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Minima moralia, meditazioni sulla vita offesa. Il Caffè del 3 luglio

Bestie islamiche! Alessandro Sallusti ha deciso di usare prole forti. E di provare a vendere qualche copia in più del suo Giornale, dopo averci provato con il Mein Kampf. Certo è non umano, se si vuole è bestiale, sequestrare persone che cenavano allegre in compagnia, chiedere loro di recitare certi versetti e, se non sapevano farlo, sgozzarli con il machete. Bestie evolute, tuttavia, con la connessione internet a portata di tiro e la testa piena di vento. E certo, queste particolari bestie non erano né cattoliche né indù, erano islamiche. Bestie islamiche, dunque. E ora che facciamo? Convochiamo il G8, chiediamo all’India indù di sottomettere Bangladesh e Pakistan. Alla Cina, Filippine e Indonesia. I nostri amici israeliani assoggetteranno Arabia Saudita, Emirati, Egitto. La Russia la Turchia, Noi europei magari il Maghreb e l’Africa sahariana e sub-sahariana. Dimenticavo, ci sono anche Siria e Iraq e poi l’Iran, perché la fatwā dell’Imam Sallusti accomuna sunniti e sciiti. Lì dovranno i nostri protettori americani, che già ci avevano provato, imponendo uno Scià alla Persia e poi con un paio di guerre in Iraq. Chissà perché poi hanno desistito. Lo bocca del cacciatore Sallusti è piena di parole forti, la mascella è tesa e minacciosa, ma il carniere è tristemente vuoto.
L’orrore e il sorriso. Repubblica mostra in prima pagina i sorrisi di Claudia e di Marco, di Adele, Claudio, Simona, Nadia, Maria, di Vincenzo e di Cristian. Vittime della carneficina. A pagina due e tre altri sorrisi, quelli senza nome dei 5 carnefici autori della strage. Questo è lo stato presente: noi uomini sorridiamo al futuro, ma possiamo farlo aggrappandoci alla nostra vita o scegliendo di ammazzare e di morire. Nel 1968 un regista britannico nato in India, molto a sud ovest di Dacca, immaginò il ribelle Mick Travis che fa seguaci e prende i mitra per cancellare le regole di un college britannico. L’anno dopo If vinse la Palma d’oro a Cannes. Svolgete lo stesso tema quasi 50 anni dopo. Dopo che per mezzo secolo i nostri amici sauditi hanno sguinzagliato migliaia di imam a promettere l’apocalisse islamica, cioè la distruzione della civiltà di Avicenna e Averroè, della civiltà che costruì le mura di San’a’ e il palazzo dell’Alhambra, per tornare alle origini, a un medio evo violento e purificatore, quando la legge faceva lapidare l’adultera e gli uomini portavano barbe incolte, proni a sottomettersi al potere politico del califfo e ubbidendo a lui credendo di ubbidire a Dio. Nel medesimo mezzo secolo noi occidentali abbiamo perso, con vergogna, una guerra in Vietnam, poi una economica con la Cina, abbiamo costruito lager in Cile, fatto ammazzare un milione fra comunisti e loro familiari in Indonesia, dilaniato e umiliato e insultato quella lingua di terra dove sono nate le tre le religioni monoteiste. Dove le ragioni islamiche distano a pochi metri dalle radici giudaico-cristiane. E poi internet, che mette tutti in condizione di sapere (o di credere di sapere) e di agire subito dopo, senza bisogno di capi che chiedano ai loro capi, che chiedano ai loro. La bestialità è una malattia dell’uomo. Pol Pot pensava che la sua rivoluzione in Cambogia non dovesse cambiare i rapporti di produzione ma la natura dell’uomo, a colpi di bastone. L’innovazione straordinaria, di cui siamo testimoni e protagonisti sta cambiando la natura dell’uomo; la quale, beninteso, è un prodotto storico ma nella storia mutava lentamente, nel corso di secoli e millenni, non nel volgere di qualche anno. La globalizzazione cambia la storia offrendo a tutti tutte le merci e ogni possibile sogno. Cambia la natura dell’uomo con il bastone del denaro, della pubblicità e dei meravigliosi mezzi di comunicazione. L’uomo cambia e sorride -cambia davvero e diventa migliore: non intendo negare l’emancipazione delle donne, il progresso dei diritti e delle libertà- ma la reazione di rigetto e il femminicidio, la pulsione di morte come inno a una vita possibile eppure negata, accompagnano naturalmente un cambiamento tanto accelerato. Se tutto è possibile e niente lo è, posso prendermi la vita degli altri e la mia. Vivere morendo.
Quando Al Wahhab visse 250 anni fa, faceva le sue prove la prima mondializzazione, quella che abbe l’illuminismo come ideologia e come alfieri l’imperialismo inglese e le guerre napoleoniche. La rozza predicazione di quell’ideologo settario era – ahinoi – modernissima. Consisteva nel depurare l’islam da ogni mediazione, di semplificarne il messaggio, e negare ogni possibile interpretazione del Corano se non quella letterale. L’islam in pochi scarni tweet. La morte del nemico come sola propaganda. L’esaltazione del potere del califfo con l’alibi della sottomissione al potere senza nome. Perché Dio non è nominabile, né raccontabile, né umano: è sovrumano. E dunque sovrumana è la politica in nome di Dio. L’occidente non ha voluto capire -ancorché fosse tutto scritto-, ha trattato quei fanatici come rozzo antidoto all’emancipazione di una parte del mondo. Per dividere il medio oriente e sottometterlo all’Impero Britannico, per farne un alleato dell’America agli albori della guerra fredda, per usarlo contro il nazionalismo pan arabo e il movimento dei non allineati, lo ha armato contro i russi sovietici e contro gli sciiti iraniani. Siamo noi occidentali che abbiamo coltivato nel nostro seno la serpe dell’anti globalizzazione globalizzata che ora ci atterrisce, dall’11 settembre alla strage di italiani nel caffè ristorante di Dacca. Non vedo che un modo per uscirne: rendere umana la globalizzazione. Vasto programma, lo so. È come chiedere una rivoluzione mondiale, mentre ognuno di noi si è ridotto a fare lobby per migliorare di un niente lo stato presente delle cose. Nel tempo in cui appaiono totalizzanti solo le ideologie delle destre, sia quella islamico wahhabita che l’altra che unisce Trump, Farage, Orban e la Le Pen, e che vorrebbe chiudere i nostri popoli in altrettante fortezze inespugnabili, per proteggerli dal cambiamento che noi stessi abbiamo imposto al mondo. Cambiamento che ora muove decine di milioni di migranti, arma migliaia di kamikaze, mette sulle nostre tavole gamberi allevati in Pacifico e sgusciati in Africa.
Socialisme ou Barbarie,  Castoriadis ne scrisse 70 anni fa. L’idea era quella che solo prendendo in mano la propria storia l’uomo potesse evitare le catastrofi del nazismo, della guerra, dello stalinismo. In questi decenni -soprattutto negli ultimi tre- la politica e la sinistra hanno imparato a fare il contrario, si sono acconciate ad attaccare l’asino dove voleva il padrone e a lasciar fare ai mercati. Al denaro che liberamente crea denaro e disuguaglianze, alla pubblicità che promette, in terra e a ognuno, le cento vergini, ignude e levigate, del paradiso islamico. All’industria farmaceutica che garantisce di vincere la vecchiaia con lifting e diete. Consumare e partecipare, ottimizzare la gestione del proprio vagone rimanendo lontani dalla locomotiva che corre in testa al treno. Nessuno vede che, davanti, le locomotive sono due e una corre verso il baratro. Forse il capitalismo saprà aggiustarsi da sé, forse un nuovo meraviglioso chip separerà le due locomotive e consegnerà quella cattiva a un binario morto. Ma ci vorranno decenni e ci saranno nuove stragi. Stupri collettivi e insulti all’ambiente e alla vita. Possiamo aspettare? Allora non lamentiamoci troppo. Dopotutto anche gli intellettuali realisti – come gli islamici estremisti- chiedono di aver fede e promettono felicità in cambio di sottomissione.

L’impegno di Montanari per la cultura, a Roma e a Sesto

Professor Tomaso Montanari, Sesto Fiorentino e Roma saranno due laboratori politici? Come consigliere per la cultura lei si batterà per la piena applicazione dell’articolo 9 della Costituzione che tutela paesaggio e patrimonio d’arte. In questi due Comuni proverà a contrastare la linea del governo Renzi che tratta i musei come supermercati e mette a rischio il territorio con lo Sblocca Italia?
Comincerei col dire che Roma e Sesto sono due laboratori assai diversi per dimensioni, e per natura politica della giunta. Ma in comune hanno l’idea che non dobbiamo per forza scegliere tra la mercificazione ultraliberista e sgangherata di Renzi e Franceschini e la decadenza materiale del patrimonio culturale: nel mezzo c’è la via che considera il patrimonio culturale un bene comune, palestra di cittadinanza. Vorrei sottolineare che mentre il Pd sceglie attraverso il filtro della fedeltà al capo, sia a Sesto che a Roma sono stato cercato da persone che non mi conoscevano, ma che condividevano ciò che ho scritto e che dico. A queste condizioni, chi fa il mio mestiere ha il dovere morale di dare consigli a chi governa.
Con sindaci come lo storico dell’arte Argan e come Petroselli, che si avvalse dell’urbanista Insolera e dell’archeologo La Regina, Roma e il suo patrimonio d’arte hanno conosciuto momenti alti di tutela in passato. Ora il suo lavoro di consigliere della giunta Raggi di cui fa parte l’urbanista Paolo Berdini potrebbe rinnovare quella stagione. Quali sono le priorità?
Per il pochissimo che dipende da me, ce la metterò tutta, quando questo gruppo di consiglieri per la cultura sarà ufficialmente creato. Io credo che ci dobbiamo provare, tutti insieme: e la presenza di Paolo Berdini è una straordinaria garanzia. Dovessi indicare le priorità della cultura direi: fuori la gestione privatistica della cultura pubblica; il progetto di una grande Appia libera e pedonale dal Colosseo a Cecilia Metella; fare dei Musei Capitolini il museo più civico d’Europa.
Mentre il ministro Franceschini si impegna molto per l’arena del Colosseo con ingenti investimenti, i lavoratori che lo tengono aperto hanno visto il loro diritto di sciopero compresso con una legge ad hoc. Cosa ne pensa?
Penso che Dario Franceschini sia il peggior ministro per i Beni culturali della storia della Repubblica: ha distrutto il modello italiano di tutela. E il Colosseo è il simbolo di questo strazio. Franceschini lo trasforma in una location per fare spettacoli a pagamento, immaginando un patrimonio culturale al servizio di spettatori-clienti-consumatori. Concepire la cultura come puro intrattenimento decerebrante è una scelta commerciale che si rivolge ad un pubblico abbiente. E forse si capisce perché a Roma il Pd vinca solo nei quartieri centrali e benestanti. Quanto ai lavoratori, Franceschini è stato terribilmente scorretto: l’assemblea era legale e comunicata per tempo, ma il Ministero ha preferito non avvisare i visitatori e far scoppiare un caso montato artatamente. Qual era lo scopo di questa mistificazione? Un noto documento programmatico della banca d’affari americana JP Morgan del giugno 2013 additava tra i problemi «dei sistemi politici della periferia meridionale dell’Europa» il fatto che «le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste»: bisognava dunque rimuovere, tra l’altro, le «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori» e «la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo».
I funzionari della soprintendenza capitolina con la Cgil hanno scritto nei mesi scorsi un comunicato sindacale durissimo in cui denunciavano riduzione di organico, mortificazione delle competenze attraverso esternalizzazioni e richiami disciplinari per chi osa denunciare lo status quo. Un suo commento?
Condivido ogni frase di quel comunicato: la soprintendenza capitolina è un corpo in agonia, “commissariato” da Zetema e ormai giunta ad un bivio drammatico: o essere soppressa, o riprendere, vita, competenza, finanziamenti, strategie. Personalmente consiglierò di seguire questa seconda strada, dopo aver preso misure radicali…..

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La demenza senile della democrazia

Brexit è stato la sconfitta dei giovani da parte degli anziani. Il grafico (vedi il grafico a destra) mostra la distribuzione per età del voto fra Remain e Leave e segnala che a votare in maggioranza per l’uscita sono stati gli elettori sopra i cinquanta anni, e determinanti quelli sopra i 65. I più giovani, fra i 18 e i 24 anni, per ben oltre il 70% erano per restare, e comunque erano pure in maggioranza per restare le persone fino a 49 anni. Una delle ragioni del risultato è stata l’affluenza alle urne più alta tra le fasce di popolazione più avanti negli anni rispetto ai giovani.
Non c’è, invece, alcuna correlazione geografica fra voto e diminuizione del salario reale (per la deindustrializzazione o altre cause): la geografia del voto – conferma l’analisi del direttore della britannica Resolution Foundation, Torsten Bell – dimostra che le aree in cui il salario reale è diminuito più della media non hanno votato Leave più della media né, viceversa, si è preferito il Remain dove il salario il salario reale è aumentato più dell amedia. Non è dunque il disagio sociale vero ad essere correlato con il voto per il Leave, ma piuttosto la sua percezione, mediata dall’istruzione e dall’età.
Le città in cui ha sede un’università di respiro internazionale – Londra, Cambridge, Oxford, e molte altre – si sono compattamente espresse per Remain. La decisione di rompere dopo oltre quaranta anni di (scettica) convivenza dentro l’Unione europea è stata presa da pensionati o pensionandi inglesi e gallesi delle contee e città minori, contro i loro figli (oltre che contro gli scozzesi e gli irlandesi del Nord).
È il quadro di una democrazia che per la sua struttura demografica assegna un potere preponderante a persone con minore istruzione, che viaggiano di meno, che usano di meno internet, che sono più condizionate da retoriche nostalgiche. Chi oggi ha quaranta anni o meno nel Regno Unito è nato in un Paese che era già parte di un progetto europeo. Chi ha più di 65 anni ha avuto una infanzia, e per i più anziani una giovinezza, con riminiscenze e favole post-imperiali. Non a caso uno dei temi del Leave è stato quello, obiettivamente risibile, di tornare a rafforzare i legami con i Paesi del Commonwealth, il club delle ex colonie.

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Ora i partiti socialisti cambino linea

Siamo di fronte a eventi storici che influenzano in modo determinante il corso e il futuro dell’Europa e dei suoi popoli. Il tempo storico è denso, procede a una velocità molto superiore da quella con cui i leader europei si sono abituati a reagire. Così l’Europa patisce gli effetti dell’insufficienza e dei ritardi nell’affrontare la crisi. Una crisi che ha le sue radici nell’economia, ma che si trasforma in crisi politica.

Un continente in crisi d’identità
Il risultato del referendum in Gran Bretagna è l’ultimo evento di questa drammatica crisi politica. Le carenze croniche delle leadership europee, il persistere in politiche di austerità, il tentativo di sfruttare riflessi xenofobi e la retorica anti-immigrati, hanno alimentato, già da tempo, populismo, sciovinismo, nazionalismo.
La decisione del popolo britannico va rispettata, conferma una crisi di identità dell’Europa. Una crisi strategica. E, naturalmente, questa crisi non arriva come un fulmine a ciel sereno: quando si costruisce un’Europa aprendo i confini all’austerità e all’autoritarismo ma chiudendoli agli uomini, costruendo recinti, lasciando correre certe politiche, la retorica dell’odio e dello sciovinismo, credo che l’ultima cosa che si possa fare è dare la colpa ai popoli. Le responsabilità sono dei leader che hanno creato un’Unione europea che è unione solo nel nome, priva di una vera solidarietà e della reciproca comprensione tra gli Stati membri. Un’Unione che ricorda le regole che si è data quando vuole punire gli indisciplinati, ma che le dimentica quando si tratta di distribuire in modo equo i costi. Infine, un’Unione che invece di integrare continua ad alimentare le tendenze euroscetticiste, a dare argomenti a bigotti e demagoghi, un tempo residuali e oggi assurti al ruolo di protagonisti della Storia.

Quell’avvertimento a Cameron
Se vogliamo trovare la madre della crisi attuale, cerchiamola in chi ha fatto circolare la caricatura ideologica del “Nord lavoratore” e del “Sud pigro”. Per cui i popoli del Nord si sentono autorizzati a chiudere fuori dai confini gli immigrati fastidiosi e quelli del Sud dovrebbero sentirsi degli intrusi in Europa. Questo non può più continuare a essere. Oggi abbiamo bisogno di un nuovo inizio e di una nuova visione dell’Europa unita. Questo vuol dire più Europa o meno Europa? Meno Europa, è ovvio, è l’esempio della Gran Bretagna, che può essere seguito da altri Paesi. Ricordo, durante il vertice in cui si decise uno status speciale per la Gran Bretagna, di aver avvertito Cameron: mi auguro – gli dissi – che questa decisione, imposta dalla necessità e senza il pieno consenso di tutti, ti aiuti a vincere il referendum, ma non ne sono sicuro. Perché se per tanto tempo hai cercato di convincere i cittadini britannici che è meglio meno Europa, primo o poi vincerà l’opzione niente Europa.

Liberi dai tecnocrati
D’altra parte, che vuol dire più Europa? I suoi leader, quelli che oggi la invocano, devono chiarire che cosa significa. Se significa un’Europa più autoritaria, meno democratica, più antisociale, senza sovranità popolare, allora possiamo farne a meno. La risposta è più Europa sociale e democratica. Un’Europa in cui torni la politica, libera dalle redini dei tecnocrati.
Quando ci siamo rivolti al popolo greco, l’estate scorsa, non abbiamo pensato neppure per un momento di abbandonare l’Europa, ma di cambiarla, con gli altri popoli, in modo radicale. Gli attuali leader europei, però, gli stessi che ora ci sorridono e ci salutano, allora per intimidirci hanno distorto i fatti dicendo che la domanda del nostro referendum era “per la permanenza o per l’uscita” dall’Europa.
Abbiamo dovuto ripetere, con pazienza, che non volevamo uscire dall’Unione europea o dall’euro, ma che cercavamo un accordo più giusto. Syriza è una forza internazionalista che dà battaglia per cambiare l’Europa dal suo interno, non per sciogliere l’Europa.

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Il progetto politico delle città ribelli. Intervista a Luigi de Magistris

Il candidato a sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, durante la chiusura della campagna elettorale in piazza Dante, Napoli, 16 giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Lunedì 27 giugno, ore 18. L’Italia si ferma per la Nazionale. «Sindaco, mi conferma l’intervista? C’è la partita…». «Perché, gioca il Napoli?», replica Luigi de Magistris, rieletto alla guida di «Napoli città autonoma». E alle 18 in punto ci accoglie a Palazzo San Giacomo.

Sindaco, lei parla di autonomia dentro l’Europa mentre il Regno Unito ha votato per la Brexit.
Credo che in Gran Bretagna abbia vinto la paura dello straniero, della contaminazione dell’altro. A Napoli invece si sta costruendo un processo di autonomia sull’abbattimento delle paure, sulla presa di coscienza che le differenze sono una ricchezza e non un pericolo. L’incontro tra fasce sociali diverse è diventato un elemento di ricchezza per una città senza mura e senza confini, in cui si costruisce la civiltà del benessere.

Napoli come Barcellona, Madrid e Atene. All’indomani della sua riconferma, ha parlato di un network delle “città ribelli” contro le oligarchie di Bruxelles. Ci spiega?
Perché con la riconferma è nato un progetto politico, non si tratta più soltanto di un laboratorio. L’esperienza della città di Napoli va raccontata insieme a quella di altre grandi città del mondo, come Barcellona, Atene e altre ancora, perché qui il popolo è diventato protagonista del suo destino. Si è rotto un sistema, non ci sono più guinzagli che legano Napoli ad apparati partitocratici o sistemi mafiosi, a lobby, congreghe o circuiti di potere politico né locali, né regionali o nazionali. La gente senza potere, in particolare i giovani ma anche una nuova borghesia illuminata, si è messa a fare politica nella nostra città. Abbiamo governato per cinque anni, senza un euro e senza rinunciare alla nostra visione politica. Il risultato? Siamo l’unica città d’Italia che ha pubblicizzato l’acqua, non ha privatizzato servizi essenziali e non ha licenziato nessuno. Abbiamo dato una visione internazionale a Napoli, resistendo ai tentativi di occupazione istituzionale e alle politiche di austerità. È chiaro che siamo oltre l’esperienza amministrativa.

Cosa intende con “città autonoma”?
Napoli autonoma è un démos, è una città, una comunità che si racconta. Forse, per la prima volta dal Dopoguerra la novità viene dal Sud e pone fine a quella litanìa della questione meridionale, dei soloni che da Roma, dai governi e dal parlamento, ci raccontano come deve cambiare il Mezzogiorno e poi fanno “politiche di gabbie” per tenere bloccato il popolo. Trovo molto bello che sia passato il concetto di “città ribelli”, ora dalla città ribelle bisogna passare al Sud ribelle, d’Italia prima e d’Europa e del mondo poi. Perché vogliamo essere a disposizione di tutte quelle popolazioni che si vogliono emancipare, la potenzialità dei Sud è enorme.

Prima o poi le potenzialità dovranno pur concretizzarsi. Come si fa?
Si fa consolidando le relazioni e gli scambi di prassi ed esperienze, consolidando incontri e dibattiti. Pochi giorni fa a Roma ho incontrato Yanis Varoufakis, presto incontrerò Ada Colau, sindaca di Barcellona. Continueremo a tessere reti di comunità, di città-comunità, mentre gli altri costruiscono Stati-nazione e ritornano ai nazionalismi, non ci interessano le chiusure a riccio. Siamo per l’autonomia ma di apertura. Non siamo quelli delle espulsioni né delle rigidità formali e dei nazionalismi. Senza ambiguità.

A chi si riferisce quando parla di ambiguità?
Penso a tante ambiguità, come quelle dei 5 stelle che su alcuni temi, come sui migranti e sui Rom, continuano ad averne. La nostra concezione è veramente solidaristica, di globalizzazione dei diritti e delle persone, in cui si possa costruire l’Europa dei popoli. E quindi costruire ponti anche con città dell’Est e mediorientali. Crediamo in un mondo che riparta dai suoi abitanti e dai suoi territori.

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Attacco a Dhaka, chi sono i gruppi islamisti attivi in Bangladesh

Morti, feriti e ostaggi. È questa la situazione venutasi a creare in un ristorante di Dhaka, la capitale del Bangladesh, dove un commando di nove persone armate ha preso in mano un ristorante nel quartiere di Gulshan, dove sono le ambasciate e vivono molti stranieri. Lo stesso ristorante è frequentato da cosiddetti expats, il personale di ambasciate, Ong e altre organizzazioni internazionali attive nel Paese.

Mentre scriviamo sappiamo che ci sono due morti tra i poliziotti, che il gruppo armato è entrato gridando Allah Akbar, ha preso prima le cucine e poi la sala, lanciando bottiglie molotov. Sappiamo anche che l’Isis ha rivendicato tramite Amaq, la sua agenzia di stampa, e che ci sono almeno 20 ostaggi – la rivendicazione parla anche di 20 morti, ma non se ne sa nulla. Ci sono italiani tra gli ostaggi, il ristorante è nei pressi dell’ambasciata. Due sono riusciti a fuggire.

Bangladesh Attack

Da dove viene questa violenza e quanto Isis c’è in Bangladesh?Nelle scorse settimane più di 8.500 persone sono state arrestate dopo che nel Paese si sono verificati una serie di attentati e attacchi contro attivisti laici e rappresentanti delle minoranze religiose. Tra il febbraio del 2013 3 l’aprile scorso ci sono stati almeno 20 assalti e uccisioni, anche di stranieri o personale locale che lavorava per agenzia di sviluppo. Le vittime, quando non straniere, sono spesso blogger che parlano di temi considerati irrispettosi, o militanti per i diritti civili degli omosessuali.

Il database sugli attacchi terroristici dell’università del Maryland conta più di 100 attacchi – molti senza vittime – solo nel 2015. Il 28 settembre 2015 veniva ucciso anche l’italiano Cesare Tavella.

 

Nel mese di aprile, il direttore di unica rivista gay del Bangladesh, un professore universitario e uno studente di legge Dhaka che avevano espresso opinioni laiche in un blog sono stati ammazzati.

Molti degli attentati, non tutti, sono stati rivendicati dall’Isis, ma il governo ha ogni volta smentito, anche quando un commando ha ucciso la moglie di un importante poliziotto dell’anti-terrorismo. Resta da capire se l’attitudine del governo è dettata dalla paura e voglia di negare la presenza del Califfato anche in Bangladesh o se si tratta di un’affermazione basata su dati reali. Certo è che dal Bangladesh – e molto di più dalla comunità britannico-bangladesha – sono partiti diversi miliziani per andare a combattere in Siria. Quelli potrebbero essere un eventuale legame.

In Bangladesh sono attive diverse formazioni di islamismo radicale armato, tra cui Jamatul Mujahideen Bangladesh, legata a doppio filo a Jamaat-e-Islami, che è un partito politico, in passato determinante per la costruzione di maggioranze parlamentari. L’emiro di Harkat-ul-Jihad Islami è stato uno dei cinque firmatari della fatwa di Osama Bin Laden del 1998 contro l’Occidente. Spesso il Paese è anche stato la piattaforma per gli attacchi in India di gruppi pakistani come Lashkar-e-Taiba, forse l’organizzazione più grande di questo tipo in Pakistan, dove oggi è fuorilegge ma per anni è stata al centro dello scontro politico.

A maggio era stato condannato a morte e ucciso Moitur Rahman Nizami, ex ministro di Jamat-e-Islami, ritenuto responsabile di atrocità commesse contro le minoranze negli anni 70. La sua morte ha generato proteste e un crescente clima di tensione. È dal 2013 che il governo arresta dirigenti e militanti del partito, quell’anno una rivolta generata dagli arresti ha provocato 50o morti. Da allora altre decine di persone sono state arrestate e molti dirigenti si sono dati alla macchia. Un ulteriore elemento di instabilità per un Paese poverissimo, abitato da 130 milioni di persone.

 

Come è felice Di Maio, dopo i sondaggi che fanno volare M5s

Il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio durante la conferenza stampa con i principali candidati sindaci del M5s alle prossime amministrative del 5 giugno, 19 maggio 2016 a Roma. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Sorride Luigi Di Maio. Per lui il primo luglio è stata una bella giornata. Anche perché, per Matteo Renzi, invece, lo è stata un po’ meno. Il sondaggio che Demos ha realizzato per Repubblica dà infatti il 5 stelle avanti nella popolarità rispetto al presidente del Consiglio, che è in caduta costante e solo in parte fisiologica, con il suo governo che nel giugno 2014 piaceva al 69 per cento degli italiani e oggi solo al 42. Arriva infatti sorridente, Di Maio, a Spoleto, dove pure lo aspetta un incontro importante, uno dei tanti che sta collezionando per perfezionare il suo profilo da leader presentabile del Movimento, da premier in pectore. Incontra ambasciatori, incontra leader internazionali, vola in Germania, vola in Spagna, va a Londra e a Parigi (dove – racconta – «ho avuto l’impressione di parlare ancora con i Bersani e i D’Alema dell’epoca, convinti che Le Pen sia un fastidio momentaneo») e quindi, immancabilmente, si fa intervistare da un senatore del giornalismo come Paolo Mieli, nella borghesissima cornice del festival dei Due Mondi di Spoleto.
E dice tante cose, Di Maio. Racconta dell’infanzia a Pomigliano, del padre missino, del caro professore craxiano, socialista nostalgico della Prima Repubblica, e di quello di Filosofia che è «comunista-comunista-comunista»: «Io sono il mix di una padre di destra, di una città sindacalizzata e di un professore comunista», dice quindi, «e ho preso il buono che c’era in ognuna di queste cose». Parla del limite dei due mandati, poi, dando qui una mezza notizia, peraltro: potremmo scommettere senza troppe remore che la sacra regola cambierà e non varrà per tutti. Perché la difende, ovviamente, Di Maio, ma poi aggiunge: «Se stiamo parlando della prossima legislatura, comunque, io penso che se vinceremo dovremo lavorare, goderci il momento, e poi, tra otto anni», alla storia dei limite due mandati, «ci pensiamo e lo decideranno i cittadini».

E poi parla ovviamente della legge elettorale. Che è, popolarità e gradimento a parte, la vera preoccupazione del segretario del Pd e premier in questo momento, perché la seconda cosa che dice il sondaggio Demos – già in realtà perfettamente visibile con volto delle amministrative – è che il Movimento 5 stelle al ballottaggio sarebbe addirittura dieci punti avanti al Pd. Sono i 5 stelle, infatti, il vero partito della Nazione, capace di raccogliere a sinistra ma soprattutto a destra, dove pure avrebbe voluto pescare Renzi, che però ha coccolato (dall’abolizione dell’articolo 18 in giù) più i moderati. Grillo invece cavalca temi come l’immigrazione, e pesca più a fondo. Ecco allora l’idea di cambiare l’Italicum. Solo che Renzi una modifica in funzione anti grillina sarebbe un assist clamoroso, ma sa anche che il ballottaggio con il premio di maggioranza alla lista che si era cucito addosso ora potrebbe calzare a pennello al Movimento. Non è bello, e allora in attesa di capire cosa fare bisogna almeno innescare la polemica: e i 5 stelle hanno abboccato subito all’amo gettato dallo spin Filippo Sensi. Sembrano loro, adesso, i difensori dell’Italicum.

Brexit: Gove lancia la sua candidatura. May favorita a sostituire cameron?

Michael Gove, il bruto che ha assassinato le ambizioni di Boris Johnson e tradito Cameron, quando ha scelto di guidare la campagna per il Brexit, ha presentato la sua candidatura a leader conservatore. «Qualsiasi cosa sia il carisma, è qualcosa che non ho» ha detto il Segretario alla Giustizia, che ha promesso nell’ordine: niente elezioni fino al 2020, articolo 50 da far scattare nel 2017, fine della libertà di movimento in Europa, nuova legge su immigrazione e “ripensamento dei servizi pubblici”.

La differenza con Theresa May, che sulle trattative e la non necessità di tornare alle urne conviene, è grande: stabilità e ritorno alla normalità per la Segretaria agli Interni, sebbene senza tentativi di tornare in Europa, pensiero più ideologico nei toni per Gove. May è la figura a cui affidarsi in tempi di spavento e crisi dopo il referendum, è stata contraria – moderatamente – all’idea di uscire dall’Europa, ma ha immediatamente detto che non si torna indietro.

Gove è la faccia del cambiamento radicale, e nel suo discorso di lancio della campagna per la leadership ha insistito sul fatto che il voto nel referendum significa volontà di cambiare tutto da parte del popolo. Gove si è anche rivolto a quelli che non ce la fanno, la colonna del voto pro Brexit, un voto potenzialmente in fuga verso l’Ukip di Nigel Farage. Per adesso però, il radicale del gruppo di 5 candidati alla leadership che verrà eletta da un’assemblea di 1922 delegati, ha una grande debolezza: viene additato da molti come un traditore. In un periodo di incertezza, essere una figura tanto controversa può non aiutare.

Alla corsa partecipano anche altri tre candidati: Stephen Crabb, Andrea Leasom e Liam Fox. Tutti molto pro Brexit, tutti con meno peso specifico e alleati di May e Gove, che divrebbero essere i due che finiranno al ballottaggio. Resta da capire come e quanto l’assemblea conservatrice sia animata da furore ideologico o dalla paura del disordine che arriverà con le trattative a Bruxelles.

A proposito di queste, la commissaria al commercio, Maellstrom ha fatto sapere che di negoziati non si parla fino a quando la Gran Bretagna non chiederà il ricorso all’articolo 50 del Trattato di Lisbona. Il braccio di ferro su come e quando, viste le posizioni britanniche, che tendono a rimandare, continuerà. Intanto, il Cancelliere dello Scacchiere si è rimangiato l0’idea di arrivare al surplus di bilancio entro il 2020. Ovvero, un’altra volta la destra promette tagli e pareggi di bilancio e poi rinuncia.

Intanto si accende lo scontro nel Labour. Non è chiarissimo quali saranno i candidati, ma c’è la certezza che lo scontro sarà duro: in pochi giorni, al partito, si sono iscritte 60mila persone in pochi giorni, per votare a favore o contro la leadership di Jeremy Corbyn.

Mi chiamo Imran, ho 11 anni e guadagno meno di 5 dollari al giorno

Bangladeshi child Ridoy, 7, looks towards camera as he works at a factory that makes metal utensils in Dhaka, Bangladesh, Sunday, June 12, 2016. He earns less than $5 per day. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/ A.M. Ahad)

Imran è nato in Bangladesh e ha 11 anni. Lavora in una fabbrica di Dhaka che fa utensili in metallo e guadagna meno di 5 dollari al giorno.
A giugno si è celebrata la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, istituita nel 2002 dall’Organizzazione internazionale del lavoro per evidenziare la difficile situazione dei bambini sfruttati.

Bangladeshi boy Imran, 11, looks towards camera as he works at a factory that makes metal utensils in Dhaka, Bangladesh, Sunday, June 12, 2016. He earns less than $5 per day. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/ A.M. Ahad)
Imran, 11 anni (AP Photo/ A.M. Ahad)

Secondo l’Unicef, il problema è ancora attuale e coinvolge, nei Paesi in via di sviluppo, oltre 150 milioni di bambini di età compresa tra i 5 e i 15 anni. La maggior parte di loro, circa 1 su 4, fa lavori rischiosi per lo sviluppo fisico (nelle miniere cambogiane o congolesi, nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio oppure a contatto con sostanze nocive per la salute).

Bangladeshi child Ridoy, 7, looks towards camera as he works at a factory that makes metal utensils in Dhaka, Bangladesh, Sunday, June 12, 2016. He earns less than $5 per day. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/ A.M. Ahad)
Ridoy, 7 anni, guadagna meno di 5 dollar al giorno(AP Photo/ A.M. Ahad)

Bangladeshi boy Robin,10, looks towards camera as he works at a factory that makes metal utensils in Dhaka, Bangladesh, Sunday, June 12, 2016. He earns less than $5 per day. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/ A.M. Ahad)
Robin,10 anni (AP Photo/ A.M. Ahad)

Nizam, 11 (AP Photo/ A.M. Ahad)
Nizam, 11 (AP Photo/ A.M. Ahad)

Alcuni svolgono mansioni pericolose e lesive della dignità umana, come la prostituzione, la tratta, lo spaccio o l’arruolamento come bambino soldato. La maggioranza di loro, secondo Unicef, si trova in Africa sub-sahariana (il 25%), mentre in Asia meridionale il 12% di loro – circa 77mila bambini – svolge lavori potenzialmente pericolosi.Tra i Paesi sfruttatori vi sono Pakistan (l’88% dei bambini che non studiano, lavorano), il Bangladesh (48%), l’India (48%) e lo Sri Lanka (10%). Anche l’Italia non è esente dal problema: secondo Save the children sono 340mila i bambini costretti a lavorare, e 28mila di questi sono coinvolti in attività pericolose.

In this Sunday, June 12, 2016, photo, Ridoy, 7, works at a factory that makes metal utensils in Dhaka, Bangladesh. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/A.M. Ahad)
(AP Photo/A.M. Ahad)

(AP Photo/A.M. Ahad)
(AP Photo/A.M. Ahad)

In this photo taken on Sunday, June 12, 2016, child laborers share a light moment as they work at a metal factory in Dhaka, Bangladesh. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/ A.M. Ahad)
(AP Photo/ A.M. Ahad)

In this Sunday, June 12, 2016, photo, Abdullah, 12, works at a metal factory in Dhaka, Bangladesh. The World Day Against Child Labor, which was initiated in 2002 by the International Labor Organization to highlight the plight of child laborers, is observed across the world on June 12. (AP Photo/A.M. Ahad)
(AP Photo/A.M. Ahad)

(AP Photo/ A.M. Ahad)
(AP Photo/ A.M. Ahad)

(AP Photo/ A.M. Ahad)
(AP Photo/ A.M. Ahad)

Gallery a cura di Monica Di Brigida