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«Non mi pare che la Brexit abbia ammorbidito Merkel»

GERMANY, Berlin: Italy's Prime Minister Matteo Renzi addresses a joint press conference with France's President Francois Hollande and Germany's Chancellor Angela Merkel ahead of talks following the Brexit referendum at the chancellery in Berlin, on June 27, 2016. Britain's shock decision to leave the EU forces German Chancellor Angela Merkel into the spotlight to save the bloc, but true to her reputation for prudence, she said she would act neither hastily nor nastily.

«Non mi pare che la Brexit abbia ammorbidito Merkel. Fa bene Renzi a provarci, ma l’intervento sulle banche si sarebbe dovuto fare prima». Questo dice a Left Ernesto Longobardi, economista, professore, con cui abbia parlato un po’ della tenuta del sistema bancario, che sembra la prima vera conseguenza della Brexit, su cui si dovrebbe arrivare – ma non ci si arriverà – allo scontro con la Germania di Angela Merkel.

Mercati turbolenti, banche in affanno. Il primo effetto della brexit è la preoccupazione per la tenuta del sistema bancario. Perché?
«Perché i debiti sovrani sono protetti da Bce e quindi il rischio Paese, almeno a giudizio dei “mercati”, si è rivolto verso le banche e la loro esposizione. In Italia i bond decennali hanno più o meno tenuto, e anzi i rendimenti sono pur lievemente aumentati. Le banche invece sono crollate perché la percezione dei mercati, da citare sempre tra virgolette, è che questa volta, a differenza del 2011, i debiti pubblici siano protetti: ma non mi pare si possa parlare di una diretta conseguenza, non vedo un nesso diretto, se non per l’atteggiamento dei mercati, tra Brexit e la tenuta del sistema bancario».
E ora, anche se non l’ha detto in parlamento, Renzi vuole margini più ampi di intervento sulle banche, vuole fare ciò che il bail in impedisce. Cosa servirebbe?
«Quello che sta chiedendo Renzi è anche giusto, ma bisogna vedere se può riuscire adesso, così in ritardo: e non mi pare che la Brexit abbia ammorbidito Merkel. La cifra di cui si parla in queste ore, comunque, è 40 miliardi che servirebbero per sistemare le sofferenze, dopo averle svalutate».
Merkel dice però che le regole non si possono cambiare ogni due anni. Si è sbagliato, come rinfaccia al premier Renato Brunetta, a non intervenire prima?
«Si è sbagliato a sottoscrivere, come hanno fatto gli ultimi governi italiani, tutto ciò che chiedeva Merkel, dal fiscal compact al pareggio di bilancio in costituziona, fino alle norme sulle banche. Ma i governi, bisogna dire, l’hanno fatto perché le pressioni erano tutte sul debito pubblico, all’epoca, e finché non è intervenuto Draghi con il cannone l’Italia è rimasta sottoscacco».
Come dice Saccomanni, ministro di Letta: «La nostra priorità era il debito pubblico».
«In qualche modo ha ragione».
Germania, Francia, Spagna, intervennero sulle banche già nel 2013, con molte più risorse dei 6 miliardi messi sul piatto dall’allora governo Letta. Fa bene Renzi a rimpallare la colpa su chi l’ha preceduto?
«Avremmo dovuto farlo anche noi, sì. Ma non credo che avrebbe fatto diversamente un altro governo».
È giusto che sia lo Stato a pagare scompensi spesso frutto di azzardi se non di truffe?
«Bisognerebbe trovare un equilibrio tra quel che pagano tutti i contribuenti e quel che si lascia a chi con un titolo o con un altro ha investito nella banca. Ma bisogna farlo tenendo conto il grosso problema di informazione e di quanto poco possa fare un depositante per disciplinare la sua banca».
Resta comunque il tema delle responsabilità. In America fanno le cause di rivalsa, qui sembra trionfare una cera impunità.
«Che però temo sia un problema di nostra cultura».

Nel cuore della Mongolia con lo scrittore Ian Manook

È  una terra bellissima e ferita la Mongolia raccontata da Ian Manook, lo scrittore francese che il 30 giugno è ospite del Letterature Festival di Roma mentre Fazi manda in libreria il suo Yeruldelgger, il primo volume di una trilogia che in Francia è diventato un caso letterario (150mila copie vendute e decine di premi).  Protagonisti del romanzo sono  personaggi  decisamente fuori dall’ordinario come commissario Yeruldelgger,  un gigante dal passato durissimo ma che non ha perso la sensibilità, come  il medico legale Solongo, solitaria e bella come il sole, e poi come l’ispettrice Oyun e Gantulga un vispo ragazzetto di strada, che aiuta il commissario nella sciarada di un caso che comincia con il ritrovamento di uomini e donne cinesi assassinati. In attesa del suo intervento sul palco di Massenzio, gli abbiamo rivolto qualche domanda per capire qualcosa di più del suo lavoro.

Ian Mannok, oltre ad essere giornalista e scrittore  lei è anche un viaggiatore, perché fra i tanti Paesi che ha conosciuto ha deciso di ambientare il suo romanzo in Mongolia?
Ho scritto questo romanzo per una sfida con mia figlia, io non ne avevo mai scritti, il giallo non faceva parte della mia cultura. Allora ho provato a scrivere un romanzo “cinematografico”, cercando di vederlo in una ambientazione diversa dalla Francia. Ero incerto fra il Brasile, l’Amazzonia, dove ho viaggiato per più di un anno da giovane, ma avevo pensato anche a scenari più mirabili come la Patagonia, l’Alaska e la Mongolia. Alla fine ho scelto quest’ultima anche per la sua tradizione sciamanica. In quel tipo di cultura la morte e altri aspetti della vita hanno letture differenti rispetto a come le vediamo noi in occidente. Ho pensato che potessero dare ai miei personaggi una caratterizzazione differente e interessante. Ma l’ho scelto anche perché ero stato in Mongolia nel 2007 : mia figlia minore aveva adottato un bambino a distanza e volevamo conoscerlo, sapere come era cresciuto.
Il ragazzino di strada che aiuta l’ispettore mi ha fatto pensare ai bambini che a Bucarest vivono nei sotterranei. Ad Ulan Bator l’emarginazione riguarda in modo particolare le madri single che non hanno nessun aiuto, anche quando hanno figli disabili. Ed è un fenomeno che riguarda solo la metropoli. Come nasce?
Quando i nomadi perdono gli animali non hanno più di che vvivere. Allora vanno nei sobborghi di Ulan Bator, dove gli viene assegnato un piccolo appezzamento di terra, 700 metri quadri, per mettere una tenda. I ragazzini delle famiglie che hanno perso i loro mezzi di sussistenza vanno nella metropoli in cerca di un modo per sopravvivere. Un po’ come i bambini di Bucarest, è vero. Quanto al mio Gantulga l’ho immaginato avendo a mente Gavroche dei Miserabili di Victor Hugo.
Ulan Bator con i suoi bassifondi e l’architettura sovietica non è solo uno sfondo nel romanzo. In che modo l’ideologia sovietica è intervenuta sovrapponendosi alla tradizione locale? Con quali effetti?
Dagli anni Venti i mongoli sono stati sotto il regime sovietico. E fino agli anni Novanta non sono più stati indipendenti.È  stata una dominazione molto forte da parte del regime sovietico. Dobbiamo ricordare che la Mongolia è  stata la prima ad essere annessa. Ai mongoli oggi non piacciano per niente i souvenir della Russia, Ulan Bator è una città dal triplice volto: c’è una parte sovietica, che i mongoli non amano, non l’hanno distrutta, ma lasciano così abbandonata a se stessa; un’altra parte di Ulan Bator ha l’aspetto di una capitale di un Paese emergente, con l’ambizione di fare soldi rapidamente. Vi svettano edifici molto moderni.  La terza parte della città ricorda che proprio in Mongolia è nato il terzo Dalai Lama, l’unico non tibetano. La stessa parola Dalai Lama, che significa “oceano di saggezza”, è di origine mongola. Curioso, anche perché in Mongolia non c’è il mare. È un nome che fu inventato per il terzo Dalai Lama e poi fu riattribuito ai primi  due ed è rimasto in uso. Si va riscoprendo il fatto che la Mongolia è stata un’ area importante per la filosofia buddista. Così oltre alla parte russa e a quella ultra moderna, c’è anche una parte della città che è luogo di ritrovo per i buddisti che non si fermano più solo a Katmandù.
I nomadi hanno una concezione dell’abitare e un modo di intendere i confini non come barriere che può insegnare qualcosa alla vecchia Europa che sempre più sembra voler alzare muri?
Non dobbiamo pensare alla Mongolia come a un paesaggio da cartolina. I nomadi, in realtà, non sono gente che vive tranquillamente in un paesaggio meraviglioso. Il loro è un modo di sopravvivere in un ambiente non facile. Non trovi popolazioni nomadi dove il contesto è accogliente,  li trovi dove sono costretti a spostarsi a causa di pericoli, come i terremoti ad esempio. Li trovi in Amazzonia  e nei deserti. Non fidarsi delle cartoline. L’altra cosa da dire è che dietro al nomadismo ci sia un’idea che la terra non appartiene a nessuno. Il nomadismo è il contrario: dice che la terra appartiene a tutti. Se la si pensa così non si lascia il terreno distrutto, saccheggiato, bisogna fare in modo che chi arriva dopo trovi il modo di sopravvivere. La nostra filosofia occidentale è piuttosto dell’idea che il territorio non è di nessuno, dal momento che lo sfruttiamo come se dopo di noi non ci sia più nessuno.
 La sua è una narrazione sconfinata, come si  sta sviluppando la sua trilogia di cui in Italia è uscito, per ora, solo il primo volume ?

Nel libro quando parlo del personaggio parlo anche della Mongolia, quando parlo del Paese parlo anche del protagonista. Yeruldelgger è come la Mongolia, sembra forte, indistruttibile, ma può sparire da un momento all’altro. La Mongolia davvero da qui a dieci o venti anni può collassare economicamente, politicamente, ma anche fisicamente perché è una delle zone più a rischio sismico.  Nella trilogia ho voluto provare a raccontare tre momenti diversi che si intrecciano, nella prima fase Yeruldelgger cerca di fare il meglio per il suo Paese riallacciandosi alla tradizione, in maniera positiva, senza rabbia, ma non ci riesce. Nel secondo volume il protagonista del racconto è arrabbiato con se stesso per non essere riuscito a non infuriarsi, per questo esigeva un terzo libro: per dare una prospettiva alla propria vita e a quella del Paese.  In Francia uscirà i primi giorni di ottobre.

#MexicoNosUrge, l’appello a Italia e Ue dopo il massacro dei maestri messicani

epa05393512 People protest with portraits of the so-called Ayotzinapa 43 outside the Public Attorney's Office in Mexico City, Mexico, 26 June 2016. The demonstration marks the 21 month anniversary of the mass kidnapping of 43 students from Ayotzinapa College, who went missing on 26 September 2014 in Iguala, Guerrero State, and was organized to raise awareness and general interest in the fate of the missing students. EPA/MARIO GUZMAN

Dopo la visita di Matteo Renzi, parte domani dal Messico anche il viaggio del presidente Sergio Mattarella in Sud America. La seconda economia dell’America Latina, però, assieme al Pil fa registrare una crescita costante delle violazioni dei diritti umani.

L’ultimo episodio riguarda Nochixtlán, nello stato meridionale di Oaxaca, dove il 19 giugno 13 persone sono state uccise a seguito di scontri con le forze dell’ordine, che hanno sparato ad altezza d’uomo. Le vittime sono i “maestri” del sindacato Coordinamento nazionale dei lavoratori dell’educazione (Cnte) e tanti manifestanti iscritti al sindacato sono stati feriti e arrestati.

Il sindacato protesta da mesi contro la riforma educativa che impone la valutazione dei docenti come condizione per l’accesso al lavoro. Due suoi leader erano stati arrestati la settimana precedente con l’accusa di corruzione.

A seguito di questi fatti, e in occasione della visita del Capo dello Stato, la piattaforma #MexicoNosUrge rinnova il proprio appello all’Italia e all’Unione europea per fare pressione al governo messicano e interrompere le relazioni diplomatiche in attesa di un cambiamento di rotta in tema di rispetto dei diritti umani.

L’APPELLO
#MexicoNosUrge AL FIANCO DEI MAESTRI E DELLE MAESTRE DELLA CNTE IN MESSICO

“Fondamento dell’accordo. Il rispetto dei principi democratici e dei diritti umani fondamentali, così come si enunciano nella DichiarazioneUniversale dei Diritti Umani, ispira le politiche interne e internazionali delle parti e costituisce un elemento essenziale del presente Accordo.”
Art. 1 trattato di libero commercio tra il Messico e l’UnioneEuropea

Un anno dopo siamo ancora qui a dire #MexicoNosUrge

Dopo gli omicidi del foto giornalista Rubén Espinosa, dell’attivista Nadia Vera, della studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di altre due donne che si trovavano con loro, Mile Virginia Martin e Alejandra Negrete, avvenuti a Città del Messico venerdì 31 luglio 2015, l’appello #MéxicoNosUrge volle rompere il silenzio. Perché non si può rimanere in silenzio di fronte alle violenza nei confronti di chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese, il Messico, che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale. Rimanere in silenzio sarebbe una forma di complicità.

Un anno dopo, nel giugno del 2016, torniamo a urlare che #MéxicoNosUrge, dopo che domenica 19 maggio nello Stato di Oaxaca abbiamo assistito al massacro di 10 cittadini. La Polizia Federale è tornata a reprimere la lotta degna dei maestri e delle maestre del sindacato CNTE che lottano contro la riforma educativa. Pistole, fucili di precesione e cecchini hanno operato assieme alla polizia in assetto anti-sommossa, per sgomberare uno dei tanti blocchi stradali che dal 15 maggio batte il tempo della resistenza contro la svendita e la distruzione della scuola pubblica messicana. A maggio avevamo celebrato il decimo anniversario dalla nascita dell’Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca, figlia dello sgombero violento di un presidio di maestre e maestri della CNTE nella capitale dello stato di Oaxaca. Negli ultimi mesi sono a decine gli arresti “politici” che colpiscono aderenti della CNTE e simpatizzanti. Già a dicembre 2015, in Chiapas, due maestri sono stati uccisi dalla Polizia durante gli scontri.

Nel maggio del 2016 sono stati ricordati,anche, i dieci anni dal massacro di San Salvador Atenco. Una Commissione Civile di Osservazione dei Diritti Umani -i cui componenti erano cittadini europei- nel giugno del 2006 ha presentato al Parlamento Europeo un rapporto sui fatti e sulle gravi violazioni dei diritti umani in relazione allo sgombero forzato di una comunità per costruire il nuovo aeroporto di Città del Messico in una zona ejidal (cioè di proprietà collettiva) dello Stato del Messico.

La mattanza di Nochixtlan inauguara una nuova fase nello schema repressivo messicano: la polizia spara sulla folla uccidendo e la stessa polizia si rivendica di aver usato armi da fuoco. Non era mai successo prima.

Negli ultimi dieci anni, infatti, la situazione si è fatta se possibile ancora più grave, con decine di migliaia di sparizioni forzate, violenza sistematica contro chi vuole difendere e promuovere i diritti umani, contro attivisti dei movimenti sociali e contro i giornalisti e fotografi che documentano la condizione di violenza strutturale scelta come forma di“politica attiva” dai governi di Felipe Calderón, prima, e di Enrique Peña Nieto (che nel 2006 era governatore dello Stato del Messico durante i fatti di Atenco), ora.

Tra gli attivisti e giornalisti minacciati e perseguitati ci sono anche cittadini italiani ed europei; tra le vittime ci sono anche cittadini italiani ed europei (come il finlandese Jyri Antero Jaakkola,assassinato dai paramilitari nello stato del Oaxaca nel 2010).

In questo panorama di violenza diffusa e repressione contro i civili ricordiamo la sparizione forzata dei 43 studenti della Escuela Normal Rural di Ayotzinapa, avvenuta la notte del 26 settembre del 2014 nella città di Iguala, stato del Guerrero, in cui sono coinvolti la polizia municipale di Iguala ed elementi dell’esercito messicano.

Il 30 giugno 2014 l’esercito messicano, con un ordine scritto dall’Alto Comando Militare, fucilava 22 ragazzi in un’esecuzione extragiudiziale, una delle tante esecuzioni extragiudiziali portate a termine dall’esercito che ha l’ordine di “abbattere” civili considerati delinquenti senza alcun diritto ad avere un processo.
L’ONU ha recentemente spiegato come in Messico la tortura sia un metodo utilizzato in maniera sistematica negli interrogatori da tutte le forze di sicurezza.

Tutto questo accade nel silenzio della cosiddetta “comunità internazionale” e l’Unione Europea di fatto si disinteressa dei crimini dello stato messicano, continuando a mantenere relazioni commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani.

Tra il 2007 e il 2016 in Messico ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila persone. Organizzazioni dei diritti umani dicono che se oggi venisse fatto un conto di morti e desaparecidos i numeri andrebbero verso il raddopio.

A fronte di tutto questo l’indifferenza dei grandi mezzi di comunicazione internazionali è impressionante e complice.

Per tutto questo, #MexicoNosUrgee non possiamo rimanere in silenzio.

Chiediamo che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico, in particolare per le costanti aggressioni ai giornalisti e difensori dei diritti umani.

Chiediamo all’Italia e all’Unione Europea che si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I Paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini.

Per aderire scrivere a [email protected]

Migranti, recuperato il relitto della strage 2015. Oggi sono morte 10 donne

E' stato recuperato il relitto del peschereccio inabissatosi il 18 aprile 2015, nel naufragio in cui morirono circa 700 migranti, considerata la più grande tragedia nel Mediterraneo fra i viaggi della speranza, a largo della costa della Libia. ANSA/MARINA MILITARE +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Una nuova strage nel Canale di Sicilia. Nello stesso giorno in cui viene recuperato il peschereccio affondato il 18 aprile 2015 che costò la vita a 700 migranti, dieci donne muoiono nell’affondamento del gommone sul quale viaggiavano. Il naufragio è avvenuto a circa 20 miglia dalle coste libiche. Una richiesta di soccorso è arrivata alla Guardia costiera italiana che ha inviato la nave Diciotti.

Quando la nave è arrivata nel punto segnalato, l’equipaggio ha trovato il gommone semiaffondato e molte persone in acqua, tra i quali anche dieci donne ormai senza vita. Il gommone trasportava molti migranti, ne sono stati salvati 107, fra cui donne e bambini. Non si escludono altre vittime, la nave Diciotti infatti sta cercando dispersi, mentre invece è andata bene ai 117 migranti che si trovavano su un’altra imbarcazione in difficoltà. Le condizioni del mare, al momento del naufragio, erano pessime, il mare forza 3, il vento a 30 nodi e onde alte due metri.
Il relitto del peschereccio affondato il 18 aprile – la più grande tragedia nel Mediterraneo – è arrivato nel porto di Augusta. Dentro ci sono ancora 500 cadaveri, rimasti per oltre un anno alla profondità di 370 metri. Verranno recuperati e identificati, ma soprattutto verrà data loro una sepoltura.
Rispetto al 2015, questi primi mesi del 2016 hanno fatto registrare un numero maggiore di vittime. Secondo i dati dell’Alto commissariato delle Naizioni Unite per i rifugiati, al 31 maggio le vittime dei naufragi nel Mediterraneo sono stati 2.510, mentre nello stesso periodo del 2015 erano 1.855.

Istanbul, dopo l’attentato blitz contro presunti jihadisti

epaselect epa05397829 Relatives of Umut Sakaroglu, a custom officer at Ataturk Airport who was killed in the attacks on 28 June, mourn during a funeral in Istanbul, Turkey, 29 June 2016. At least 41 people were killed and more than 239 others were wounded in three separate gun and bomb attack outside and inside the terminal of Istanbul's Ataturk international airport on 28 June, media reported quoting officials. The attacks have been linked to either the Islamic State (IS) militant group or Kurdish separatists, media added. EPA/SEDAT SUNA

La polizia di Istanbul ha condotto una serie blitz in città contro sospetti militanti dello Stato islamico. Mentre il Paese dichiara una giornata di lutto nazionale, le forze dell’ordine hanno perquisito diversi indirizzi nei quartieri Pendik, Başakşehir e Sultanbeyli ma non è chiaro se sono stati effettuati arresti. L’agenzia Anadolu, nel dare la notizia, spiega che non ci sono conferme del legame diretto con l’attentato all’aeroporto Ataturk, uno dei più trafficati al mondo con 42 milioni di passeggeri l’anno, in cui hanno perso la vita 42 persone e oltre 230 sono rimaste ferite.

In un’altra operazione, il 25 giugno, fa sapere la stessa agenzia, le forze di sicurezza hanno ucciso due presunti militanti dello Stato islamico al confine con la Siria. Si tratterebbe di due cittadini siriani che attraversavano illegalmente la frontiera e hanno ignorato l’alt delle forze dell’ordine. Uno dei due militanti era ricercato in Turchia, perché sospettato di voler effettuare un attacco suicida nella capitale Ankara o nella città meridionale di Adana.

Quello di martedì scorso ad opera di tre attentaotri suicidi è il decimo attacco terroristico subito dalla Turchia in meno di un anno. Modalità operativa degli attentarori e scelta dell’obiettivo – dicono gli analisti – fanno pensare che sia opera dello Stato islamico, dalle cui fila non è ancora gunta alcuna rivendicazione dell’attacco. La mente va all’attentato all’aeroporto di Bruxelles, a tutti i luoghi dove gli attentatori hanno colpito persone di diverse nazionalità e al tempo stesso l’economia e il turismo. Non a caso, il direttore della Cia John Brennan ha dichiarato: «Ci sono i segni distintivi della depravazione dello Stato Islamico».

Intanto dalla Siria arriva la notizia di un convoglio con almeno 250 combattenti dell’Isis uccisi in un raid Usa poco fuori Falluja. Sarebbero 40 i veicoli distrutti mentre si dirigevano probabilmente verso al-Qaim, città ancora controllata dai jihadisti, dopo che Falluja è stata liberata al termine di 5 giorni di assedio dell’esercito iracheno e della coalizione internazionale. L’attacco agli uomini dle Califfato in fuga dalla città segna una svolta nella lotta all’Isis, i cui militanti erano quasi sempre usciti indenni scappando per tempo dalle città sotto attacco.

epa05397160 An armed Turkish policeman patrols behind a police line after multiple suicide bomb attacks at Ataturk international airport in Istanbul, Turkey, 29 June 2016. At least 36 people were killed and more than 140 others were wounded in three separate gun and bomb attack outside and inside the terminal of Istanbul's Ataturk international airport on 28 June, media reported quoting officials. The attacks have been linked to either the so-called Islamic State (IS or ISIS) militant group or Kurdish separatists, media added. EPA/SEDAT SUNA
La polizia presidia l’aeroporto di Ataturk di Istanbul dopo l’attentato. EPA/SEDAT SUNA

L'interno dell'Aeroporto di Istanbul in seguito all'attentato suicida dei tre kamikaze nel quale 41 persone hanno perso la vita, e 240 rimaste sono rimaste ferite, Istanbul, 29 Giugno 2016. ANSA/ VINCENZO CHIUMARULO
L’interno dell’Aeroporto il 29 giugno. ANSA/ VINCENZO CHIUMARULO

L'interno dell'Aeroporto di Istanbul in seguito all'attentato suicida dei tre kamikaze nel quale 41 persone hanno perso la vita, e 240 rimaste ferite, Istanbul, 29 Giugno 2016. ANSA/ VINCENZO CHIUMARULO
L’interno dell’aeroporto. ANSA/ VINCENZO CHIUMARULO

A Rio 2016 c’è anche Bebe Vio. E il suo coraggio di combattere nonostante la paura

19 anni, capelli corti biondi e occhi blu che svelano come uno spiraglio la tenacia e la forza che ha permesso a Bebe Vio di diventare una campionessa e di gareggiare fra poco più di un mese alle Olimpiadi di Rio. Soprattutto di non arrendersi, di continuare a combattere a testa alta anche dopo quel fatidico 2008, anno in cui è stata colpita da una meningite fulminante che le causò un’estesa infezione ad avambracci e gambe per cui si rese necessaria l’amputazione.

«Ho sempre saputo che avrei continuato a fare scherma. Quando l’ho chiesto ai dottori, dopo la malattia, mi hanno sputato in un occhio. Quando l’ho chiesto a quelli delle protesi si sono messi a ridere, però io fin da subito ho capito, e sapevo, che sarei riuscita a riprendere la scherma». E così è stato. Senza discussioni, né tentennamenti. Senza dubbio alcuno. «Non mi sono mai chiesta come avrei potuto farlo a livello pratico. Pensavo solo “Io voglio fare scherma”. Nient’altro. In fin dei conti quando vuoi fare veramente una cosa, non ti poni nemmeno il dubbio su come farla, ma la fai e basta».

Forse ciò che più colpisce e disarma di Bebe Vio, è proprio questo: la sua determinazione, la sua incrollabile certezza e tenacia nel rialzarsi sempre, malgrado momenti difficili e dolorosi. E la sua disinvoltura nel farlo.
«Credo, alla fine, che i problemi, grandi o piccoli, li abbiamo tutti. A fare la differenza è solo il tipo di reazione», ha dichiarato di recente in un’intervista. Ed è proprio la capacità di reazione ad aver permesso a Beatrice Vio, per tutti “Bebe”, classe 1997, di diventare campionessa del mondo nei giochi paralimpici di scherma. Il titolo se l’è guadagnato a Eger, in Ungheria, e a breve partirà per Rio per rappresentare l’Italia alle Olimpiadi.
All’età di undici anni fu colpita da meningite fulminante. Malattia che, oltre ai più di cento giorni di degenza ospedaliera, le causò una grave ed estesa infezione con conseguente necrosi agli arti inferiori e superiori, di cui si rese necessaria l’amputazione. Un duro colpo per Bebe, come del resto per ogni ragazzina di quell’età, che però, contro ogni pronostico medico, ha continuato a imbracciare il suo fioretto e a combattere. Anche se in modo diverso da prima.
Il suo primo incontro con la scherma risale a quando aveva solo 5 anni: «Ero in una palestra a vedere una partita di pallavolo, ma mi stavo annoiando terribilmente. Decisi di uscire e di entrare in un’altra palestra, che aveva porte e finestre aperte. Entrando vidi tutti questi zorri bianchi e mi sembrava il paradiso. Mi sedetti a guardarli estasiata per un tempo indefinito, fin quando un omone grande e grosso, che è poi diventato il mio primo maestro, non mi ha chiesto di provare. È stato amore a prima vista».

Un amore che a tutt’oggi dura e che, nel corso degli anni è stato costretto a svolgersi in due tempi: una prima fase in piedi e la seconda in carrozzina.
Lei le chiama la sua prima e la sua seconda vita, e la cosa sembrerebbe non turbarla affatto. Anzi. «Preferisco e mi piace sempre di più tirare di scherma in carrozzina perché non posso avere paura». Ha le idee chiare Bebe, e continua: «Se stai piedi hai tutta una pedana lunghissima a disposizione e se hai paura puoi prendere e scappare, arretrare, ragionare e farti avanti se ci riesci, mentre in carrozzina no: stai inchiodato lì, sei all’altezza dell’avversario, a cui è sufficiente allungare il braccio per colpirti, e, soprattutto, non puoi muoverti. Per cui devi farti avanti e affrontare chi ti sta di fronte, facendogli capire che, anche se sei più piccola, sei tu la più forte».

Sentendola parlare viene da chiedersi se Bebe non abbia mai paura di fronte a un avversario. «Un po’ di paura c’è sempre in realtà – ribatte convinta – il segreto è riuscire a trasformarla in una sensazione positiva. Se non hai paura – spiega – non va bene, perché vuol dire che non temi l’avversario e che lo sottovaluti. Se tu invece lo vedi, riesci a trasformare quel po’ di paura che hai all’inizio in voglia di vincere, di farcela». E aggiunge: «Se invece hai paura di aver paura, sei spacciata. Nella scherma se non ci sei con la testa, non combini nulla.». È saggia Bebe, soprattutto per la sua età: solo diciotto anni. Al momento è alle prese con la maturità, e fra un mese la aspetta un’altra grande prova: le Olimpiadi di Rio dove rappresenterà l’Italia.

«È fattibile, è fattibile», afferma scherzando sul peso dei suoi impegni. «Tirare di scherma senza braccia – racconta ancora Bebe – è un po’ come pretendere di correre senza gambe. Solo che poi vedi le gambe di Pistorius, che sono bellissime, e ti accorgi che con quelle puoi correre, partire e andare dove vuoi. Anche per me è stato così: mi hanno dovuto creare una protesi ad hoc per tenere il fioretto, ma è sufficiente quello per poter praticare la scherma. E – prosegue – la protesi, così come le gambe per correre e camminare, la carrozzina per tirare, l’ho avuta grazie all’associazione».

L’associazione di cui parla Bebe è Art4Sport, una onlus fondata nel 2009 dalla sua famiglia che si impegna a raccogliere fondi per fornire protesi, carrozzine e tutto il necessario ai ragazzi amputati che desiderano comunque praticare uno sport. Inutile dire che, ogni anno, sempre più ragazzi si avvicinano ad Art4Sport. «È bellissimo vedere questi ragazzi che cambiano, diventano sicuri di sé, non hanno più paura di mostrarsi, di mostrare le protesi, e scoprono possibilità che prima nemmeno sapevano di avere», confida Bebe al telefono, tradendo un piccolo tremolio nella voce.

«Ci sono tanti ragazzi che non ci pensano, che non sanno di avere queste possibilità perché, semplicemente, non hanno mai visto nessun altro farlo. È infatti questa l’importanza dell’associazione: far vedere a qualcuno che ha passato le tue stesse cose che si può fare, che non è impossibile. Gli dai così la forza per poter dire “Bene, allora posso farlo anch’io”». Ecco, è allora questo il segreto: niente è impossibile, basta volerlo. E magari si arriva anche a gareggiare alle Olimpiadi. Perché alla fine quello che conta, più delle braccia e anche più delle gambe, è il cuore. Parola di Bebe Vio.

«Waterboarding? Fantastico!». Trump adora la tortura ma ha guai con donazioni e sondaggi

«Il Waterboarding? Lo adoro, ma penso che non sia duro abbastanza». A parlare, rispondendo a una domanda gridata dal pubblico, è Donald Trump, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti. Trump era in Ohio per un comizio e stava parlando dell’attentato di Istanbul. Trump fa riferimento alla tecnica di interrogatorio per la quale la testa dell’interrogato viene tuffata sott’acqua. Una tortura, bandita negli Stati Uniti dal 2006, dopo, appunto, che vennero fuori in serie, prima le foto di Abu Ghraib e poi i dossier sulle modalità di interrogatorio utilizzate dall’intelligence americana contro i sospetti di terrorismo in giro per il mondo.

L’idea di Trump è che si risponda alle decapitazioni dell’Isis, non con lo Stato di diritto, ma con la mano pesante. Che in Iraq e Afghanistan ha funzionato benone. «Loro fanno quel che vogliono, dobbiamo farlo anche noi» è il concetto. Difficile dire se dopo anni di discussioni, notizie scioccanti e un dibattito giuridico prolungato gli americani si berranno l’idea che la tortura serva davvero a qualcosa. Trump, tra l’altro, sembra pensarla come strumento punitivo, non di intelligence: quando dice «loro decapitano e fanno quel che vogliono» sembra appunto dire “facciamogli male anche noi”.

Durante lo stesso comizio Trump ha promesso di avviare una guerra commerciale con la Cina. Il voto dei britannici sul Brexit, in questo senso gli da ragione: c’è una parte della classe media e lavoratrice bianca che non vuole più la globalizzazione. Ne parla anche Bernie Sanders su un editoriale sul New York Times, proprio facendo riferimento al Brexit: «L’idea che Donald Trump possa beneficiare delle stesse forze che hanno concesso ai sostenitori del “Leave” in Gran Bretagna dovrebbe far suonare un allarme per il partito democratico. Milioni di elettori americani, come i sostenitori del Leave, sono comprensibilmente arrabbiati e frustrati dalle forze economiche che stanno distruggendo la classe media». Sanders fa appello all’introduzione di nuove norme di commercio internazionale più eque e suona un campanello d’allarme vero per i democratici. Clinton – e la presidenza del marito – sono stati campioni dei trattati commerciali, dal Nafta in giù. E non è un caso che tra i possibili vicepresidenti di Hillary ci siano Elizabeth Warren e Sherrod Brown, senatori della sinistra che come Sanders parlano alla classe lavoratrice bianca.

Trump non ha solo un problema di immagine politica e di sparate eccessive che piacciono alla base ma spaventano gli elettori medi. E ha un problema di risorse. E poi di sondaggi. Di oggi la notizia che la campagna del miliardario newyorchese, tragicamente indietro nella corsa per le donazioni – cruciali per vincere le elezioni, per pagare spazi Tv, per organizzare i volontari – ha accettato soldi da cittadini non americani. Non solo, li ha anche chiesti con delle email. Due cose vietate dalle leggi sul finanziamento delle campagne. E nei sondaggi è indietro di una media di sei punti percentuali – con alcuni che registrano un distacco da Clinton di 12 punti.
Pessima l’immagine di Trump anche nel mondo. I risultati di un sondaggio del Pew Research Centre sono illustrati in breve dall’immagine qui sotto. Si tratta di una indagine globale e segnala come solo il 9% degli interrogati abbia fiducia in Trump, contro il 77% in Obama e il 59% per Clinton. Non è un sondaggio che conta, ma è un pessimo segnale per gli Usa. Il miliardario piace più a cinesi e italiani che a tutti gli altri.

Europeans express confidence in Obama and Clinton, but not Trump
No confidence in Donald Trump

Renzi prende tre sberle. Caffè del 30 giugno

Banche, Onu e Migranti: Renzi prende tre sberle, scrive il Fatto Quotidiano. È vero o non è vero? Sulle banche, toni a parte, concordano tutti. “Merkel frena Renzi”, Repubblica. “Sfida sulle banche tra Roma e Berlino”, Corriere. Ricordo i fatti: le banche italiane sono in sofferenza, come si vede -se non altro- dall’andamento della borsa di Milano, e il governo vuole “salvarle”. Lo farebbe con soldi dei contribuenti italiani ma chiede all’Europa di poter infrangere la regola del bail in, secondo cui prima che uno stato paghi, devono pagare, se non i piccoli correntisti, almeno gli azionisti e i possessori di obbligazioni. Il governo teme di essere travolto dalla rabbia dei piccoli investitori sul lastrico. Merkel risponde: “non cambiamo le regole ogni due anni”, la Stampa. Quale sia la replica di Palazzo Chigi si evince dalla prima pagina del Sole24Ore: “banche tedesche vulnerabili”, secondo un rapporto del Fondo monetario internazionale. Vulnerabili perché hanno in pancia più derivati di quanto non ne abbiano le italiane. Mal comune mezzo gaudio? Non vedo il gaudio: un intervento europeo su tutte le sofferenze bancarie, che venisse a sommarsi a quel che già fa la BCE, dandogli denaro a tassi negativi, avrebbe un impatto fortissimo sulle finanze pubbliche e sulla pubblica opinione. Perciò Merkel preferisce lasciare sulla graticola gli istituti troppo piccoli e per niente competitivi: il bail in può essere considerata una regola ingiusta, se si ammette -come è vero- che molti investitori siano stati truffati, ma nell’idea tedesca, frena una condotta ancora più discutibile: quella per cui paga sempre Pantalone, cioè lo stato. Per quanto riguarda il consiglio di sicurezza dell’ONU, l’Italia puntava al seggio ma ha ottenuto un mezzo seggio, se lo dovrà spartire con l’Olanda. E sugli aiuti per i migranti, un altro rinvio.

Al capezzale di Berlusconi. Sallusti, direttore del Giornale, fa intervistare Luigi Di Maio, candidato premier in pectore dei 5 Stelle. Ecco il titolo: “Noi grillini e gli elettori moderati, quante affinità su tasse e migranti”. Messaggio chiaro: meglio unirsi al diavolo che sottostare al Renzi. “Berlusconi ritorni alla politica e aiuti il governo” dice invece alla Stampa Felice Confalonieri. Intanto Alfano vorrebbe convergere su un candidato comune di tutto il centro destra per le elezioni del successore di Crocetta, elezioni previste in Sicilia nel 2017. Intanto (sempre Alfano) promette crisi di governo se Renzi non cambierà l’Italicum.

Cambi all’Italicum, il premier apre, assicura l’oracolo della retroscenista Maria Teresa Meli. Solo che, come talvolta succede, il responso dell’oracolo è, questa volta, piuttosto confuso. Renzi cambierebbe, ma solo dopo la vittoria dei sì al referendum. Purtroppo (per la Meli) Sinistra Italiana ha ottenuto che già la Camera discuta a settembre (prima del referendum) una sua mozione sull’incostituzionalità della legge elettorale. Così la polemica scoppia ora e non sarà facile rinviare le scelte per non disturbare il voto referendario. Gotor, voce dei bersaniani, dice a Repubblica che “quel sistema (dell’Italicum, cioè premio di maggioranza e ballottaggio per il premier, capolista bloccati) va completamente rifatto”. Ceccanti, uno dei più disastrosi consiglieri delle sgangherate riforme Renzi, dice invece alla Stampa che “cambiare sarebbe suicida, darebbe ai grillini la patente di vincenti”. Cioè si oppone anche alla modifica più ridotta, quella che consentirebbe ai partiti di coalizzarsi in vista del secondo turno, per provare a tener lontano da Palazzo Chigi il movimento 5 Stelle che fin qui, ha sempre escluso accordi coi partiti. Renzi, tirato da una parte e dall’altra, vorrebbe prima un appoggio di tutti, della minoranza Pd, del centro destra di governo, di Ala, di parte dei berlusconiani, al Sì alla riforma del Senato. Per poi discutere, dopo la vittoria sua e della Boschi, da posizioni di forza. Intanto ripete: se perdo il referendum vado via.

Ballare coi lupi, l’errore di Erdogan, è il titolo di un articolo di Roberto Toscano su Repubblica. I lupi sono i terroristi islamisti. Chi ha provato a ballare coi lupi è il sultano Erdogan. Sbagliando, finendo in una guerra contro Assad che non può vincere perché né russi né americani vogliono che la vinca, esponendo il suo paese e l’aeroporto internazionale Ataturk, snodo per i turisti del mondo intero, alle rappresaglie dei terroristi vestiti di nero che si sentono traditi da una Turchia che ora dialoga con israeliani e russi e non può più rifornirli impunemente di armi in cambio di petrolio. Condivido. Mi chiedo, però, quanto i lupi si siano fatti strada nei gangli vitali del protettore turco. Perché se l’ordine dell’ultimo attentato non fosse partito direttamente da Raqqa ma da Ankara, da un pezzo dello stato turco intriso di ideologia islamista e colluso nei traffici del Daesh, la situazione sarebbe perfino peggiore e la Turchia potrebbe scivolare verso una guerra civile generalizzata.

Per fare l’albero ci vuole un fiore, per la riforma il referendum

Ma dai, ma davvero? Quando l’ho visto ammetto di avere pensato ad uno scherzo e non tanto per il messaggio in sé (arrivano sms di qualsiasi tipo da qualsiasi azienda, non scandalizziamoci per così poco) ma soprattutto per la forma. Perché le parole contano. Le parole sono importanti e, come diceva spesso una delle mie direttrici preferite, chi scrive male pensa male. Non c’è che dire.

Così quando ho letto il messaggio che il Partito Democratico ha inviato a molti italiani (a proposito: costa poco, un’interrogazione scritta, per sapere in base a quale iscrizione e con quali autorizzazioni) mi sono soffermato sulla prosa. Soffermato, inchiodato. Gelato forse. Sì Meglio.

«Per fare la riforma ci vuole il referendum, per fare il referendum la tua firma conta. Se non l’hai ancora fatto, puoi andare nel tuo comune e firmare il modulo blu del comitato Basta un sì. Lorenzo Guerini.»

Secondo Lorenzo Guerini (o chi per lui, e se si tratta di un ghost writer mio dio licenziatelo in fretta) dalla nostra firma dipende la riforma Boschi. Altro che democrazia diretta; qui di direttissimo c’è un messaggio che arriva come una spada di Damocle. Già si immaginano le scenette famigliari: “amore scappo in comune perché sto facendo saltare la riforma costituzionale!”, oppure un “mi scusi per il ritardo ma avevo un fine settimana al mare in famiglia e non pensavo di rallentare le riforme”. E fa niente se in fondo il referendum si farà comunque al di là delle firme raccolte (che come scrive Guerini “contano” nel senso che sono un euro l’una per ogni voto poi preso come ricco montepremi elettorale), l’importante è entrare nella testa. Rimanere in mento. Essere un motivato che si ricorda facilmente.

Dopo la politica dentro un tweet siamo all’industria della propaganda pubblicitaria. E come nella pubblicità più banale c’è un’orma di ritmo (che ricorda l’albero per fare il legno e che ci vuole il fiore e tutto il resto) e un messaggio alla cazzo da rovesciare in testa ai telespettatori. In questo caso telefonatori. Sparato nel mucchio. Che verrebbe da chiedere se non si sia un po’ esagerato con la semplificazione contro i gufi professoroni costituzionalisti o se davvero il grande capo Guerini pensa di essere il pastore di una folta mandria di piccoli (e ingenui) indiani.

Tenetelo in tasca quando vi dicono degli altri che sono eterodiretti. Oppure quando vi dicono che bisogna stare nel merito. Oppure ogni volta che sentite puzza di esibita superiorità culturale. Tenetelo in tasca.

Buon giovedì.

Cosa sappiamo della strage all’areoporto di Istanbul

La tecnica del commando somiglia a quella usata spesso da Daesh: si arriva, si apre il fuoco e, solo poi, ci si fa esplodere in aria o si fanno esplodere bombe. Il 22 marzo scorso era toccato all’aeroporto di Bruxelles, ieri all’Ataturk di Istanbul. Tre persone armate di kalashnikov sono entrate nel terminal, hanno aperto il fuoco e fatto esplodere bombe o si sono fatti esplodere – in un video si vede un attentatore colpito rimanere a terra qualche secondo e poi farsi esplodere. Risultato, 36 morti e 147 feriti. L’ennesima strage per una Turchia che da mesi è attraversata da crisi interne e regionali che portano la morte nelle città del Paese. Attentati curdi e dell’Isis e poi chissà che ruolo degli apparati di sicurezza, che in Kurdistan curdo hanno compiuto efferatezze e rappresaglie anche contro la popolazione civile accusata di sostenere i ribelli del Pkk.

Il momento dell’esplosione (attenzione, le immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità)

Il caos dei momenti successivi in un filmato AP

Stavolta però, così ritengono le autorità di Ankara, l’attacco terroristico viene dall’Isis, che colpisce dove può e quando può, specie in Paesi dove la situazione è instabile. Proprio come in Turchia, che in questi anni è  testimone e attore della guerra in Siria e anche destinazione di milioni di profughi in fuga da quel Paese.

L’attacco all’aeroporto è il terzo attentato suicida dell’anno nella città vetrina del Paese e provocherà un danno incalcolabile all’economia. Non solo cresce l’instabilità e aumenta la tensione interna, ma colpisce in maniera mortale il turismo, che pesa per quasi il 5% del Pil.

A maggio il numero di arrivi  è diminuito del 34,7% rispetto all’anno scorso. E’ il più grande calo in 22 anni, causato dalla tensione interna e dai pessimi rapporti con la Russia – frutto avelenato della tensione attorno alla Siria e all’abbattimento dell’aereo civile di Mosca. L’attentato di ieri è un colpo alla stagione turistica.

La reazione del presidente Erdogan è ovviamente furiosa: «Quelle bombe sarebbero potute esploder in qualsiasi areoporto, questo deve essere un momento di svolta nella guerra al terrorismo», ha detto. Tutti i capi di Stato, dagli Usa all’Europa hanno solidarizzato con la Turchia. Tre giorni fa il governo di Ankara e quello israeliano avevano siglato un accordo che riporta le relazioni tra i due Paesi verso la normalità – dopo la vicenda della Mavi Marmara e della Freedom flotilla. L’attentato non va messo in relazione con il nuovo corso diplomatico, ma l’Isis, se e quando rivendicerà l’attentato, potrebbe fare riferimento alla questione per propaganda.