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Pablo Iglesias: «Che ci è successo il 26 giugno? La paura del nuovo»

Leader of Podemos, a left-wing party that emerged out of the "Indignants" movement, Pablo Iglesias speaks during a press conference in Madrid on 2014 to speak about the party's eight percent result in last weekend's European elections. Podemos' eight percent win in last weekend's European elections, gave them five seats in the European Parliament. Although they still have a long way to go to really trouble Spain's establishment, the result took many observers by surprise since opinion polls had forecast only a two or three percent vote share for the party. AFP PHOTO / GERARD JULIEN

«Che ci è successo il 26 giugno?», Pablo Iglesias apre ufficialmente il dibattito in Podemos. Difende la confluencia con Izquierda unida e dà la sua lettura ai risultati deludenti del 26 giugno: «La paura del nuovo, il timore davanti al cambiamento».

Che ci è successo il 26 giugno? Se escludiamo l’ipotesi della frode, impensabile in un Paese come la Spagna, appaiono diverse cause possibili: in molti hanno creduto che queste cause siano potute essere la nostra campagna elettorale, o la confluencia con Izquierda unida, che non dovevamo situarci nel temuto spazio alla sinistra dello scacchiere politico. Entrambe le ipotesi hanno contribuito a incoraggiare il conflitto interno in Podemos, i nostri avversari insistono su esse.

La mia opinione è che nessuno di questi due fattori è stato determinante e che, al contrario, la causa principale che spiega la frustrazione delle nostre aspettative e il fallimento dei sondaggi è un’altra: ricordo di averla identificata con Íñigo (Errejón, ndr) quando preparavamo la strategia per la campagna elettorale del 20 dicembre – la famosa remontada – sospettavamo, allora, di essere una forza politica che attirava a sé molta simpatia e che avrebbe potuto contare anche sul voto di chi non pensava che avremmo potuto governare ma che però vedeva con simpatia la nostra irruzione. Però allora ragionavamo sul fatto che questa gente non ci avrebbe votati se ci avesse visti come possibili vincitori. Credo sia questa la chiave di lettura per capire cosa è successo nelle ultime elezioni: hanno una simpatia per noi, apprezzano lo scossone che abbiamo dato alla politica spagnola, rispondono a un sondaggio che non andranno a votare. E davanti alla reale possibilità che noi andassimo a governare hanno deciso di non votarci. Se l’accordo con Izquierda unida non è stato vittorioso è stato perché non è stata immediatamente vista come forza politica egemonica e non perché ha attirato paure nei nostri confronti.

La chiave, a mio parere, è la paura del nuovo. E se la Braxit ha influito è stato precisamente nella direzione di confermare questo timore davanti al cambiamento. È la mia opinione, adesso che si apra il dibattito. Benvenuti a Fort Apaches.

Pablo Iglesias
(traduzione di Tiziana Barillà)

Presidenziali Austria, ballottaggio da rifare. L’ha deciso la Corte Costituzionale

epa05326765 Former right-wing Austrian Freedom Party (FPOe) presidential candidate Norbert Hofer (L) and party leader Heinz Christian Strache (R) pose for a photographs after a news conference in Vienna, Austria, 24 May 2016. Hofer the previous day was narrowly defeated by Austrian President-elect Alexander Van der Bellen, who had won the presidential elections run-off over Hofer by just a few thousands of votes. Lettering in background is part of a slogan reading: 'Danke Oesterreich' ('Thank You Austria'). EPA/CHRISTIAN BRUNA

Si disputerà nuovamente il ballottaggio per la scelta del Presidente della Repubblica austriaco. Lo ha deciso stamattina la Corte Costituzionale, dopo che il Partito delle libertà austriaco (Fpoe) aveva presentato un ricorso per «presunte irregolarità» con cui si sarebbe tenuto il voto. Le elezioni erano state vinte lo scorso 22 maggio dal verde Alexander Van Der Bellen, che aveva sconfitto lo sfidante, l’ultra-nazionalista Norbert Hofer, dell’Fpoe, per soli 30mila voti in più. Decisivi per la vittoria del candidato verde furono i voti arrivati per corrispondenza, che gli permisero di sconfiggere l’estrema destra con un 50,3% contro il 49,7%. Capovolgendo il risultato del primo turno, in cui Hofer aveva ottenuto il 34% dei consensi contro il 21% di van Der Bellen.

L’Fpoe contesterebbe proprio i voti arrivati per corrispondenza, scrutinati, secondo il partito di destra, prima dell’arrivo della Commissione elettorale. Le irregolarità confermate dalla Corte costituzionale riguardano oltre 77mila voti, abbastanza per cambiare l’esito della consultazione e dare all’Austria – e anche all’Europa – per la prima volta nella storia, un Presidente di estrema destra.

«Le elezioni sono il fondamento della nostra democrazia e il nostro compito è di garantirne la regolarità. La sentenza deve rafforzare il nostro stato di diritto» ha detto il presidente della Corte costituzionale Gehrart Holzinger, prima di leggere la sentenza che ha annullato il ballottaggio. È la prima volta che in Austria viene annullato un ballottaggio: nel 1970 e nel 1975 erano stati annullati i voti di alcuni collegi, ma non era mai successo in tutto il paese. Il ballottaggio dovrebbe disputarsi tra settembre e ottobre. Ma non si sa ancora di preciso.

Referendum abrogativi di leggi sul lavoro, raccolte 3 milioni di firme dalla Cgil

Roma, 9 aprile 2016: Al via la raccolta delle firme per la proposta di legge sulla 'Carta dei diritti' © Simona Caleo/Cgil

Senza tanto clamore sui media, ma con una grande mobilitazione a tappeto sono stati raccolti dalla Cgil oltre 3 milioni di firme per tre referendum abrogativi sulle ultime leggi sul lavoro. E questa mattina sono stati depositati in Cassazione.

I quesiti – per i quali occorre 500mila firme e quindi in questo caso il numero raccolto è il doppio – riguardano questi punti:  la cancellazione del lavoro accessorio (i voucher), la reintroduzione della piena responsabilità solidale in tema di appalti e soprattutto una nuova tutela reintegratoria nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (qui il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale) per tutte le aziende al di sopra dei cinque dipendenti.

I quesiti sono finalizzati al sostegno della proposta di legge della Carta per i diritti universali del lavoro. E infatti continua la raccolta firme per quella che si presenta come una grande riforma dello Statuto dei lavoratori. «Abbiamo raccolto oltre un milione di firme per ciascuno dei tre referendum abrogativi, possiamo fare ancora di più con le firme a sostegno della Carta. La #SfidaXiDiritti continua», conclude Camusso.
La proposta di legge di iniziativa popolare (il testo si può leggere qui), racconta ad Articolo1 il costituzionalista Vittorio Angiolini si rivolge a tutti i lavoratori e vuole tutelare «un patrimonio di diritti individuali e collettivi quanto alla rappresentanza di tutti, privati e pubblici, subordinati e autonomi e occasionali, basta che intrattengano un rapporto di lavoro», compreso anche lo stage e o il tirocinio. L’obiettivo è che «ogni lavoratore non si deve trovare alla mercè dell’organizzazione e ognuno possa esprimere la propria personalità».

Cosa è andato storto nel voto spagnolo? L’analisi di Alberto Garzon, leader di Izquierda Unida

Alberto Garzón

Pablo Iglesias, subito dopo i risultati elettorali in Spagna, lo ha detto inequivocabilmente: i risultati non sono quelli che speravamo, e l’alleanza con Izquierda unida resta in piedi. Non pochi analisti in questi giorni hanno addossato la mancata spallata – non chiamiamola sconfitta – alla confluencia, ovvero alla scelta di Podemos di allearsi con Izquierda unida in quel fronte che ha preso il nome di Unidos Podemos e si è attestato come terza forza politica della Spagna. Dentro Podemos la discussione sembra essere animata, ne seguiremo gli sviluppi. Le possibilità di governare per il fronte del cambiamento svaniscono, mentre gli spagnoli si rifugiano nel “vecchio Rajoy” e premiano il Partito popolare e con esso l’Europa dell’austerità. Intanto, sulle spalle dei socialisti di Sanchez il peso della scelta: larghe intese e governo di unità nazionale o tornare nuovamente al voto? Il dibattito in Spagna prosegue. Nei giorni scorsi avevamo pubblicato l’appello al voto di Pablo Iglesias, oggi traduciamo brani di una lettera aperta di Alberto Garzón, leader di Izquierda unida.

(…) I risultati delle passate elezioni non sono stati quelli che speravamo. Non abbiamo raggiunto gli obiettivi che ci eravamo fissati dando vita all’alleanza tra Podemos e Izquierda Unida. (…) Non siamo riusciti a sconfiggere il Pp né a creare le condizioni parlamentari affinché il nostro Paese possa avere un governo di sinistra.

Una riflessione calma e rigorosa diventa necessaria. (…) non speravamo in questo risultato, né se lo aspettava qualsiasi partito politico o sondaggista. Probabilmente nella nostra società, e ancor di più nella sinistra, ci sono forze sociali che non siamo riusciti a intercettare. (…)

Quello che appare evidente, senza il pregiudizio delle analisi postume, è che non siamo stati capaci di sedurre né convincere l’elettorato di sinistra che aveva confidato in Iu e Podemos nelle passate elezioni. La nuova astensione, quella di chi aveva votato a dicembre e non oggi, praticamente coincide con il numero dei voti persi dalla coalizione. Non è chiaro se questo pezzo di elettorato lo si era perso già prima della coalizione, per via della frustrazione rispetto alle negoziazioni relative all’investitura di governo, o se si tratta di un fenomeno posteriore. Quello che è chiaro è che non siamo riusciti a convincere tutti i nostri elettori del momento storico che il nostro Paese sta attraversando. (…)

Ciò nonostante, è positivo che noi ci chiediamo se la confluencia (l’alleanza) sia stata una buona idea. Io credo di sì. La confluencia è stata, in primo luogo, una strategia razionale che ci ha permesso di mantenere i seggi nonostante la perdita dei voti. E in secondo luogo, è stata una buona idea in termini politici, perché ci permetterà di iniziare a costruire uno spazio politico con un enorme potenziale di trasformazione.

Tuttavia, dobbiamo porre l’attenzione sul risultato politico generale. Dal 2011 ad oggi il ciclo politico di mobilitazioni e proteste ha prodotto un cambiamento radicale nel sistema dei partiti ma anche nello spazio politico della sinistra. Mentre nel 2011 potevamo contare solamente undici deputati in questo spazio, oggi possiamo contarne 71. si tratta di un’avanzata considerevole, sebbene insufficiente. (…)

Ma le analisi non possono limitarsi unicamente al risultato elettorale. Il nostro Paese continua ad attraversare una dura crisi economica e politica che colpisce le fondamenta della nostra società. L’attuale fase storica del capitalismo è gestita dai governi neoliberali la cui gestione provoca un deterioramento delle condizioni di vita della maggioranza. Queste politiche sono le responsabili dell’aumento della frustrazione e della rabbia delle classi popolari, quello che ha alimentato l’ascesa dell’estrema destra in tutta Europa e che minaccia di far implodere il progetto dell’Unione europea, come abbiamo visto nel Regno Unito.

Nel nostro Paese, tuttavia, siamo in gran parte riusciti a spiegare la crisi con le coordinate ideologiche della sinistra. E il regime è ancora in crisi, incapace di risolvere la questione economica senza ricorrere a duri tagli che colpiscono la sua base sociale e incapace anche di raggiungere uno scenario di governabilità. I prossimi saranno mesi e anni di grandi sfide per le classi popolari e per la sinistra sociale e politica. E per far fronte a questo compito siamo più forti che mai.

Durante la nostra XI Assemblea (di Iu-unidad popular, ndr) abbiamo approvato la tabella di marcia che dà il via alla costruzione della confluencia e unità popolare, dalla mobilitazione sociale al piano culturale. Senza alcun dubbio la confluencia elettorale è insufficiente e incapace senza altri due elementi: la capacità di costruire una visione del mondo diversa da quella delle oligarchie e un movimento popolare protagonista. Sono convinto che sia questo il cammino corretto, e dobbiamo trarre vantaggio dal fatto che abbiamo un’organizzazione forte e unita. (…)

L’egemonia non è un concetto che si riferisce alla capacità di vendere un prodotto nel mercato elettorale ma, è più corretto, la capacità di estendere un’alternativa concezione del mondo, culturale e sociale e perciò ancorata alla vita quotidiana delle classi popolari. (…)

(Traduzione di Tiziana Barillà)

Il buco dell’ozono sopra l’Antartide si riduce

Il buco dell'ozono rilevato dalla Nasa nel 1979, 1987, 2006 e 2011

Una buona notizia per la salute della terra e soprattutto per gli umani. Il buco dell’ozono sopra l’Antartide comincia a ridursi. Secondo una ricerca coordinata dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e pubblicati sulla rivista Science, il “buco” è di circa 4 milioni di chilometri quadrati  più piccolo di quanto non lo fosse nel 2000. Che sarebbe, tanto per dare l’idea, di dimensioni pari a 12 volte l’Italia. Questi risultati sembrano contraddire la situazione osservata nel 2015, ma gli scienziati avrebbero effettuato tutti i controlli passando in esame tutte le misure dal 2000 a oggi. L’ozono, ricordiamo, è molto importante perché è lo strato gassoso che avvolge la Terra e impedisce l’arrivo sulla Terra delle radiazioni ultraviolette del Sole, responsabili di tumori della pelle, come melanomi e carcinomi e di danni alla vista come cancro e cataratta, oltre ad essere responsabili di alterazioni del sistema immunitario. Gli scienziati spiegano la riduzione del “buco” con la progressiva eliminazione di emissioni di sostanze chimiche in atmosfera. Questo grazie al protocollo di Montreal che nel 1987 dettò delle norme precise per bloccare la produzioni di sostanze chimiche contenenti clorofluorocarburi (Cfc), i maggiori responsabili dell’assottigliamento dello strato di ozono. Pensiamo solo ai frigoriferi, alle bombolette spray. Dopo una “resistenza” iniziale di alcuni Paesi, come la Cina e l’Urss, nel 1990 più di 90 Stati decisero di eliminare la produzione di Cfc. Come si vede, le scelte industriali possono cambiare nettamente e i benefici si vedono.

Pd 45,3% 5Stelle 54,7 il sondaggio di Diamanti, Caffè

Cinquestelle, sorpasso sul Pd, è il titolo forte di Repubblica. Sondaggio Demos, commentato da Ilvo Diamanti. Le risposte del campione attribuiscono al Pd il 30,2% e a 5Stelle il 32,3. Potrebbe essere un vantaggio effimero, indotto dalle recenti elezioni amministrative, ma la notizia molto più seria, un vero knock-out nella situazione data, è il risultato previsto per il ballottaggio: il Pd guidato da Renzi totalizzerebbe il 45,3% dei voti, i 5 Stelle raggiungerebbero il 54,7%. Scarto di quasi 10 punti. Ciò significa che al movimento di Grillo sta riuscendo quello che non è riuscito a Renzi: far breccia nell’elettorato di destra e persino prendere voti nella sinistra non renziana. Il perché si capisce: chi governa deve scegliere e scegliendo scontenta qualcuno, i 5 stelle si presentano come una forza politica anti casta, né di destra né di sinistra, e questo dà loro una posizione di vantaggio che durerà fino a quando non fossero contestati dall’interno del loro campo, e in nome della loro stessa ideologia, per scelte ritenute non conseguenti o contrarie all’interesse generale. Voler correre ora ai ripari, prevedendo la semplice possibilità di coalizzarsi tra primo e secondo turno in funzione anti 5 Stelle, senza rivedere l’insieme delle riforme che tendevano e tendono a trasformare la nostra democrazia parlamentare in premierato assoluto, sarebbe vano e stolto.

Un baro da due soldi. Così Beppe Grillo definisce nel suo blog Matteo Renzi. Pietosa la contro replica della retroscenista Maria Teresa Meli: “I «5 Stelle sono usciti allo scoperto». Esattamente ciò che voleva il premier”. Scrive oggi Michele Ainis: “La riforma costituzionale sottrae alle minoranze lo spazio di manovra del Senato. E l’Italicum consegna lo scettro del comando a un gigante contornato da una folla di nanetti. Perché frantuma le opposizioni, consentendo l’accesso in Parlamento a chiunque rastrelli il 3% dei consensi. Perché rende autosufficiente il vincitore, dato che il premio di maggioranza va alla lista, non alla coalizione. E perché infine chi perde il ballottaggio non ottiene nessun premio di consolazione, col risultato che qualche voto in meno può costare la metà dei seggi. In breve, abbiamo inventato un maggioritario al cubo. In un’altra stagione, magari potrebbe funzionare. Qui e oggi, è meglio ripensarci, come chiede un fronte sempre più esteso di parlamentari, anche all’interno del Pd. Infatti nessuna legge elettorale è superiore Urbi et Orbi: dipende dal contesto, non dal testo. Ma in questo caso il testo calza a pennello su un sistema monopolare, quando in Italia i poli sono ormai diventati tre. Attenzione, c’è il rischio che il corpo strappi la camicia”. A me sembra che Renzi si sia messo in trappola: non può cambiare la legge elettorale prima che si voti per il referendum, perché le sue riforme apparirebbero così tutte ad personam. Se al referendum vincessero i sì, magari grazie a sponsor come Jovanotti, Benigni, Buffon che il guru americano Messina, secondo il Fatto, vuol reclutare alla causa del premier, Renzi correrebbe il rischio di riunire poi contro di sé tutti i nemici (di destra, di sinistra e non di sinistra né di destra), col rischio di essere spianato nel ballottaggio. Potrebbe allora cambiare l’Italicum, ma gli servirebbe quel nuovo Nazareno che Confalonieri gli offre. “Idea utile ma impossibile”, secondo Marcello Sorgi.

Sì alla Turchia nell’Unione, dice alla Stampa il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni. La Turchia è sotto attacco: 42 morti all’aeroporto Ataturk, i kamikaze venivano da repubbliche ex sovietiche e avevano solide basi in Turchia. Difficile non accostare la strage alla lettera di scuse inviata da Erdogan a Putin per l’abbattimento del suo aereo da caccia. Difficile non chiosare l’articolo scritto ieri da Roberto Toscano “Erdogan balla coi lupi” (del terrorismo islamico), aggiungendo che l’aspirante sultano ha risuscitato lo scenario peggiore, quello da cui mosse il genocidio degli armeni, la guerra russo-turca di un secolo fa. Erdogan ora ha paura dei lupi? Ha deciso di cambiare politica estera e di rinunciare a sostenere Daesh e islamisti turcomanni in Siria? Allora aiutiamolo, aprendo le porte a quel sublimato di Europa, romana, bizantina, mediterranea che è Istanbul. Ma a una condizione: l’immediato stop ai bombardamenti sui curdi che combattono Daesh e sui villaggi curdi in Turchia. Rispetto dei diritti civili, liberazione dei prigionieri politici. Se l’Europa non è questo, non è.

Se vi va stretta la legge elettorale

Come si svela una truffa? Appena cadono le cortesie di rito e si svelano i motivi reali che stanno dietro a una scelta. Così la discussione sull’Italicum (la legge elettorale sventolata come “grande riforma per il futuro dell’Italia” disse Matteo Renzi) mostra cos’è la politica italiana al momento: una partitella di cortile con in palio il potere, prendendo a calci la democrazia.

Così sembra quasi banale voler ricordare quanto la legge elettorale sia le fondamenta di una sana democrazia: rappresentanza, agibilità politica, l’attività parlamentare e la composizione stessa di un governo sono il risultato di un’elezione che trovi la giusta declinazione. La legge elettorale, se ci pensate, decide le dinamiche stesse della politica, ne suggerisce le alleanze e ne sancisce le modalità. Per questo bisognerebbe averne cura.

Il 19 maggio del 2014 Riccardo Nencini (un viceministro, eh) ospite ad Agorà disse che l’italicum serviva per fare fuori il M5S. Il Pd era al 40% e il M5S al 25%. Un’uscita che passò quasi inosservata e che pure già chiariva quale fosse lo scopo. Così come in questi giorni non sembra difficile capire perché improvvisamente anche il M5S non sia così disposto a rivederla.

Una legge a uso e consumo, quindi, che serva come arma personale per sbarazzarsi di questo o quel avversario. Noi (ce lo ricordiamo vero?) siamo quelli che scesero in piazza tutte le volte che quell’altro legiferava per se stesso. Ma se nelle leggi ad personam (o contra partitum) si sfiorano i nostri interessi invece stiamo zitti? No, vero?

Buon venerdì.

Quello che Renzi non dice affrontando Brexit

Sviluppo, innovazione, migranti. Questi sono gli obiettivi che Renzi pone all’Europa dopo il Brexit. Purtroppo però ne mancano altri due: equità e solidarietà.

Perché proprio aver vissuto le politiche dell’Unione Europea come squilibrate a favore di qualcuno – dei più abbienti, non solo tra i Paesi, ma anche e soprattutto tra i gruppi sociali, dei più istruiti, di coloro che godono dei benefici della globalizzazione – ignorandone i costi per altri – per i più periferici, coloro che sono vittime, piuttosto che beneficiari della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia, coloro sui cui spazi e modi di vita incide più immediatamente la pressione migratoria – ha motivato la crescente ostilità all’Unione, in Gran Bretagna come altrove.

La bugia di Farage (smentita il giorno stesso della vittoria del Leave) su a che cosa serviranno i finanziamenti non più destinati alla Ue hanno toccato un nervo scoperto: un sistema sanitario pubblico sempre più affaticato, servizi scolastici pubblici cui è affidato per intero il compito dell’integrazione dei migranti, quartieri periferici e intere cittadine lontane dallo scintillio della city e dei ceti internazionalizzati non per forza, ma per scelta.

L’esempio della Grecia non è passato invano: i ceti più deprivilegiati, in Inghilterra e altrove, hanno imparato che l’Europa non verrà in loro soccorso (a differenza di quanto ha fatto con le banche e con i grandi creditori), anzi, che proprio loro porteranno il peso maggiore delle politiche di austerità, tanto più se il loro governo è debole nello scacchiere europeo e internazionale. E tutti noi vediamo come tutti gli accordi sul ricollocamento dei migranti non riescano ad essere attuati.

Pensare che le cose cambino se si ritorna alla piena autonomia nazionale (posto che questa sia possibile in un mondo dove i mercati, finanziari e non, attraversano e scompigliano agevolmente i confini) può essere un’illusione. Non solo per gli effetti negativi sull’economia immediati e di medio periodo dell’uscita, ma perché la crescente disuguaglianza tra gruppi sociali e tra centro e periferia non sono solo l’effetto delle “politiche di Bruxelles”, ma anche di politiche nazionali che le hanno sistematicamente ignorate, quando non incoraggiate in nome del “mercato” e della “crescita”. Derubricare il tutto a populismo (o peggio, a ignoranza), tuttavia, non aiuta a capire il disagio profondo che sta dietro al Brexit, a tutti i movimenti che in giro per l’Europa sono tentati di andare nella stessa direzione, ed anche, per rimanere nel nostro piccolo, al sommovimento politico emerso nelle elezioni locali. Il ritorno prepotente della disuguaglianza, nelle sue forme classiche ed anche in alcune inedite, non è solo un tema per dibattiti accademici. È qualche cosa che tocca la vita e le speranze di migliaia di persone, in Gran Bretagna come in altri Paesi, inclusa l’Italia. Persone che non vogliono subire anche la beffa di sentirsi trattare da ignoranti resistenti al cambiamento e preda di ogni sirena populista. Se il populismo cavalca questi temi e se ne avvantaggia, senza risolverli, continuare ad ignorarli non può che peggiorare il senso di esclusione e sfiducia.

Ciò che non solo la Commissione Europea per quanto riguarda la tenuta dell’UE, ma anche Renzi, il governo, il Parlamento italiano per quanto riguarda l’Italia, dovrebbero finalmente capire è che non solo lo sviluppo, almeno nel senso tradizionale, non è dietro l’angolo, che molta occupazione distrutta non tornerà più, che l’innovazione tecnologica crea nuova occupazione ma anche ne distrugge. Succede anche che la domanda di lavoro si segmenta sempre più tra buona e cattiva occupazione, divaricando forse più di un tempo opportunità e condizioni di vita. Più sviluppo, più occupazione, più innovazione, posto che si riesca a ottenerli, non comportano automaticamente minore disuguaglianza. Può anzi essere vero il contrario.

Viceversa, ridurre le disuguaglianze sia con politiche di pari opportunità che compensino gli svantaggi di partenza (istruzione, miglioramento delle condizioni di vita nei contesti più disagiati, servizi “abilitanti” alla partecipazione al lavoro e sociale, salari decenti), sia con politiche redistributive che sostengono situazioni di particolare vulnerabilità impedendo che si incancreniscano, riduce il potenziale di rancore ed estraneazione. Facilita anche lo stesso sviluppo – economico, sì, ma anche sociale e umano. Lo ha capito anche l’Ocse, abbandonando la filosofia iper-liberistica di qualche anno fa, come si evince dal rapporto del 2015, In it together. Why less inequality benefits all.

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 2 luglio

 

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Ce n’est qu’un debut continuons le combat

Partiamo dai fatti. Il voto spagnolo ha fermato la sinistra, punito i socialisti, premiato l’usato insicuro, il partito di Rajoy che ha portato il Pil a crescere del 3% ma con una percentuale insopportabile di giovani disoccupati e con disuguaglianze crescenti. Hanno vinto i politicanti peggiori, quelli che hanno parlato alla pancia del popolo britannico, promettendo un’improbabile ritorno ai fasti dell’impero, una volta liberatisi dei migranti e dei vincoli europei. Hanno vinto Nigel Farage e Boris Johnson, gente che mette l’orticaria pure ai trader della City.
Non ci sono scorciatoie, né cavalli bianchi che ti portino al sicuro e alla meta. Perciò bisogna essere sinceri (e persino spietati) nell’analisi. Sul voto spagnolo può aver influito l’effetto Brexit. Gli elettori venivano da una legislatura di appena sei mesi, con i partiti che non avevano saputo formare un governo. Dopo la Brexit, presentata dai media con toni apocalittici come la bomba che avrebbe potuto far saltare l’Europa, gli spagnoli non hanno avuto il coraggio di votare Unidos Podemos, cioè ex indignados insieme ad ex comunisti. Pablo Iglesias è stato dunque sfortunato, ma è possibile che abbia anche voluto troppo e in troppo poco tempo. Da movimento di protesta, né di destra né di sinistra, ha trasformato Podemos in partito che mirava al governo e si proponeva di guidarlo trascinandosi dietro la “vecchia” socialdemocrazia. È probabile che parte del suo stesso gruppo dirigente ci abbia creduto poco e che parte dei suoi elettori non se la sia sentita di seguirlo. Ora Iglesias riflette: Moruno, il portavoce, ci anticipa qualcosa.
Nel Regno Unito il leader del Labour, Jeremy Corbyn, si è schierato tardi, e in modo assai timido, contro Brexit. Perché non voleva confondersi con Cameron e perché riteneva più importante difendere salari, diritti, welfare piuttosto che un’Unione a guida tedesca. Ora una parte del suo partito, e la maggioranza del suo gruppo parlamentare, ne chiede la testa. Pensa che in ogni caso né gli operai né il ceto medio deluso torneranno a votare per il Labour Party. Dunque a che serve Corbyn? Meglio proporre un nuovo New Labour che allacci rapporti con la City, parli ai giovani che avrebbero preferito restare in Europa, punti sulle città , si batta per i diritti più che contro il privilegio. Sadiq Kahn, neo sindaco di Londra, potrebbe offrire il suo volto a questo nuovo New Labour. Ma Corbyn promette battaglia, sostiene a ragione che la riforma della sinistra debba passare per la sfida al neoliberismo, alla dittatura dei mercati, alle leggi del profitto di borsa che crea utili per multinazionali e fondi d’investimento, ma brucia i risparmi delle famiglie e crea nuove disuguaglianze. Lunedì il voto di sfiducia. Vedremo.
In Italia, Matteo Renzi era nell’angolo. Sconfitto a Roma e Torino, incapace di intendere la protesta delle periferie, non più incondizionamente sostenuto dai media. E destinatario di consigli non richiesti: cambia l’Italicum (Veltroni), non legare la sorte del governo al referendum (Del Rio). Ma Brexit gli ha offerto un’occasione: ora promette di piegare Berlino e Bruxelles, di spendere in deficit, di aggirare il bail in per salvare le banche. E ha trovato una bandiera, la “delicata bellezza del sentimento europeo”.
Una sinistra dovrebbe sfidarlo. Appoggerai Tsipras? Convincerai Sánchez a dialogare con Iglesias. Chiederai alla Merkel di ridurre il surplus commerciale alzando i salari tedeschi e dando fiato all’eurozona? O sei ormai troppo legato alla casta e fai solo fuffa?

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 2 luglio

 

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La Commissione Europea proroga l’uso del glifosato. Ignorando due milioni di cittadini.

«Una scelta assurda!» commenta l’eurodeputato socialista belga Marc Tarabella, all’indomani della decisione della Commissione Europea di prolungare di 18 mesi l’autorizzazione per l’uso del glifosato, il pesticida della Monsanto sospettato di essere cancerogeno già da tempo. «Questa è la prova di una grave défaillances all’interno dell’Ue», commenta il deputato: «mettere il profitto della Monsanto prima della salute di 500 milioni di europei: è questa la decisione della Commissione europea! Ancor più grave è che ciò sia avvenuto dopo la Brexit, quando ci saremmo aspettati una più forte rimessa in questione del suo impiego».
Alla scadenza delle concessioni –  prevista per il 30 giugno  – le associazioni ambientaliste e le Ong si aspettavano un’inversione di rotta a favore di politiche ambientali più attente alla salute e alla sicurezza dei cittadini europei. Cosa che non è avvenuta: il Commissario Ue alla salute e alla sicurezza, Vytens Andriukaitis, ha annunciato in giornata la proroga delle concessioni per l’erbicida, giustificando la decisione presa come un  «obbligo giuridico» per la Commissione. Andriukaitis si è poi detto «sorpreso per il silenzio degli Stati membri»: la Commissione europea è stata incaricata di occuparsi del problema proprio dagli Stati Ue, dopo due riunioni che si sono concluse con un nulla di fatto, senza una decisione adottata a maggioranza qualificata. A favore della proposta si sono schierati 19 stati membri; altri 7, tra i quali l’Italia, si sono astenuti, mentre Malta e Francia hanno votato contro. Proprio la Francia è un grande oppositore al glifosato, tanto che già nel 2011 aveva classificato il diserbante come «pertubatore endocrino», ossia una sostanza che altera la funzionalità del sistema endocrino.
Duro anche Gaetano Pascale, Presidente dell’associazione Slow Food, che ha accusato l’esecutivo europeo di ignorare i pareri della Comunità scientifica e la voce dei cittadini, ricordando che oltre 2 milioni di europei si sono schierati contro l’uso della sostanza, sottoscrivendo una petizione popolare. Indignata anche la Coalizione italiana #Stopglifosato, che chiede un incontro con i ministri Martina, Galletti e Lorenzin.
Entro la fine del 2017, come sottolineato da Andriukaitis, è comunque atteso il parere dell’Agenzia per la chimica europea (Echa), che si pronuncerà sulla pericolosità del prodotto.
Il glifosato è stato dichiarato «potenzialmente cancerogeno per l’uomo» nel marzo 2015 dall’Associazione di ricerca sul cancro (Airc), che lo classificato nei fattori di rischio del gruppo 2A (assieme alle carni rosse e al bitume), dimostrando tra l’altro una correlazione tra l’uso del pesticida e il sorgere di linfomi di tipo non-Hodgkin. L’autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), invece, ha sostenuto il contrario, ossia che è improbabile che il glifosato rappresenti una minaccia di cancro per l’uomo. La ricerca dell’Efsa è stata bollata come scarsamente indipendente, e alcuni attivisti hanno dimostrato il coinvolgimento di alcune corporation del farmaco, che avrebbero, in maniera del tutto strumentale, pilotato lo studio e i dati.
Il pesticida è stato creato nel 1950 in svizzera, ed è entrato nel mercato nel 1974. é presente in oltre 750 prodotti per l’agricoltura, ma il più noto è il Roundup della Monsanto.