caso si occupa di edilizia e movimentazione terra, era in odore di mafia. Bei tipi quelli della Direzione Investigativa Antimafia di Trieste, tutti lavoro e senza remore, con la schiettezza di chi sa di prendere molto sul serio il proprio lavoro. La IT Costruzioni risulta essere di Martino e Antonio Iona (oltre che di Teresa Antonella): Iona è un cognome conosciuto da quelle parti, gente che riesce ad entrare negli appalti che contano.

Il “capo” è Giuseppe “Pino” Iona, 51 anni, attivo dalle parti di Monfalcone. Iona ha ricevuto un avviso di garanzia e un invito a comparire alla DIA e quando si è seduto di fronte ai magistrati (il capo della Direzione distrettuale antimafia, Carlo Mastelloni e il sostituto procuratore Federico Frezza) ha avuto la bella sorpresa di trovarsi di fronte a un pentito che lui ben conosce. Una carrambata, se ci fossero state le telecamere. Secondo il collaboratore di giustizia Iona sarebbe dedito al commercio illegale di armi e stupefacenti con i Paesi dell’Est e risulterebbe a capo di un’organizzazione mafiosa in tutto e per tutto assimilabile a una ‘ndrina. Uomo di peso, Pino: tra il 2007 e il 2011 secondo la Procura riusciva a muovere anche un chilo di cocaina a settimana.

Ma l’aspetto interessante è che anche Iona, come i suoi colleghi boss sparsi in giro per il mondo, sapeva bene che il modo migliore per mafiare in tranquillità era quello di non farsi notare, non farsi vedere, non farsi sentire. Una storia che potrebbe essere la fotocopia di tante altre lassù al nord. E mica per niente fu proprio Franco Roberti (Procuratore capo dell’antimafia) ad augurarsi anche in Friuli una svolta culturale per alzare la soglia di attenzione ed evitare l’ennesima colonizzazione mafiosa.

Ora il segnale è arrivato. Resta da vedere se gli errori di sottovalutazione in Lombardia e Emilia Romagna ci hanno insegnato qualcosa.

Buon lunedì.

Roma, migranti abbandonati sull’asfalto. In attesa della giunta Raggi

Centinaia di migranti sono accampati in queste ore per le strade di Roma. Dormono accampati sull’asfalto che in queste ore si infiamma con le temperature che superano i 30 gradi. Le condizioni igienico-sanitarie, ovviamente, sono critiche. Uomini e donne, qualcuna di loro è anche incinta, sono arrivati da pochi giorni nel nostro Paese dopo un viaggio drammatico che a Roma non trovano nessun tipo di accoglienza istituzionale.

Baobab_2
Roma, 4 luglio. Migranti accampati in via Cupa

Arrivano perlopiù dal Corno d’Africa e sono in centinaia, in queste ore Roma torna a essere il teatro dell’abbandono disumano. Per loro, l’unico rifugio possibile si trova in via Cupa nei pressi dell’ex centro ‪‎Baobab‬. L’unica assistenza arriva dai cittadini e dai volontari di Baobab Experience mentre la clinica mobile e gli operatori di Medu continuano a fornire prima assistenza medica.

Adesso, l’organizzazione Medici per i Diritti Umani chiede alla sindaca ‪Virginia ‎Raggi‬, al ministero dell’Interno e alla Regione Lazio «di approntare misure immediate e civili di accoglienza per i gruppi di migranti più vulnerabili nella città di Roma, al pari di quanto avviene in altre città italiane ed europee. Non farlo è omissione di soccorso oltre che una sconfitta civile ed etica per la capitale d’Italia».

Più scura è la notte più vicino è il giorno. A colloquio con Carmen Consoli

«Left… cioè siete mancini?», ride Carmen Consoli mentre prende posto sul divano di Palazzo Farnese, a Roma. È simpatica, ironica, acuta, ha gli occhi vispi e l’aria serena. È autentica. Con gli occhi neri incorniciati in una pelle di pesca, da fare invidia a una ventenne, sfodera un umore raggiante. E il colloquio avviene in forma bilingue, sono troppe le espressioni in siciliano a cui non intende rinunciare. Tradotte, del resto, perderebbero in colore e intensità.

«AAA Cercasi signorina intraprendente, giovane brillante, ma più di ogni altra cosa dolce e consenziente». Sono passati dieci anni da quando la cantavi, era il 2006, come stanno oggi le donne?
Male, ci dicono i dati del telefono rosa, di cui faccio parte. La situazione non è migliorata, le associazioni come il telefono rosa non hanno molti aiuti, il che vuol dire che si tende a parlare dei fatti come puro gossip. E, quindi, a creare casi per l’audience televisivo, a diffondere le notizie tragiche sulla violenza perpetrata sulle donne, ma senza parlare di soluzioni. Non si parla di provvedimenti, ma di dettagli morbosi che potrebbero persino ispirare possibili femminicidi! Quindi no, purtroppo la situazione non è cambiata. Anzi, si è persino tornati a parlare di reinserire il delitto d’onore… pur di motivare l’uccisione di un altro essere umano, della donna nello specifico.
E «i funzionari della questura continuano a dire che non c’è alcuna ragione di avere paura!». L’anno scorso torni sull’argomento con la “Signora del quinto piano”. Cruda, crudissima.
Eppure non mi sono discostata troppo dalla realtà (sorride amara), racconto una donna murata viva, nella realtà è successo anche di peggio.
Ed è stato ogni volta raccontato, talvolta anche nei minimi dettagli, anche i più morbosi.
Credo che, in generale, si stia perdendo di vista il rispetto verso gli altri esseri umani. Non bisogna fare confusione tra il progresso tecnologico e il progresso umano. Dev’essere cominciato tutto un ventennio fa, insieme alla mortificazione della cultura, quando sono stati presi provvedimenti seri contro la cultura. Ricordi le “tre i” della Moratti? Inglese, Internet, Impresa. Non c’è stato più spazio per la C, di cultura. E così si è impoverito il terreno dell’animo umano, fino ad arrivare a un agire che fa parte di “mondi bassi”: un agire primitivo, un ritorno a quando si dovevano ancora scrivere le leggi, a prima che venissero disciplinate le comunità civili.

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 2 luglio

 

SOMMARIO ACQUISTA

La superpotenza? È quella del computer più veloce

Si chiama Sunway TaihuLight ed il più potente e veloce supercomputer al mondo, dotato com’è di 41.000 chip, ciascuno delle quali contiene 260 processor cores, per un totale quindi di 10,65 milioni di nuclei di elaborazione; una memoria di 1,3 petabytes (1,3 milioni di miliardi di byte) e una capacità di effettuare 93 petaflop (93 milioni di miliardi) di operazioni al secondo.
I suoi “produttori” cinesi lo hanno presentato al mondo nei giorni scorsi a Francoforte, nel corso della International Supercomputing Conference. Con un orgoglio che genera da almeno quattro motivi. È tre volte più potente e veloce del precedente primatista dei computer, il China’s Tianhe-2, che, come indica il nome, è anch’esso cinese. Ha un numero di nuclei di elaborazione venti volte superiore al più potente supercomputer messo a punto negli Stati Uniti d’America. È ad alta efficienza energetica: pur correndo tre volte più veloce, consuma meno energia di China’s Tianhe-2 (15,3 megawatt contro i 17,8, il 14% in meno). E poiché stiamo parlando di macchine che hanno una potenza dell’ordine dei megawatt, significa che divorano energia con un costo annuo di alcune decine di milioni di euro.
Ma la più grande novità di Sunway TaihuLight è che è un supercomputer interamente cinese. Con microprocessori e un’architettura tutti “fatti in casa”, frutto solo della creatività orientale. Al contrario del China’s Tianhe-2, che è stato realizzato con processori Intel, prodotti negli Stati Uniti.
La Cina, dunque, possiede i due supercomputer più potenti del mondo. Non è una performance casuale. Nella classifica che gli informatici amano redigere dei Top500, ovvero dei cinquecento supercomputer più potenti del pianeta, la Cina con 167 macchine precede gli Stati Uniti, che ne hanno 165.

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 2 luglio

 

SOMMARIO ACQUISTA