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Strage a Istanbul ed effetto Brexit. Caffè del 29 giugno

Colpiamo Costantinopoli, da Repubblica. Nell’immaginario dell’Isis, come in quello di Al Wahhab, vissuto nel secolo dei lumi ma in medio oriente, il tempo si è fermato mille e più anni fa. Erdogan, il sultano, che vendeva armi all’Isis in cambio di petrolio e combatteva i loro nemici curdi in Siria e in Iraq, ha tradito. Ora porge la mano a Israele e scrive una lettera di scuse a Putin, per avergli abbattuto un aereo. Ecco che che Istanbul ritorna Costantinopoli e gli assassini in nero si presentano a uno dei metal detector posti fuori dall’aeroporto Ataturk. Scoperti, prendono a sparare sulla folla, poi un kamikaze, già quasi immobilizzato dalle guardie, si fa saltare: 36 morti, oltre 100 feriti. È la vendetta dei terroristi costretti a lasciare Fallujah. Ora i musulmani ricchi o del ceto medio abbiente che portavano le loro mogli, totalmente velate, in vacanza premio sul Bosforo, ora sanno di essere anche loro nel mirino. Il nuovo governo turco combatterà sul serio, a questo punto, il terrorismo islamico o continuerà a usarlo contro il nemico curdo e il pario di Demirtas?
Mario Draghi protettore d’Europa. Quasi riflettendo ad alta voce, il presidente della BCE ha proposto 5 linee d’azione per salvare Europa ed europei dopo la Brexit. 1) Fare tutto ciò che serve per la stabilità dei prezzi: la BCE continuerà a stampare euro e a comprare titoli del debito fin quando saremo in deflazione. 2) Scambiare più informazioni e coordinare le banche centrali in modo che possano intervenire, se non un momento prima delle crisi finanziarie, almeno subito dopo. 3) Proteggere le banche ed evitare che falliscano. Qui Draghi dà una mano al nostro governo che vuole evitare, con denaro pubblico, che si ripeta il caso di Banca Etruria e perciò chiede di non sottostare al bail in, cioè all’obbligo di tosare i detentori di obbligazioni bancari in caso di fallimenti pilotati. 4) Tagliare le tasse solo in favore di nuovi investimenti. No, dunque a tagli come quello dell’IMU, sì ad aiutare chi crea lavoro. Pare che Renzi abbia capito: “Tasse, virata di Renzi” scrive la Stampa: prima gli investimenti poi i tagli (elettorali?). 5) Adattare l’Unione ai cambiamenti richiesti dai cittadini: insomma renderne le sue istituzioni più rappresentative ed evitare referendum come quello britannico, scaricando le responsabilità sugli elettori per poi dirgli “ma che avete fatto?”.
Corbyn sfiduciato. Ieri il leader del New Labour è stato spinto alla porta da 172 parlamentari del suo stesso partito che gli hanno votato la sfiducia, Solo in 40 lo hanno sostenuto. L’accusa è di non aver difeso con abbastanza energia la tesi del Remain. L’idea sottostante è che operai e ceto medio deluso non voteranno più Labour. Dunque non serve il vecchio Corbyn. Meglio cercare nuovi leader, sufficientemente liberisti da allacciare rapporti con la City che per ora resta ostile alla “nuova” destra di Johnson e Farage, ma anche capaci di parlare ai giovani pro Europa e al popolo delle città, che ha votato Remain. Corbyn però resiste, convinto che la base del partito lo appoggerà e che sono le scelte sul welfare e il contrasto del capitale finanziario le caratteristiche che definiscono un vero partito di sinistra. Certo, i laburisti sembrano usciti a pezzi da Brexit, quanto i Tory.
In Spagna, Iglesias riflette, Su quel che ha fatto in pochi anni. Ha trasformato un movimento che muoveva dagli indignados, prima in una forza della protesta “né di destra né di sinistra”, poi nel collante di coalizioni che hanno vinto e governato nelle città più importanti come Madrid e Barcellona, infine in un movimento che ha scelto di allearsi con Izquierda Unida, ex comunisti, per puntare al governo del paese puntando a trascinarsi dietro la “vecchia” socialdemocrazia, cioè il Psoe. Troppo in troppo poco tempo! La coalizione Unidos – Podemos ha ottenuto oltre 5 milioni di voti, ne ha perso per strada un milione. Probabilmente a favore dell’astensione, che è cresciuta del 5% rispetto al voto di dicembre. Alcune analisi del voto dicono che i giovani, fra i 18 e i 24 anni avrebbero tradito, questa volta, Iglesias, altre mostrano che una parte di chi aveva votato le alleanze con Podemos nelle principali città, non ha sostenuto Unidos Podemos alle politiche. Non è strano: nelle città, infatti, il movimento di Iglesias aveva costruito alleanze molto larghe e molto movimentiste, che possono non essersi ritrovate nell’accordo con Izquierda Unida e in prospettiva coi socialisti. La alcadessa di Madrid, Manuela Carmena dice: “Io sono un sindaco indipendente, il comune non ha partecipato alle elezioni e io non ho fatto campagna elettorale”. A Madrid 100 mila voti sono mancati  domenica a Unidos Podemos.
L’effetto Brexit spiana l’Italicum e consiglia prudenza sul referendum costituzionale. “Italicum, il premier fa dietrofront” scrive la Stampa. Ora intende aprire alle forze del centro e della destra che chiedono la possibilità di coalizzarsi tra primo e secondo turno. Non più “basta inciucio, chi vince comanda” ma un premio a chi meglio sa coalizzare. Ovviamente sperando di mettere nell’angolo i 5 Stelle che tengono alla loro solitaria purezza. Quanto al referendum, scrive Sabino Cassese, per il Corriere: “Dal referendum inglese c’è una lezione che possiamo trarre per l’Italia. Il referendum è un esempio di «single issue politics». Con esso si chiede al popolo una cosa sola. Caricarlo di altri significati, facendolo diventare una decisione su problemi complessi, ne snatura la funzione e sottopone a sentimenti, umori, ideologie collettivi compiti che per le nostre democrazie spettano ai Parlamenti”. Renzi rinunci, dunque, a trasformare il referendum d’ottobre in un plebiscito sulla sua politica.

Corbyn sfiduciato dai deputati del Labour: «Non mi dimetto, mi ha eletto la base»

L’80 per cento dei deputati laburisti ha votato una mozione di sfiducia contro Jeremy Corbyn. Un pessimo risultato per i vincitori di questo scontro e per lo stesso leader del partito, che ora si trova in una posizione di estrema debolezza. Quella del partito degli eletti del Labour è una rivolta che cova da lontano: ai Comuni la maggioranza è rappresentata da figure cresciute nel partito di Tony Blair, prima, e di Ed Milliband, poi (il secondo non un seguace di Blair, ma non una rottura con il leader precedente).

Pochi minuti dopo il voto, il leader del partito eletto con il 60% dei voti dalla base, ha diffuso un comunicato nel quale si invita il Labour a rimanere unito, si elencano alcuni successi e si segnala come gli avversari politici e il governo Cameron siano in enorme difficoltà per non avere un piano sulla Brexit. Nel testo Corbyn non nomina il voto dei parlamentari e invita tutti ad allinearsi. Ancora una volta, anche a causa delle trame ordite contro di lui da una parte di coloro che gli hanno votato contro, Corbyn si segnala per la scarsa capacità di mediare, negoziare con coloro che non stanno con lui. In una dichiarazione successiva dice che «non tradirà» il voto degli elettori. Che ieri si erano radunati fuori da Westminstr per manifestare solidarietà al loro leader.

I sostenitori di Corbyn e lo stesso leader laburista definiscono questo un golpe e ricordano come le regole del partito siano molto chiare: a scegliere il capo e il futuro candidato alla premiership è la base, non gli eletti. Anche sui social networks, molti dei giovani che hanno dato un contributo fondamentale alla sua campagna – e che si sono iscritti al partito per votarlo – urlano al colpo di mano. In effetti un piano per fare fuori Corbyn dopo il referendum e accusandolo di scarsa leadership sull’Europa c’era. E il leader laburista ha dato una mano, non impegnandosi granché nella battaglia contro l’uscita dall’Europa. Corbyn è stato criticato anche da Owen Jones, il giovane intellettuale e giornalista che ha fatto molta campagna per lui. I numeri, dice Jones, non parlano a favore di Corbyn. Jones non chiede però le dimissioni, ma una riflessione sul futuro da parte di tutti.

Certo è che a questo punto un nuovo voto per la leadership laburista è scontato. E c’è anche chi mette in dubbio che il capo del partito possa concorrere: per avere il proprio nome sulla scheda servno 50 firme di parlamentari, e Corbyn ha preso 40 voti. Difficile arrivare a non far concorrere il capo del partito eletto dal 60% degli iscritti, se vuole concorrere. Sarebbe un segnale pessimo mandato a chi ha votato Corbyn e non aiuterebbe un partito già messo molto male a causa del risultato del referendum per il quale si è speso poco, che ha perso e che ha visto gli elettori delle zone tradizionalmente rosse votare per l’addio all’Europa.

Cosa succede ora lo sapremo nelle prossime ore, tra gli sfidanti di Corbyn ci saranno il numero due del partito Tom Watson – eletto anche lui, le cariche elettive si votano separatamente – e Angie Eagle, ministra del governo ombra dimissionaria e una delle due deputate apertamente omosessuali elette ai Comuni. La verità è che il clima è disastroso e che i laburisti si stanno cacciando in un pantano da soli, proprio mentre i conservatori si apprestano anche loro a una battaglia interna sul futuro, l’identità del partito e la leadership. Un po’ di unità a sinistra, per una volta, avrebbe giovato.

Brexit, primo Consiglio europeo nell’incertezza. Tra battute acide, timori e sospetti

epa05395867 British Prime Minister David Cameron (R) is welcomed by European Commission President Jean-Claude Juncker (L) prior to a meeting in Brussels, Belgium, 28 June 2016. EU leaders meet in Brussels on 28 June for the first time since the British referendum, in which 51.9 percent voted to leave the European Union (EU). EPA/OLIVIER HOSLET

«Lei è qui, ma non era per Brexit?». Il coniglio Juncker non resiste alla tentazione di sfottere Farage quando lo incontra a Bruxelles. «Sono ancora viva», dice la regina mentre stringe la mano del primo ministro nord irlandese Martin McGuinnes. Viva certo, ma con un Regno Unito sempre più disunito. Scozia e Irlanda del Nord non ne vogliono sapere di lasciare l’Europa perché così ha deciso una maggioranza di elettori inglesi e del Galles. Intanto i conservatori di Cameron danno un’interpretazione singolare del Common Law britannico: «Siamo usciti dall’Unione – dicono – ma trattiamo, chiediamo all’Europa ulteriori vantaggi (niente migranti) per restare buoni amici». Fuori, dentro? Che sarà mai! Siamo marinai e mercanti, atlantici ma anche europei. Al Parlamento di Bruxelles manca tuttavia siffatto sense of humor: così vota una mozione per «l’attivazione immediata» del divorzio.

«No a trattative segrete» ruggisce il coniglio mannaro Juncker. Incredibile: i “consigli” di Angela Merkel, che chiedeva di lasciare tempo ai britannici e di fargli ponti d’oro, non sono più “ordini” teutonici per i burocrati di Bruxelles. Tutto può accadere, mentre le borse rimbalzano e la sterlina risale.
Jeremy Corbyn, che dovrà difendersi da una mozione di sfiducia presentata da due deputate laburiste, avverte di voler restare in campo, pronto a ricandidarsi se lo sfiduciassero. «Meglio colpire i Tory, che dividere il labour», dice un militante, e sarà il tono della sua difesa. Tory a loro volta sotto accusa, come mostra questo titolo sbrigativo del giornale dei mercati, il Financial Times: Brexit: “When? How? Really?” Quando? Come? Davvero? Insomma, avete rotto le uova, ora che frittata farete?

In Spagna Rajoy rivendica il suo diritto a governare, avendo ottenuto il 33% dei voti. Ma nessuno vuol coalizzarsi con lui: una cosa è rifiutare il “cambio”, un’altra donarsi al vecchio che ha condotto il Paese verso una ripresa del Pil impastata con la disoccupazione giovanile e le ingiustizie che crescono, oltre che con la corruzione di sempre. Rivera, leader di Ciudadanos, dice che potrebbe trattare con Rajoy ma solo se trattasse anche il leader del Psoe Sanchez, il quale rifiuta per ora persino l’ipotesi di una astensione per consentire all’avversario di formare un governo scongiurando nuove elezioni, le terze in un anno.

Con eleganza muliebre la socialista Susanna Diaz gli dà il benservito: «No me gusta hacer leña del árbol caído». L’albero caduto, con il quale non vuol fare legna da ardere, è Sanchez. Che lasci da solo e permetta ai socialisti di astenersi. Podemos, intanto, si interroga sul milione di voti perduti. Probabilmente Iglesias ha preteso troppo e troppo in fretta. Da leader degli indignados a candidato premier, dalla pretesa di non essere né di destra né di sinistra alla coalizione con i comunisti. Ora è fermo alla meta. Per un turno.

Violenza sessuale, l’importanza della reazione: «Mi so’ fatta forza»

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Aveva più o meno la stessa età della ragazzina vittima dello stupro di gruppo a Salerno, Franca Viola, la donna siciliana che nel 1965 venne rapita e violentata dall’uomo che poi chiese il matrimonio riparatore. Ma lei disse no e anzi denunciò il suo rapitore e violentatore che venne processato e condannato. Quel no della ragazzina 17enne siciliana è forse uno dei più importanti atti di ribellione civile del secondo dopoguerra, foriero di un grande cambiamento della società e anche della cultura. Ricordiamo che all’epoca lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona, come venne riconosciuto soltanto nel 1996.

Ma perché ricordare Franca Viola? Perché la ragazzina di Salerno, ha dimostrato nel suo post su facebook, riportato dai media, oltre a un grande dolore, anche la forza della denuncia, del non pensare che “tanto è così e non ci puoi fare niente”. Ha dimostrato di saper opporsi al silenzio, di saper reagire.

«Forse la colpa è stata mia che mi sono fidata di un “mostro” ma ringrazio anche me stessa che mi sò fatta forza e ho raccontato tutto ai miei andando dai carabinieri a sporgere denuncia».

Dovrà affrontare, è vero, prove difficili, come scrive oggi su Repubblica Michela Marzano perché la violenza sessuale è devastante.
Soprattutto poi se viene da qualcuno di cui ti fidavi.

“Pugnalata da chi credevo fosse mio amico facendomi lasciare un segno indelebile che non dimenticherò facilmente, anzi, penso che mai dimenticherò”.

Ma intanto c’è stato quel “mi so’ fatta forza”, e la denuncia, con la conseguente confessione ai carabinieri degli aggressori. Che cosa accadrà poi? Al di là delle esternazioni allucinanti di un Salvini, qui c’è tutto da ricostruire, al di là delle pene che verranno comminate. Sembra che uno dei violentatori – minorenni come lei – abbia detto «Ma che abbiamo fatto di male?». E allora, come scrive Michela Marzano «si spalanca il capitolo della prevenzione e della decostruzione degli stereotipi di genere, dell’educazione all’affettività e della cultura del rispetto». Tanto lavoro da fare, anche per sfatare quel «Forse la colpa è stata mia», segno di una colpevolizzazione che non ha ragion d’essere.
Una buona notizia arriva dalla Commissione Cultura della Camera dove è iniziato finalmente da ieri la discussione sulla proposta di legge dell’educazione sentimentale nelle scuole. Il percorso è lungo, ma, come dice Celeste Costantino di Sinistra italiana, «finalmente il Parlamento discuterà di “prevenzione” – e non soltanto di leggi punitive e securitarie – alla violenza maschile sulle donne, all’omofobia e al bullismo».
Intanto, niente silenzio e vergogna. Quel «mi sò fatta forza» sono parole che pesano. Nel senso che sono importanti, che servono. A tutti.

Dal confine al confino. Come vivono i profughi in Grecia

A Salonicco si sta relativamente bene. Ci sono quartieri più disastrati e zone più turistiche e frequentate. Ci sono macchine e via vai di gente. I lavori per la metropolitana della seconda città della Grecia sono stati iniziati e interrotti due anni fa, causa: crisi e fine dei soldi. Cantieri fantasma e lavori in corso che non finiranno mai. E, fin qui, forse, è tutto più o meno negli standard dell’immaginario di un’italiana che si reca in Grecia per un incontro sul tema dell’immigrazione. Già il giorno prima di arrivare, sui social, girava la notizia dell’imminente sgombero del campo informale di Idomeni. E degli 8.500 profughi che durante il loro percorso verso il centro dell’Europa, si sono ritrovati davanti a un nuovo muro, eretto dalla Macedonia al confine greco, avallato e accettato senza troppe proteste da Bruxelles.

Sara Prestianni - Un campo informale nei dintorni di Idonei
Sara Prestianni – Un campo informale nei dintorni di Idomeni

Qui in Grecia lo chiamano “The Deal”, l’accordo Ue-Turchia dello scorso 18 marzo. Un termine che sa di commercio, commercio di esseri umani contro la moneta dei diritti. Lo sgombero inizia, seguiamo quanto accade via social. Il primo giorno in 4mila vengono convinti a salire sui bus della polizia che li accompagnerà nei primi centri governativi. Senza scontri, ma con la tipica fermezza – racconteranno ragazzi e donne – di chi non ammette dialoghi né repliche. Arriviamo al confine con l’area del campo il giorno dopo. La strada provinciale è presidiata e bloccata dalla polizia greca. C’è silenzio inquietante, aria rarefatta. Come dopo un terremoto. Il posto di blocco non ci fa passare. Bisogna essere muniti di autorizzazione anche per andare a vedere i resti del campo vissuto per mesi sotto la neve invernale e ora, a inizio primavera, sgomberato con le ruspe.

I resti di un avamposto di resilienza e resistenza umana che sperava di continuare il suo viaggio. Dopo di noi passerà un gruppo di giornalisti, messi su un pullman per un bel giro turistico, come si farebbe intorno alle macerie di un luogo bombardato e abbandonato. O in un safari fotografico in Africa. Moltissimi dei migranti che non sono saliti sui pullman hanno dovuto muoversi a piedi. I taxi sono stati proibiti perché avrebbero potuto, dietro pagamento, accompagnare i profughi verso altre zone e offrire quindi un servizio come quello dei trafficanti. E se, invece, avessero chiesto il prezzo della corsa sarebbero stati incriminati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina.

Sara Prestianni - la frontiera greco-macedone
Sara Prestianni – la frontiera greco-macedone

Pochi chilometri più in là, i primi campi informali. Piccoli accampamenti con tende da due posti che sembrano volare non appena si alza un soffio di vento più deciso. Decine di bambini che, appena ti vedono, ti corrono incontro con l’allegria di chi non ha capito e non sa cosa succede. Dietro, i volti delle madri. Hanno sguardi silenziosi, un misto di dignità e angoscia spezzata. Sguardi come parole spezzate in un limbo. Incontro migliaia di profughi nei campi informali, e un numero sconcertante di bambini in transito, in tendopoli, campi militari allestiti come nelle zone di guerra. Su banchine dei porti, zone di carico e scarico merci, pompe di benzina sulle strade provinciali, campi semi-arati con i serpenti che attraversano la strada. Uomini e donne in fila per una bottiglia d’acqua davanti alla cisterna che passa una volta al giorno. In fila per un pasto. File che possono durare anche 5 ore e, all’arrivo, le razioni potrebbero anche essere finite. Come in un film di fantascienza, a quel punto, gli esasperati si azzuffano, litigano, corpo a corpo, e la polizia li guarda da due metri, braccia conserte, senza intervenire.
Gli attivisti greci informano che sono 55mila i profughi prigionieri in Grecia, isole comprese. In un recente comunicato stampa l’Unhcr riporta invece 57mila, e aggiunge che l’Rmrp (il Piano di risposta per rifugiati e migranti) è stato ridefinito alla luce del fatto che ora i profughi non sono più da considerare “transitanti” ma “stanziali”. Se chiudi il cancello gli animali non escono dalle stalle. Il nuovo piano ha avuto un adeguamento anche economico. Si calcola un fabbisogno di quasi 670 milioni di dollari Usa solo per il 2016, di cui per adesso sono stati raccolti quasi 329 milioni. Questi 57mila nomi nuovi da identificare, collocare e accogliere, ci fanno paura. Tra loro, giovani donne con neonati, alcune durante il viaggio hanno partorito il loro primo figlio, molte il secondo o il terzo. Molti bambini sono nati in Grecia, molti forse già in Turchia. Figli del viaggio della speranza e dell’incubo dei muri, dei fili spinati e dei trafficanti. Figli dell’indifferenza e delle quote dell’Europa. Ora sono qui, incastrati con le loro madri e i loro padri in questa terra di confine e di confino che è diventata la Grecia.
Hotel Hara, all’ingresso di Evzoni. Il “campo” è all’interno di una pompa di benzina dismessa. Il piccolo ristorante, stile Autogrill, funziona invece a ritmo accellerato. La benzina non si può acquistare, ma i servizi sono altri. Qui c’è il business delle docce, tanto per cominciare. L’acqua scarseggia e c’è chi regola i flussi chiedendo 5 euro per 5 minuti di getto d’acqua. E in quei 5 minuti la gente si organizza, passano anche dieci persone per volta, di corsa con un pezzo di sapone e una pezza per ottenere qualcosa che assomigli a una doccia. Poi, ancor più fiorente, c’è il traffico di esseri umani. Le associazioni riportano di una base della mafia albanese e macedone all’interno del ristorante, contrattano e organizzano i viaggi e il superamento del confine. Fino a qualche settimana fa il tariffario era il seguente: per un Safety travel da Atene in Austria, 2.500 euro; con incluso anche un documento falso si arriva fino a 5mila. Adesso, invece, che la gente è allo stremo, i prezzi si sono fatti più abbordabili: con 50 euro si può attraversare a piedi il confine, di notte, economico ma altrettanto pericoloso. Una tratta percorsa solo da giovani pronti a correre il rischio di incappare nella polizia macedone, col suo carico di violenza. Chi invece ha ancora qualche disponibilità economica può acquistare un biglietto aereo per la Germania e un visto falso, con 300 euro. Ma su questo in molti hanno il dubbio sia una truffa, chi è partito non ha mai dato conferma del suo arrivo. Ancora un’altra opzione è quella dei carri merci: stipati dentro i container su ruote e poi nascosti dietro le casse di merce. Anche se questi carri bestiame – raccontano i profughi – quasi mai riescono a passare il confine greco, perciò, quando ti scaricano, ti ritrovi da solo lontano dalla partenza ma ancora al di qua della Grecia.
Sono tantissimi gli uomini e le donne che non vogliono trasferirsi nei campi ufficiali gestiti dai militari. Hanno paura di entrare in una nuova prigione. Non si fidano più. Dicono di aver paura che, dal giorno alla notte, questi campi diventino chiusi, di non poterne più uscire. Adesso ne sono tutti convinti: l’unica soluzione è chiedere asilo in Grecia, l’alternativa è essere rispediti in Turchia ed entrare in un campo turco. Un incubo senza fine.
Nea Kavala Camp – They will are open the border?
Siamo a circa venti kilometri da Salonicco, nel campo allestito alla fine di febbraio, uno dei primi ad aprire, all’interno di un aereoporto dismesso. Ospita circa 2.600 persone, siriani, iracheni, pachistani, kurdi. È un campo “aperto” gestito dai militari, ma aperto per i migranti non per la società civile. Entriamo grazie a un permesso concordato dagli attivisti greci con le autorità di polizia. All’interno sono presenti alcuni operatori di Unhcr e Save the chidren che, durante le tre ore di visita, in realtà, passano il tempo chiacchierando tra loro. C’è anche un presidio medico, fatto da due grosse tende della Finnish Red Cross e German Red Cross con i loghi bene in evidenza. Le tende dei nuclei familiari sono in prevalenza dell’Unhcr, e molte donne arrivate il giorno stesso allestiscono quella che diventerà la loro nuova casa. Ha tutte le sembianze di una zona di guerra, a prima vista, tale è la mancanza di tutto.
Sulla pista dove un tempo atterravano gli aerei, adesso ci sono delle lunghissime file per ritirare il cibo. Ci si mette in fila almeno due ore prima. Un uomo in fila mi chiede chi sono e cosa faccio lì: «L’Europa non vuole vedere il nostro dramma. Siamo scappati dalla guerra e dall’orrore della Siria. Ora l’Europa ci tratta come criminali, siamo in mano della polizia come terroristi! Quando un giorno tornerete in Siria, quando la guerra sarà finita, direte che la vittoria è stata vostra, che avete combattuto per noi “poveri siriani”, ma nel frattempo siete voi che ci state uccidendo». In fila anche giovani coppie con bimbi di pochi mesi, tutti dicono che nessuno sa dargli informazioni legali o di altro genere.
Mi imbatto in Amin, 11 anni, che mi porta a conoscere la sua gentile e accogliente famiglia. Sono scappati da Aleppo. Mi accolgono e mi offrono di fermarmi a mangiare con loro, è ora di pranzo. Il padre di Amin è in Germania, e loro cercano di raggiungerlo, sono in viaggio da 7 mesi. Insieme ad Amin ci sono sua madre, sua sorella e suo zio: dalla Siria all’Iraq, poi Turchia e dopo 4 mesi nel campo a Idomeni sono stati sgomberati e portati al campo. «They will re open the border?», mi chiede Amin con gli occhi che brillano, mentre noi adulti ci guardiamo negli occhi, in silenzio, senza quasi riuscire a deglutire. «Il tuo sogno è forte e grande e insieme ai nostri diventerà ancora più forte e grande. Bisogna aspettare ancora un po’. Inshalla», rispondo. «Inshalla», rispondono subito loro. La loro accoglienza è immediata, sincera, semplice e diretta. La nostra no.

L’Europarlamento discute la Brexit (diretta video)

Oggi Cameron si incontra con i leader europei. Intanto l’Europarlamento in seduta plenaria sta discutendo le conseguenze del voto britannico. Qui la seduta in diretta.

Qui la seduta in italiano tradotta sul sito del Parlamento

Incertezza e proclami, Caffè del 28 giugno 2016

Attenti a quei tre, Hollande, Merkel, Renzi. Potrebbero fare la differenza e correggere le politiche insulse dell’Europa su debito e surplus commerciale, lavoro e salari, immigrazione e welfare. Oppure la foto che li ritrae riuniti può raccontare l’impotenza, la rimozione, il ripiegarsi su piccoli interessi nazionali, il bla-bla ipocrita degli europeisti di facciata. Che cosa si sono detti? “Borse in caduta, Londra Bocciata”, scrive il Corriere, delineando il contesto in cui si è tenuto il summit. “L’Europa dà più tempo per la Brexit”, si legge in cronaca. Merkel ha spiegato a Hollande e a Renzi che la Gran Bretagna acquista molte più merci dall’Europa di quante non ne venda, dunque conviene non pressarla troppo, darle tempo, offrirle una via d’uscita confortevole. “Brexit e scudo bancario” azzarda Repubblica. Ecco un punto tutto italiano. Le nostre banche soffrono, il governo vorrebbe sostenerle con aiuti di stato ma deve chiedere il permesso, perché il famoso bail in prevede che prima del salvataggio pubblico siano clienti e correntisti a pagare per ogni banca che fallisce. Merkel ritiene sbagliata la richiesta italiana ma, assicura Federico Fubini: “non si metterà di traverso”. “Per lei oggi è politicamente meno costoso – spiega il commentatore del Corriere- lasciare che le banche italiane vengano stabilizzate con fondi del governo di Roma, piuttosto che dover presentare ai suoi elettori un altro intervento europeo”. La sovrana (Angela) con il principe consorte (François) e il principe ereditario (Matteo). Giannelli racconta così il nuovo sacro romano impero. Ma il principe ereditario, per evitare -a spese del contribuente- nuovo panico tra i correntisti, dovrà vedersela con i “burocrati di Bruxelles”. È andata così. Il resto, chiacchiere.
Molinari ha intervistato Mattarella. E il presidente, che non ha e non vuole avere un ruolo diretto nelle scelte di governo, ha detto alla Stampa: “L’Europa deve sapersi legittimare quotidianamente di fronte alle attese della gente. Il rischio è stato ed è quello di un’Unione ripiegata sui problemi della finanza e dei conti pubblici”. Si è parlato di questo a Berlino? Non sembra. Per Francia e Germania i conti con l’immigrazione devono farli i paesi protesi nel Mediterraneo. Nè Hollande né Renzi hanno osato chiedere alla Merkel di ridurre il surplus commerciale del suo paese, magari alzando salari e stipendi in Germania e facendo così respirare l’intera l’eurozona. Nessuno pare abbia evocato, come invece avrebbe dovuto, il problema dei debiti e della solidarietà fiscale. Santo Mario (Draghi) stampa moneta, compra titoli del debito e tiene sotto controlli lo spread. Ma non può continuare a farlo per sempre. Prima o poi, non solo la Grecia, ma anche l’Italia dovrà (se vuol restare nell’euro) “ristrutturare il debito”, cioè tagliarlo, abbatterne il valore assoluto, allungare i termini di pagamento azzerando gli interessi. Di seguito l’ammontare in euro del debito italiano: 2.171.671.000.000. l’84% in titoli di stato. Caro Mattarella, le elites europee si ripiegano nei tecnicismi non perché non apprezzino (per dirla con Renzi) “la delicata bellezza del sentimento europeo”, ma perché non osano sfidare “i mercati” e l’ideologia dei mercati secondo cui a pagare debbano essere prima i lavoratori, poi i popoli, infine gli stati “deboli”.
La Spagna ha avuto paura, dell’Italia del calcio che ieri l’ha infilzata due volte, ma anche di se stessa. Scrive su Repubblica Javier Moreno, già direttore del Pais: “La Spagna domenica si è affacciata sull’ignoto, ha esitato per un istante e poi è tornata indietro. Il Paese doveva decidere se proseguire nella demolizione del sistema politico nazionale, in linea con le rivolte populiste in atto nel resto d’Europa e degli Stati Uniti, oppure tirare il freno a mano”. Ha tirato il freno a mano, dando il 33% dei voti al partito ultra liberista (e corrotto) di Rajoy. Si è turata il naso, come Montanelli disse dell’Italia quando nel 1976 votò ancora Democrazia Cristiana. Ha voluto allontanare da sé l’immagine di Madrid e Barcellona governate da coalizioni di sinistra – sinistra, ha voluto scongiurare che ex comunisti (Izquierda Unida) ed ex indignados (Podemos) entrassero alla Moncloa, ha voluto stoppare una riforma costituzionale che avrebbe trasformato la Spagna in un paese multinazionale. In quello che è sempre stata, ma che la destra -più forte al sud, dal tempo della cacciata di moriscos e marranos- non ha mai voluto che fosse. Ora Rajoy ha il diritto governare, ma nessuno vuol farlo con lui. Non Ciudadanos, la destra rinnovata che i popolari hanno vampirizzato nel voto, non Sanchez, segretario del Psoe, che nega anche la possibilità di un’astensione per evitare un terzo ricorso alle urne. Invece Susanna Diaz, governatrice dell’Andalusia, feudo socialista dove i popolari stavolta hanno superato il Psoe, e il vecchio Felipe Gonzales ritengono che sia Podemos il nemico da battere. Vedremo. Intanto Podemos si sta chiedendo, a porte chiuse, perché mai sondaggi e exit poll si siano sbagliati. Perché, caro Iglesias, i sondaggi colgono (ed esasperano) la tendenza, quella su cui si scommette in borsa. E la tendenza, dopo che tutti avevano attaccato Podemos per il no opposto al governo Psoe-Ciudadanos, indicava che il tuo movimento avrebbe tenuto: 5 milioni di voti lo confermano. La paura dell’ignoto, l’antica ruggine tra andalusi e catalani, l’orrore per i comunisti e gli “anarchici” della Spagna franchista e post franchista, quei sentimenti li capiscono meglio gli storici che i sondaggisti. La sinistra ha perso una battaglia, ora non perda la guerra!
Erdogan il realista. Continua a bombardare i curdi, in Iraq in Siria e nella stessa Turchia. Continua a insultare chi parli del genocidio di un secolo fa per nascondere la persecuzione odierna di tutto popolo. Però normalizza i rapporti con Israele e chiede scusa (con lettera) a Putin per aver abbattuto quel suo aereo da caccia. Dobbiamo gioirne? Ho dei dubbi. Turchia, Egitto, Arabia Saudita devono usare cautela nei giorni in cui l’Isis ha perso Fallujah,mentre l’Iran estende la sua influenza nella regione e finché Obama dormirà alla casa Bianca. Ma questi stati, occidentali e islamici, autocratici e corrotti, sono i Mangiafoco del medio oriente, i burattinai delle guerre e dell’esodo dei popoli. Non la soluzione, ma il problema.

McDonald’s nel cuore di Firenze? Si accende la rivolta dei cittadini

L’apertura di un McDonald’s nel cuore di Firenze sta scatenando i cittadini che protestano attraverso pagine facebook, con cartelli e una ridda di messaggi al sindaco per scongiurare quella che per adesso è solo una eventualità.  Dopo aver a lungo tentennato ( tanto che McDonald’s parla di mesi di trattative) in Consiglio comunale il sindaco Dario Nardella ha espresso la sua contrarietà e quella della giunta all’apertura di un negozio della nota catena di fast food in piazza del Duomo e anche in altre piazze storiche e di pregio del centro storico, che è patrimonio dell’Unesco.

Già la scorsa settimana Nardella, con un post su facebook, aveva espresso la sua opinione contraria. “Mc Donald’s ha certo diritto di fare domanda – ha scritto  il sindaco di Firenze – la legge lo prevede. Ma noi abbiamo il diritto di dire di no”. Il sindaco ha anche rivolto un “appello agli imprenditori fiorentini” affinchè nello stesso spazio dove potrebbe sorgere il Mc Donald’s “si faccia invece nascere una bottega artigiana o un’attività che rispetti i criteri di qualità richiesti da uno spazio come Piazza del Duomo”. Ha poi sottolineato come “non esista certo un pregiudizio verso l’azienda, che ha tranquillamente aperto in altri posti della città, come la stazione”. Nardella ha anche spiegato che, in assenza di una normativa nazionale, “il regolamento Unesco per la tutela del tessuto tradizionale delle botteghe del centro storico è un argine necessario ma non sufficiente: il decreto Franceschini in corso di approvazione, che ha ad oggetto la protezione dei centri storici e vedrà probabilmente la luce dopo l’estate, conferirà al regolamento forza nazionale”. Registrando con soddisfazione questa decisione del sindaco, che dire però di Eataly a due passi dal Duomo  che miniaturizza la cupola del Brunelleschi e il campanile di Giotto in un inguardabile kitsch, per vendere i prodotti di Oscar Farinetti, sodale del premier Renzi? E che dire del centro storico fiorentino trasformato in una Disneyland a misura dei turisti, tanto che i cittadini non lo abitano più? Bene dunque il no alla catena di fast food a stelle e strisce, ma ci auguriamo presto anche una riflessione approfondita sulla riduzione del cuore storico di Firenze a un brand commerciale, fosse pure made in Italy. Da rileggere in proposito uno scherzante e incisivo pezzo di Tomaso Montanari,  Eataly, il Bignami del Rinascimento.

La Corte suprema sceglie i diritti: bocciata la legge antiabortista del Texas

La Corte suprema degli Stati Uniti ha dato un colpo ai tentativi degli Stati a guida repubblicana di abolire l’aborto con strumenti legali surrettizi. Per limitare o impedire le interruzioni di gravidanza senza vietarle per legge, molti Stati introducono ostacoli e limiti che rendono di fatto impossibile praticare l’aborto ma senza vietarlo – che sarebbe incostituzionale dopo la storica sentenza Roe contro Wade del 1973.

Ieri è stata la volta della dichiarazione di incostituzionalità di una legge del Texas che prevedeva che le cliniche che praticano l’aborto avessero sale chirurgiche con standard da struttura ospedaliera e che i medici che in queste lavorano avessero anche un posto in un ospedale vicino alla clinica. La scusa era quella di tutelare la salute delle donne, come se una clinica che ha gli standard per praticare l’interruzione di gravidanza fosse meno attrezzata per farlo – o se queste venissero praticate in ambienti non sterili da personale scelto a caso.

La legge aveva ridotto il numero di cliniche che praticano gli aborti da 40 a 20 in pochi mesi e il numero sarebbe arrivato a 10. «Gli ostacoli imposti dalla legge texana restringono il diritto costituzionale delle donne e non garantiscono nessuna tutela in più per la salute delle donne» ha scritto la giudice Breyer nel suo parere, votato a maggioranza 5 a 3, con il moderato Kennedy, ago della bilancia della Corte, che si è schierato con le tre donne giudice. Contro i conservatori Alito, Roberts e Thomas.

Si tratta di una vittoria importante perché gli Stati che hanno approvato leggi simili a questa per ridimensionare questo diritto sono diversi: quelle misure ora verranno sfidate in tribunale con questa sentenza che fa giurisprudenza. La decisione dell’Alta corte è tanto più importante perché in questa fase, a causa dell’ostruzionismo dei repubblicani, che si rifiutano di dare il loro assenso alla nomina del giudice Garland perché, dicono, un presidente uscente non può nominare giudici. Falso, lo hanno fatto in moltissimi, sia democratici che repubblicani: se un giudice si ritira o muore, il posto va riempito. In queste settimane è spesso capitato che la corte non raggiungesse una maggioranza perché i giudici si dividevano quattro contro quattro.

Segni della fine: l’autoriciclaggio dei politici. E la lezione di Chiara.

Capisci che la fine della legislatura è ormai segnata dai nasi iperattivi dei politici che si spandono alla sera nel centro di Roma. Vagolano furtivi, sono improvvisamente tornati amicali, d’una cortesia impulsiva che sfiora la malattia e cercano di annusare ogni possibilità do autoriciclaggio. Molti di loro seguono una parabola che inizia da un’umiltà servile in campagna elettorale (e con il proprio segretario per ottenere un posto eleggibile al caldo) per impennarsi al delirio di potenza per la durata della magistratura e poi crollare alla sottomissione in cerca di un nuovo padrone quando sentono che si avvicina la fine. Eccoci. Ora siamo qui.

Appena sente odore di elezioni la nostra classe dirigente diventa diligente, diligentissima nell’ubbidire a chiunque possa offrire una ricandidatura. Bene, in questo tempo di povera etica appassita succede a Milano che l’ex assessora Chiara Bisconti scriva una lettera ai suoi elettori spiegando un concetto banale eppure rivoluzionario: smettere di fare politica e tornare al proprio mestiere. E in questo tempo di biechi rapaci le sue parole sono una luce. Vale la pena leggerle (le trovate qui):

L’ho capito dai tanti messaggi che mi sono arrivati.
Affetto, ringraziamenti, empatia. E poi la domanda, ma perche non ci sei più?

Allora ora è importante chiarire che è una mia scelta.
ho scelto cosi. E provo anche a spiegare il perché.

Credo nella società civile. Ne faccio parte.
Credo che quando la società civile si mette al servizio della politica accadono grandi cose.
Si incontrano le competenze, i saperi, le prospettive diverse; si incrociano gli sguardi.
Ma la società civile deve rimanere tale. Per continuare ad essere assessora avrei dovuto fare un passaggio elettorale. Ci ho pensato bene. E poi ho deciso di non farlo.
Troppo lontano dalle mie corde. Mi avrebbe snaturato. E soprattutto avrebbe diluito il portato del mio essere società civile.
Libera, indipendente, senza alcun condizionamento nella presa delle decisioni.
Ciò non vuol dire che chi lo fa o lo ha fatto non abbia fatto bene.
Anzi. Ma bisogna saper essere quello che ci si sente davvero di essere.
Credo fermamente che società civile e politica debbano camminare insieme. Libertà di pensiero e rappresentanza di interessi ben amalgamati, fianco a fianco per il bene della città.
Ma ognuno saldamente ancorato a quello che è davvero.

Come persona credo anche nel piacere e nel bisogno di evolvere.
Ci si arricchisce da ogni esperienza; si fa tesoro del passato.
Ma serve anche l’emozione di mettersi di nuovo in gioco, di tuffarsi in una cosa nuova. Per rimettere in moto le energie che nascono dal confrontarsi con nuovi limiti.
Rifare la stessa esperienza di assessora non avrebbe stimolato in pieno le mie possibilità.

E poi credo nella qualità del tempo.Ora ho bisogno di ritrovare il mio tempo, per calmarmi, per tornare a ritmi più lenti.
Voglio incontrare un tempo più profondo, per dedicarmi ai temi a me cari, per riagganciarmi ad una realtà esterna che corre veloce e che in certi momenti ho sentito scivolarmi via.
Un tempo ritrovato anche per ritrovare me stessa, chi sono diventata e cosa voglio veramente.

Queste le motivazioni della mia scelta.
Che sono saldamente ancorate al mio modo di essere.

Buon mercoledì.