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Hillary e le altre: quanto si è incrinato il soffitto di vetro dopo la nomination?

Dopo un afroamericano, una donna. I democratici americani scelgono di nuovo di rompere con i tabù della loro storia– e di quella di molti altri Paesi – e candidano Hillary Clinton alla presidenza. Nell’anno di grazia 2016 un tabù si sarebbe rotto comunque: l’alternativa a una donna, di potere, era infatti un socialista senza amici potenti. Bernie non ce l’ha fatta ma è destinato a influenzare la piattaforma del partito e, sebbene abbia promesso di continuare a lavorare alla sua campagna, a dare una mano fondamentale alla sua avversaria di ieri.

Nonostante si tratti di un animale politico al 100%, di una figura controversa, criticata per avere un attaccamento “maschile” al potere per il potere, l’idea che una donna possa diventare la persona più potente del mondo è comunque dirompente. Sono passati 32 anni da quando Geraldine Ferraro corse come vicepresidente di Mondale e venne travolta assieme a lui dalla seconda campagna di Ronald Reagan. Dopo di allora ruoli e figure importanti, dalla stessa Hillary a Condoleezza Rice, Agnes Yellen, presidente della Fed, il giudice Sotomayor, ma niente soffitto di vetro infranto. Oggi è diverso.

Non è stato facile, ma stavolta, a differenza del 2008, quando di fronte aveva un campaigner formidabile, con alleati e una macchina elettorale straordinaria, Clinton non ha perso la pazienza, non ha rivoluzionato lo staff a ogni passo falso, ha affrontato quella che si è rivelata una lunga battaglia con pazienza. È stata brava e tatticamente saggia.

La salita è stata difficile per un altro motivo: se le millennials hanno scelto Sanders, infischiandosene del sesso del candidato e scegliendo gli ideali, un pezzo dei maschi bianchi e lavoratori che hanno votato Bernie lo ha fatto (anche, non solo) in antipatia a questa figura di donna potente. Non a caso Trump si è immediatamente lanciato a corteggiare quel voto: il discredito nei confronti di Hillary è perché è una ammanicata con il potere. E si sa, una donna ammaliata dal potere, nell’immaginario collettivo è più sporca, sordida e macchinatrice di un uomo con le stesse ambizioni.

Arrivare fino in fondo a primarie che sono state entusiasmanti soprattutto grazie alla ventata di aria fresca portata da Bernie Sanders, è stato difficile. Ma ora comincia la scalata vera. Per sfondare il soffitto di vetro Clinton avrà bisogno di Obama, già arruolato, e anche del voto dei millennials che in questi mesi hanno “felt the Bern”. Il presidente ha invitato Bernie alla Casa Bianca domani ed è possibile che, nonostante la promessa di andare avanti fino alla convention, Sanders decida di ritirarsi dopo le primarie di Washington – in queste ore molte persone dello staff sono state mandate a casa. Diverse figure, da Elizabeth Warren, al vicepresidente Biden, in ottimi rapporti con Bernie, stanno lavorando per ritessere i fili. Hillary dovrà metterci del suo, regalando spazio a Sanders alla convention e parlando ai giovani prendendo in prestito idee e formule che non sono quelle della sua storia: l’America è cambiata e sta cambiando e se non ne terrà conto non saprà mobilitare i giovani.

Le “single ladies” metropolitane di cui parla il libro blockbuster di Rebecca Traister hanno bisogno di politiche innovative, pensate per la modernità di donne che lavorano, che non hanno necessariamente un marito, hanno votato Sanders in maggioranza, e Hillary dovrà ispirarle nominando ideali e cambiamento. A oggi non lo ha fatto abbastanza. Certo, il confronto con il bulletto Trump aiuterà a ricordare anche alle giovani qual è la differenza tra una donna, anche di potere, e il prototipo volgare del maschio alfa.

Resta un fatto, che non riguarda le millennials: nel suo discorso notturno Clinton ha parlato di sua madre e della dura vita che ha fatto, fin da bambina, abbandonata dai genitori e vissuta con nonni che non erano entusiasti di tenerla. La sua durezza probabilmente viene anche dall’educazione ricevuta e dallo spirito di rivalsa, oltre che dalla difficoltà di aver convissuto con il potere in un ambiente maschile che resta saldo al suo posto.

Ieri notte in California due donne si sono contese la candidatura per il seggio senatoriale dello Stato. Puntavano a sostituire Barbara Boxer, un’altra donna. Si tratta di figure importanti – Kamala Harris, il procuratore generale dello Stato è probabilmente destinata a diventare la prima senatrice afroamericana dal 1999  – ma restano mosche bianche. Le elette in Congresso sono il 20 per cento e a livello statale un terzo del totale. Anche per questo ci sono milioni di donne, oggi, che la storia di Dorothy Rodham la conoscono direttamente: è quella delle loro madri. Le donne delle minoranze che non sono trentenni l’hanno vissuta in prima persona. E non vedono loro di mettere una croce sul nome di una donna a novembre. Quel giorno, auguriamocelo, vinceranno anche loro.

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La destra austriaca contesta l’esito delle elezioni. E quella europea avanza ovunque

Heinz-Christian Strache bei einer Wahlkampfveranstaltung der FPÖ am 18. September 2008 in Sankt Pölten.

L’ultradestra austriaca contesta il risultato delle ultime elezioni presidenziali, vinte con un margine molto ridotto dal verde Alexander Van der Bellen. Il candidato ecologista ha sconfitto lo sfidante Norbert Hofer del Partito delle libertà austriaco (Fpoe) con un margine molto ristretto di consensi: 50,35% contro 49,65%, pari circa a 31mila voti. Secondo quando annunciato dal portavoce della Corte costituzionale, il leader dell’Fpoe, Heinz Christian-Strache, ha depositato un ricorso per avviare una contestazione formale dei risultati del voto nell’ultimo giorno possibile. Già nei giorni successivi al voto Strache aveva contestato su facebook l’esito delle votazioni per «presunte irregolarità», nonostante Hofer avesse subito ammesso la sconfitta. Nell’occhio del ciclone vi sono quegli 800mila voti per corrispondenza decisivi per l’elezione di Van der Bellen. Il primo turno aveva visto il trionfo del candidato nazionalista con oltre il 35% dei consensi, mentre il verde Van der Bellen era arrivato secondo con il 21% delle preferenze. Completamente esclusi dalla competizione i partiti tradizionali, popolari e socialdemocratici.

Norbert Hofer, candidato dell'Fpoe alla Presidenza della Repubblica austriaca
Norbert Hofer, candidato dell’Fpoe alla Presidenza della Repubblica austriaca

L’evento è stato seguito con molta attenzione in tutta Europa: grande era la preoccupazione che, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, un partito di estrema destra arrivasse a occupare la più alta carica di uno Stato europeo. Soprattutto l’Italia sarebbe stata investita dalla vittoria dell’Fpoe, che avrebbe ulteriormente aggravato le tensioni tra i due paesi al confine del Brennero («Il muro al Brennero è inevitabile» fu uno degli slogan di Hofer durante la campagna elettorale).
Il pericolo è stato di poco sventato ma l’estrema destra europea non sembra voler mollare la presa sul continente. Soprattutto facendo leva sui sentimenti xenofobi e strumentalizzando la questione dell’accoglienza ai migranti. E con la crisi dei partiti tradizionali ed un’Unione europea sempre più assente, il ritorno ad un continente frammentato e in preda ai nazionalismi, simile a quello degli anni 30, non è più così impossibile.

Nigel Farage, segretario dell'Ukip
Nigel Farage, segretario dell’Ukip

Innanzitutto c’è la Brexit. Il prossimo 23 giugno i cittadini del Regno Unito saranno chiamati a esprimersi sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea. Inizialmente i sondaggi davano il fronte del «No» in netto vantaggio rispetto a quello del «Si», ma secondo le ultime rilevazioni la distanza tra i due schieramenti si sarebbe accorciata di molto. Anzi, secondo due recenti sondaggi del Guardian i pro-Brexit sarebbero pin vantaggio con il 52% contro il 48%, capovolgendo la situazione di sole due settimane prima. Favorevoli a rimanere nell’Unione sono i partiti della sinistra (Labour, indipendentisti scozzesi e liberali), mentre il Partito Conservatore è frammentato e diviso al suo interno – il premier David Cameron ha definito l’uscita dall’Ue una «bomba economica», ma non mancano voci favorevoli al leave, tra cui spicca l’ex sindaco di Londra Boris Johnson. Tra i partiti euroscettici spiccano l’ultra liberista Partito Indipendentista del Regno Unito (Ukip) di Nigel Farage (26,8% alle ultime elezioni europee) e altre piccole formazioni della destra radicale. L’uscita dall’Ue del Regno Unito sarebbe, secondo alcuni commentatori, una bomba a orologeria per il settore finanziario inglese e per la sterlina. E penalizzerebbe l’economia europea e quella globale. Ma sopratutto costituirebbe un pericoloso precedente e potrebbe causare un effetto domino che porterebbe alla dissoluzione dell’unione Europea.

Marine Le Pen, del Front National
Marine Le Pen, del Front National

Francia. Nel giugno del 2017 si terranno le elezioni in Francia, un paese impaurito dal terrorismo islamico, guidato da un Presidente della Repubblica – il socialista Francoise Hollande – tra i più impopolari della storia. Nelle elezioni regionali dello scorso inverno la formazione populista di Marine Le Pen, il Front national, ha conquistato al primo turno oltre il 27% dei consensi, arrivando a superare il 40% in due delle 13 regioni in cui si è votato (Nord-Passo di Calais-Piccardia, dove si è candidata la stessa le Pen, e Provenza-Alpi-Costa Azzurra, in cui la giovane nipote Marion era aspirante Presidente). Solo un «patto di convergenza» tra repubblicani e socialisti ha scongiurato il pericolo, facendo il modo che il Front national non ottenesse nessuna regione. Secondo un recente sondaggio di Le Monde la votazione avvenisse in questa settimana, la Le Pen otterrebbe il 28% delle preferenze contro il 14% di Hollande, arrivando a doppiarlo. Rimane l’incognita sulle mosse del centrodestra gollista e sul suo candidato, ma molto probabilmente si ripeterà lo schema delle Presidenziali del 2002, in cui l’ultra destra di Jean Marie Le Pen sfidò al ballottaggio il centrodestra di Jaques Chirac.

Frauke Petry, leader dell'Alternative Fur Deutschland
Frauke Petry, leader dell’Alternative Fur Deutschland

Germania. In Germania la Grosse-koalition (un patto di governo tra cristiano democratici e socialdemocratici) ha governato saldamente il paese negli ultimi anni. Alle scorse elezioni regionali di marzo la Cdu della cancelliera Angela Merkel ha perso molti voti pagando la politica di accoglienza verso i profughi siriani. Voti che molto probabilmente hanno rafforzato il partito islamofobo Alternative fur Deutchland (Afd) di Frauke Petry, nato da una scissione della stessa Cdu inizialmente come formazione euroscettica. L’Afd ha ottenuto il 15% dei consensi ed è riuscita a eleggere rappresentanti in tutti e tre i lander in cui si sono tenuti le elezioni, Baden Wurttemberg, Renania-Palatinato e Sassonia-Anhalt (in cui ha ottenuto il 24% dei voti). Un recente sondaggio Insa ha inoltre rivelato che la Grosse Koalition alle prossime elezioni non supererebbe il 50% dei consensi.

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Il premier ungherese Viktor Orban

Senza trascurare Polonia e Ungheria. Nei due ex Paesi socialisti sono al potere due formazioni populiste, xenofobe e fortemente anti-europeiste. In Polonia il Partito Diritto e Giustizia (Pis) del «gemello superstite» Jaroslav Kaczynski al governo ha recentemente licenziato una legge che limita i poteri della corte costituzionale, aumentando i poteri dei giudici vicino al governo. Senza contare la costante censura verso i mezzi di informazione. In Ungheria invece il premier Viktor Orbàn, del partito di destra Fidesz, che controlla la maggioranza assoluta del Parlamento, sta portando avanti le stesse politiche del Pis in Polonia, e ha parlato della «volontà di costruire uno stato volutamente illiberale». Un’asse, quello tra Polonia e Ungheria, che si manifesta per respingere i piani di spartizione dei profughi dell’Unione europea. E che, molto probabilmente, potrebbe essere destinato ad ingrandirsi.

Da First Lady a Presidente. Come cambia il ruolo delle donne alla Casa Bianca

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Clinton ha vinto questa notte con gli ultimi delegati conquistati in California la nomination alla Casa Bianca. È la prima volta, in 240 anni, che una donna arriva a questo risultato storico. Hillary prima di essere Segretario del Dipartimento di Stato ha mostrato la sua influenza e la sua intelligenza come First Lady al fianco del marito Bill, e diciamocelo riuscire a uscire a testa alta da una cosa come l’affaire Lewinsky e vincere la nomination alla Casa Bianca rende l’impresa ancora più un’impresa. Perché Hillary potrà anche risultare rigida e poco “likeble” ma decisamente è una che sa affrontare le cose a testa alta e che ha avuto il coraggio di sbiadire quanto basta dalla mente degli americani l’idea di quel famoso vestito blu di Monica.
Ecco altre donne che come Hillary, da First Lady, hanno iniziato ad aprire la strada perché una di loro potesse pensare di sedere un giorno nello studio ovale della Casa Bianca.

Eleanor Roosevelt

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«Nessuno può obbligarvi a sentirvi inferiori, senza il vostro consenso»
Moglie di Franklin Delano Roosevelt, per la sua influenza e il suo attivismo fu considerata First Lady del mondo. Eleanor infatti non solo sostenne fermamente la politica del New Deal messa in atto dal marito, ma lavorò anche moltissimo per sostenere il movimento americano per i diritti civili e in particolare per quelli degli afroamericani. Durante la presidenza del marito, Eleanor inoltre tenne numerose conferenze stampa e scrisse in una rubrica di giornale. Alla morte di Roosvelt si impegnò con le Nazioni Unite nella lotta per i diritti umani e la parità di genere.

Jacqueline Kennedy Onassis

ANSA

«Non credo che ci siano uomini fedeli alla loro moglie»
Moglie di John Fitzgerald Kennedy, il Presidente che fra tutti è più entrato nel mito e nella leggenda (anche grazie alla sua relazione con Marilyn Monroe), Jacqueline diventa presto un’icona glamour, simbolo di eleganza e bon ton in tutto il mondo, ma spesso criticata in territorio americano per il suo essere troppo sofisticata, troppo “europea”, tanto da scegliere per esempio menù francesi per i ricevimenti alla Casa Bianca. Fu una fra le più giovani donne a diventare First lady (qualifica che non gradiva in quanto le ricordava l’appellativo che si sarebbe potuto dare più a un cavallo che alla moglie del POTUS), frequentò stilisti e condusse, suo malgrado, una vita sotto i riflettori dei media. Famosa per il suo charme riusciva ad ammaliare con il suo savoir faire ospiti e capi di stato come il generale Charles DeGaulle e il premier sovietico Nikita Kruscev. Altra immagine che fece il giro del mondo è la terribile scena dell’assassinio del marito a Dallas. Diventata vedova sposerà anni dopo l’armatore greco Aristotele Onassis guadagnandosi il soprannome di Jackie O.

Nancy Reagan

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Nancy Reagan alla Casa Bianca insieme a Barack Obama

Da attrice di b-movies a moglie di Ronald Reagan, anche lui attore, e successivamente presidente repubblicano. Nancy ebbe un ruolo decisivo nell’ascesa del marito alla Casa Bianca, era consigliera e amica fidata di Reagan: lo sosteneva e cercava di non farne trapelare le debolezze. I due furono, in un momento particolare della storia americana, protagonisti assieme a Michail Gorbaciov e Margaret Thatcher, della quale divenne anche amica. Nancy Reagan era famigerata anche per i suoi gusti estetici costosi e per la sua personalità forte e decisa. Si impegnò moltissimo per la lotta alla droga e l’informazione sulle conseguenze dell’abuso di sostanze.

Michelle Obama

First Lady Michelle Obama Speaks at Health Summit in Washington, DC

Moglie di Barack Obama, primo presidente afroamericano, nella storia degli Stati Uniti è stata spesso associata per stile e charme a Jackie Kennedy, è impegnata sul fronte dell’istruzione per le ragazze, soprattutto nelle aree del terzo mondo, per la parità di genere e ovviamente per i diritti degli afroamericani.

Claire Underwood

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Attualmente è la First Lady di fantasia più famosa. Moglie del fittizio presidente Usa Francis J. Underwood della serie tv House of Cards, Claire è bella ambiziosa e spietata a modo suo quanto il marito che ha supportato nella sua scalata al potere sacrificando spesso la sua carriera personale (comunque brillante). Ha fascino e charme e, probabilmente in una citazione di Jaqueline Kennedy, sembra affascinare molto il premier russo Petrov in visita alla Casa Bianca, tanto da avvicinarlo al marito nelle varie trattative diplomatiche. Nel corso della 4 serie la figura di Claire diventa sempre più autonoma e indipendente e chissà forse gli autori, ispirati da quanto accaduto con Clinton, potrebbero decidere un domani di farla correre per la Presidenza.

Aumentano gli italiani che non si curano. E gli incassi della sanità privata

Anziani e giovani accomunati dallo stesso destino: non possono permettersi le cure né gli uni, 2,4 milioni, né gli altri, 2,2 milioni. E un totale di 11 milioni di persone in Italia – solo quattro anni fa erano 9 milioni – non hanno potuto occuparsi come avrebbero dovuto della propria salute. Lo stato dell’arte della sanità pubblica lo descrive la ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentata a Roma in occasione del Welfare Day.

I soldi non bastano e si rinviano, a volte sine die, visite specialistiche e analisi cliniche. Dati che fanno il paio con quelli sulla flessione dell’attesa di vita e sull’aumento della mortalità per tumore legato a crisi economica e tagli. Chi può si rivolge, invece, ai privati e 7,1 milioni di italiani lo scorso anno hanno fatto ricorso all’intra moenia, soprattutto per non sottostare ai tempi impossibili delle liste d’attesa (nel 66,4% dei casi) ma anche (un altro 30,2%) per comodità di orario.

La quota di ticket, registra il Censis, che ogni persona paga in più al Servizio sanitario nazionale per avere delle prestazioni è di 84 euro arrivando a 569 euro pro capite l’anno contro i 485 del 2013. Aumenta anche – del 3,2% – la spesa sanitaria privata, arrivando a 34,5 miliardi di euro nel 2015. «Sono 10,2 milioni gli italiani che fanno un maggiore ricorso alla sanità privata rispetto al passato, e di questi il 72,6% a causa delle liste d’attesa che nel servizio sanitario pubblico si allungano», ha detto Marco Vecchietti, Amministratore Delegato di Rbm Assicurazione Salute.

Il 52% degli italiani considera inadeguato il servizio sanitario della regione. Per il 45,1% la qualità nella propria regione è peggiorata: lo pensa il 39,4% dei residenti nel Nord-Ovest, il 35,4% nel Nord-Est, il 49% al Centro, il 52,8% al Sud. Per il 41,4% è rimasta inalterata e solo per il 13,5% è migliorata.

5,4 milioni di italiani nell’ultimo anno hanno ricevuto prescrizioni di farmaci, visite o accertamenti diagnostici definiti “inutili”. Ma ciò nonostante la maggioranza (il 51,3%) è contraria a sanzionare i medici per questo motivo e non ha apprezzato (il 64%) il decreto sull’appropriatezza emanato lo scorso anno dal ministro Lorenzin.

Ai dati del Censis si aggiungono le stime, presentate ieri al Senato, della Fondazione Gimbe, che promuove le cure appropriate a fondate sull’evidenza scientifica. Gli sprechi del nostro Servizio sanitario ammonterebbero a 24 miliardi e il sistema non regge, dice il rapporto. Se la spesa continua a questi livelli, il sistema crolla entro dieci anni e, complice l’invecchiamento della popolazione, serviranno 200 miliardi contro i poco più di cento spesi attualmente ogni anno.

Una petizione per abbattere il Lungomuro di Ostia

«Virginia Raggi e Roberto Giachetti hanno entrambi la possibilità, nei giorni che ci separano dal ballottaggio, di fare una promessa: abbattere subito quel maledetto Lungomuro di Ostia». Comincia così l’appello del giornalista Giampiero Calapà su Change.org per chiedere ai candidati che si sfideranno il 19 giugno per la guida della Capitale, l’abbattimento del muro «che impedisce a romani e turisti di osservare l’orizzonte, di vedere il mare passeggiando, di accedere alla spiaggia senza dover passare per forza da cancelli, filo spinato, negozi e casette varie spesso abusive. Di affacciarci al Mediterraneo. Di voltare le spalle a Mafia Capitale».
«È una promessa difficile da fare – prosegue il giornalista del Fatto Quotidiano – perché quelle spiagge sono ostaggio dei potenti balneari e i voti dei potenti balneari sono voti che potrebbero risultare decisivi».

 

Sul “mare di Roma”, tra il Pontile e piazzale Cristoforo Colombo, 4 chilometri di abusi edilizi e spiagge a pagamento. Cemento e artefatti di varia natura impediscono l’accesso libero alla spiaggia. E di fronte al potere di alcuni operatori, l’amministrazione arranca. Il racconto di Left

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Otto miliardi per fermare le partenze. I dubbi sul piano migranti di Bruxelles

epa05350288 European Union Foreign Policy Chief Federica Mogherini (R) delivers a speech besides European Commission First Vice-President Frans Timmermans (L) during a debate on migration at the European Parliament in Strasbourg, France, 07 June 2016. EPA/MATHIEU CUGNOT

Entro il 2020 8 miliardi di euro saranno destinati dall’Unione europea alla conclusione di accordi bilaterali con i Paesi africani dai cui partono i migranti diretti nel Vecchio continente. È il punto centrale del piano della Commissione Ue per affrontare la cosiddetta emergenza migranti, nel quadro di una prospettiva a lungo termine e di nuovo Piano d’investimenti che, parole di Federica Mogherini, consentiranno all’Europa di «passare dalla logica degli aiuti alla logica degli investimenti».

L’alto rappresentante per la Politica estera e di Sicurezza dell’Unione, che ieri ha presentato il piano all’Europarlamento con il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans, parla di «una svolta rivoluzionaria, copernicana per il continente africano» e non solo nella gestione dei flussi migratori. Mezzo miliardo di euro del bilancio comunitario – gli unici fondi per ora certi – sarà ora destinato a rimpinguare l’Africa trust fund e altro mezzo miliardo potrebbe essere stanziato dai Paesi membri. Un miliardo in tutto che aggiungendosi agli altri sette disponibili a diverso titolo serviranno a promuovere le economie dei Paesi coinvolti per offrire ai potenziali emigrati ragioni in più per restare in patria.

Per ora si potranno stringere accordi bilaterali con Giordania, Libano, Tunisia, Niger, Mali, Etiopia, Senegal, Nigeria e Libia. «Ma nel tempo si aggiungeranno altri in Africa e Asia» fa sapere il commissario agli Affari interni Dimitris Avramopoulos. Il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, ha espresso le proprie perplessità in una nota: «L’aspetto positivo è che per la prima volta in questo documento la Commissione Europea, a differenza del Migration Compact presentato dall’Italia, include anche politiche di cooperazione con importanti Paesi di primo rifugio come il Libano e la Giordania, dove attualmente sono ospitati milioni di siriani. Purtroppo non viene però specificato il tipo di interventi che in questi Paesi potranno e dovranno essere sviluppati».

Altro punto controverso è quello degli strumenti identificati per ridurre il business dei trafficanti di esseri umani e le morti in mare. Strumenti che il Cir definisce «assolutamente inadeguati» perché il documento definisce come unica modalità d’ingresso legale in Europa il reinsediamento, «uno strumento importante ma che prevede procedure lunghe e difficoltose».

Da più parti, poi, si evidenzia il rischio che questi accordi – la cui definizione non sarà semplice, come dimostra il caso della Turchia – finiscano per finanziare potentati locali, spesso corrotti e violenti, e non raggiungano i risultati promessi. «L’investimento deve essere fatto non per tenere i rifugiati lontani dall’Europa ma per dare ai rifugiati una opzione e una reale protezione anche in questi Paesi» aggiunge il portavoce del Cir Christopher Hein, «permettere loro di rimanere vicini alle loro case, qualora questo sia il loro desiderio, in piena sicurezza e con possibilità di integrazione. Un discorso di potenziamento del sistema di protezione per rifugiati che crediamo dovrebbe essere fatto anche per Etiopia e Niger».

La Commissione ha anche annunciato un Piano d’investimenti estero con 3,1 miliardi di bilancio iniziale e la prospettiva di raddoppiare la cifra se i 28 Paesi membri accetteranno di contribuire. Così, dicono i commissari di Bruxelles, si darebbe vita a investimenti per 62 miliardi. Con i fondi in mano agli investitori soprattutto privati e il rischio – da scongiurare ad ogni costo – che finiscano, come è già accaduto, per arricchire pochi e costringere gli altri a scappare.

Il rock senza fronzoli di Daniele Celona in anteprima e free download su Left

Oggi e domani su Left è possibile scaricare gratuitamente Dalla guerra alla luna (Noeve Records, 2016), l’ultimo lavoro di Daniele Celona. È un ep di cinque brani live, estratti dall’ultima data dell’Atlantide Tour, con un videoclip a corredo (qui sopra, per guardarlo cliccate il tasto play) che documenta l’intera giornata del 15 aprile 2016. Insieme alla voce e alla chitarra di Celona, i musicisti Marco Di Brino, Davide Invena, Mario Rossi, Anthony Sasso e Bea Zanin.

clicca qui per scaricare gratuitamente Dalla guerra alla luna di Daniele Celona

«Vi invito ad ascoltare i miei brani perché di questo parlano, del quotidiano: dalla metafora del grottesco alla fine c’è sempre la figura dell’Uomo immerso nell’oggi con tutti gli ostacoli che questa società impone». Torinese dalle origini sarde e siciliane, Daniele Celona è cantautore, è compositore, è produttore artistico. E, soprattutto, Daniele Celona è rock. Struggente e liberatorio. E, se è il caso, anche feroce. Rock d’amore e di politica. Celona canta e suona senza fronzoli. Mentre prepara il tour estivo – ad agosto sarà sul palco dell’Indiegeno Fest di Tindari – gli abbiamo fatto qualche domanda.

Daniele, sai che Left non è una rivista di settore, perché i nostri lettori dovrebbero scaricare e ascoltare il tuo disco?
Innanzitutto perché dò al termine “politica” un senso e un significato molto più nobile di quello a cui siamo abituati da italioti. C’è un’alta sfiducia nella politica, però etimologicamente il termine riguarda il nostro vivere quotidiano, sarebbe una delle missioni più nobili che un uomo potrebbe imporsi: quella di mettersi al servizio degli altri e fare il bene del proprio vicino, del proprio prossimo, del proprio Paese. E non quella di scaldare una poltrona… Quindi vi invito ad ascoltare i miei brani perché di questo parlano, del quotidiano: dalla metafora del grottesco alla fine c’è sempre la figura dell’Uomo immerso nell’oggi con tutti gli ostacoli che questa società impone. È proprio lì che pongo la lente d’ingrandimento.

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Il video di Luna è un live interamente girato al Diavolo Rosso, chiesa sconsacrata di Asti che per sedici anni ha ospitato la cultura alternativa, e che adesso ha chiuso. Perché questa location?
La mia rischia di essere l’ultima data di alternative italiano al Diavolo Rosso. In questo momento in cui chiudono molti locali storici, quella sera è stata un’emozione particolare sentire che quella poteva essere l’ultima data in un luogo così suggestivo. Il video è più un report della giornata, una narrazione che riassume quello che abbiamo fatto in un anno e mezzo di live in Italia.
Il Diavolo Rosso chiude perché la proprietà ha deciso di vendere e non più di affittare all’associazione che l’ha gestito in questi sedici anni, ma deriva anche un po’ dal momento di stanchezza nel Paese. Un momento che è allargabile a tutta la nazione, la musica dal vivo non sta premiando, sta diventando di nicchia. E c’è una forbice che si allarga tra chi fa anche 200 km per andare a vedere un concerto e chi anche se ha un evento sotto casa non si muove. Noi musicisti che giriamo in lungo e largo per l’Italia lottiamo quotidianamente contro questo aspetto, siamo lusingati da chi fa 200 km per venirci a sentire ma una massa critica maggiore garantirebbe una longevità maggiore a noi e ai locali che fanno musica e cultura.

L’intimo e il politico, il privato e l’universale. Spesso parti piano per poi stenderci con un rock quasi violento nei toni e nell’energia. E viceversa. Con chi ce l’hai?
Sì, questo tipo di escursione e contraddizione c’è, e non solo nella dinamica ma anche nei registri vocali e nel linguaggio. Deriva dai miei studi di pianoforte classico, avendo studiato quel tipo di cambio tra il lento e l’allegretto e via dicendo… quando ho iniziato a scrivere, rispetto alla canzone tradizionale italiana, mi è sempre mancato quel tipo di escursione. Alla fine il modo che ho trovato per riproporla è questo, negli anni poi ho imparato a gestire la voce in modo, con questi cambi feroci, da turbare l’ascoltatore. È un corollario, non lo vado a cercare a tavolino ma mi gratifica.

Daniele_Celona_2014_BW_2-e1420581618576Ancora una domanda. Nell’epoca dei synth tu usi chitarre, basso e batteria. Eppure sei un pianista, e vieni dall’elettronica. È una scelta di gusto o cosa?
Mi sono spostato su chitarra e voce perché non ne avevo una visione dall’alto, mi sono buttato. È stato come un salto nel buio in qualcosa che non riuscivo a gestire bene. Sai, un brano assume un vestito diverso a seconda di cosa hai sotto le mani, quello che scrivi con un pianoforte avrà un certo gusto, quello che scrivi con un pedale o un fuzz molto distorto ne avrà un altro. Avevo voglia di innescare distorti e schiacciare pedali, ma non è detto che non torni a usare tastiere e synth. Ho scelto egoisticamente senza pensare a mode o effetti collaterali, è una fase creativa, non vado per forza controcorrente. Un vestito non deve diventare una prigione. Seguo quello che mi dice il cuore.

L’antimafia gentile di Pina Maisano Grassi

Pina Maisano Grassi morta

Era la “nonna” dei ragazzi di Addio Pizzo. Pina non è stata semplicemente la vedova di Libero Grassi (vittima di mafia e di uno Stato che non riesce troppo spesso a proteggere i suoi uomini) ma era la prosecuzione dello stesso impegno. Pina è Libero Grassi: lo stesso impegno contro il pizzo, lo stesso ostinato ottimismo e la stessa voglia costante di costruire (oltre che credere) a un Paese migliore.

La morte di Pina è una notizia che scuote perché noi avevamo bisogno di lei. Ne avevamo bisogno proprio ora che il movimento antimafia sembra essersi incastrato nelle sue mille invidie e incapace di riacquistare il sorriso. Ecco, il sorriso, di Pina, il sorriso che riusciva a mantenere mentre raccontava di suo marito lasciato solo dai colleghi, il sorriso di quel loro ribellarsi al pizzo per rispetto a sé stessi oltre che per passione delle regole, la gentilezza con cui ripercorreva le fasi di una tragedia diventata un racconto d’amore erano per molti l’antidoto all’imbruttimento è il lascito della famiglia Grassi.

Chi l’ascoltava rimaneva colpito dall’antimafia gentile di lei che raccontava, con gli occhi di un’adolescente dentro quel corpo minuto e consunto, dei suoi “tanti nipoti” (chiamava così i fondatori di Addio Pizzo) e di come ne sarebbe stato orgoglioso Libero. Non c’era mai un’ombra di vendetta e nemmeno un goccio di rivalsa cattiva nel suo comportamento: Pina preferiva usare le parole per il bello, coltivava speranza. Anche l’omicidio di Libero, detto tra lei, non aveva nemmeno l’odore rancido del sangue o della polvere da sparo.

Buon viaggio, Pina.

Hillary Clinton è la prima donna a correre per la Casa Bianca

epa05351006 US presumptive Democratic Party Presidential nominee and former Secretary of State Hillary Clinton (C) addresses her supporters during a Primary Night campaign event at the Brooklyn Navy Yard in Brooklyn, New York, USA, 07 June 2016. On Monday Mrs. Clinton exceeded the delegate threshold to become the presumptive Democratic Party nominee for the President of the United States. EPA/PETER FOLEY

Sono arrivate anche le congratulazioni di Barack Obama. Hillary Clinton rivendica la conquista della nomination per le presidenziali Usa – ed è la prima volta per una donna – dopo le vittorie decisive in New Jersey e New Mexico. Salita sul palco a Brooklyn per ringraziare i suoi supporter, Clinton ha sottolineato il “momento storico” di cui è protagonista e ha fatto immediatamente appello ai sostenitori di Bernie Sanders, che ha ringraziato per il dibattito vigoroso, a unirsi con lei contro il candidato repubblicano Donald J. Trump. Quest’ultimo ha subito strizzato l’occhio ai sostenitori di Bernie dicendo che in queste primarie il candidato “socialista” «è stato lasciato fuori al freddo con un sistema truccato».