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Bruciate perché non volevano essere sabaya. La vita delle schiave sessuali di Isis

La loro colpa? Essersi rifiutate di diventare delle schiave sessuali. Per questo, a quanto riferisce l’agenzia di stampa Ara – Kurdish News Agency, a Mosul 19 ragazze curde sarebbero state bruciate vive e sulla pubblica piazza da miliziani di Daesh, dopo essere rinchiuse in gabbie di ferro.
Le 19 donne trucidate facevano parte di un gruppo più ampio di rapite da Isis nell’agosto del 2014 non lontano da Mosul. Le stime dell’Onu parlano di 3.500 donne yazide nelle mani degli uomini del califfato di Abu Bakr al Baghdadi.
Degli stupri e della schiavitù della donne yazide si parla da tempo, fece molto scalpore un articolo del giornalista del New York Times Rukmini Callimachi, esperto di terrorismo, uscito la scorsa estate dove veniva spiegata come mai prima la “teologia dello stupro” fosse stata messa in pratica dal sedicente stato islamico ai danni di questa minoranza che vive fra Iraq e Siria.
Callimachi raccontava attraverso una serie di testimonianze dirette di ragazze vittime degli abusi dei miliziani di al Baghdadi e spesso quasi bambine o minorenni, riuscite a fuggire per miracolo dalla prigionia, come si perpetrano le violenze e perché queste siano considerate eticamente e religiosamente appropriate dai seguaci dello Stato islamico.
«Prima di stuprare una bambina di appena 12 anni il combattente dello Stato Islamico, prende del tempo per spiegare che quello che sta per commettere non è un peccato, anzi. Dato che la ragazzina professava una religione diversa dall’Islam, il Corano – nella lettura estrema dei miliziani di Daesh – non solo gli da il diritto di abusare di lei, ma addirittura lo incoraggia a farlo» si legge nell’articolo del quotidiano newyorchese.
La dinamica è a dir poco agghiacciante: l’uomo la lega e la imbavaglia. Prima di saltarle addosso e iniziare la sua aggressione, si inginocchia a fianco al letto e prega. Dopo esegue lo stesso rituale per offrire ad Allah la sua macabra, orribile devozione. A lei che urla e grida per il dolore supplicandolo di fermarsi dice che secondo quanto stabiliva la sua fede gli era concesso stuprare un infedele, che quell’atto lo «avvicina a Dio».

Gli yazidi sono una popolazione di lingua curda che vivono per la maggior parte nel nord dell’Iraq, la loro religione è una summa dei vari credi che si sono diffusi in Medio Oriente: islam, cristianesimo, ebraismo e zoroastrismo. E proprio per questo sono considerati i più infedeli fra gli infedeli. Se infatti ebrei e cristiani dei territori conquistati teoricamente possono salvarsi pagando una consistente tassa a Daesh, per gli Yazidi, impuri fra gli impuri, non c’è alcuna possibilità di salvezza e vengono automaticamente declassati a un rango di non umanità. Per le donne in genere però è tutta un’altra storia: anche ebree e cristiane di territori conquistati possono essere stuprate, ma comunque la schiavitù sessuale è destinata solo alle yazide.
Le aggressioni contro questa minoranza iniziarono nell’estate del 2014, con l’attacco al monte Sinjar, e poco dopo, il 3 agosto dello stesso anno, lo Stato Islamico annunciò l’istituzione della schiavitù sessuale. Addiruttura il dipartimento della ricerca e della fatwa dell’ISIS diffuse un vero e proprio manuale di 34 pagine, nel quale indicava le regole per la corretta “gestione” delle schiave sessuali, o meglio delle “sabaya”, come le chiamano i combattenti di al Baghdadi.
L’istituzionalizzazione della tratta ha creato una vera e propria infrastruttura per la gestione delle yazide che dopo essere state rapite e catturate vengono in genere trasportate e stipate in dei magazzini, come fossero una merce, controllate e marchiate. Il male e la violenza vengono burocratizzati con procedure che vengono seguite nei minimi dettagli. Razionalizzati fino a cancellare ogni briciolo di umanità nelle vittime e di colpa negli aggressori che, per lo Stato Islamico, diventano semplicemente i legittimi possessori di un bene di cui possono disporre a loro piacimento. Un bene che può essere legalmente ceduto o venduto tramite un contratto ritenuto legittimo dai tribunali islamici. Non esiste un limite a quello che può essere fatto alle schiave, tutto è permesso, anche stuprare delle bambine se sono delle “sabaya”.
La burocratizzazione della violenza si spinge oltre quando per rendere le schiave più efficienti e utilizzabili a proprio piacimento vengono loro somministrati forzatamente anticoncezionali, ogni donna viene venduta e passata di proprietario in proprietario con la sua scatola di pillole. Secondo un’antica legge islamica infatti un uomo deve assicurarsi che la sua schiava non sia incinta prima di abusare di lei, è così che gli anticoncezionali della “peccaminoso” Occidente vengono in soccorso ai fanatici di Is che possono così portare avanti violenze e brutalità proprie di un mondo arretrato e retrogrado. Preziose in questi termini anche le testimonianze pubblicate recentemente sul blog, sempre del New York Times, “Women in the world”. L’articolo infatti spiega come più di 30 delle Yazide che recentemente sono riuscite a sfuggire a Is hanno raccontato le loro esperienze e descritto l’utilizzo di svariate forme di contraccezione, sia orali che iniettabili. Secondo una clinica delle Nazioni Unite inoltre solo il 5% per cento delle 700 donne yazide ritornate a casa dopo aver subito stupri da parte di Isis erano rimaste incinta.
«Ogni giorno – racconta una delle ragazze – dovevo ingoiare la pillola davanti a lui. Mi dava una scatola al mese. Quando mi ha venduto a un altro uomo, la scatola è venuta con me».
E l’incubo è continuato.

Make America Rage Again, il supergruppo Morello-Chuck D-B Real lancia la sfida a Trump

Alzi la mano chi non vorrebbe essere al concerto dei Prophets of Rage a Cleveland il 19 luglio. Non che debba per forza piacere la musica del supergruppo per averne voglia. I “Profeti della rabbia” sono una band composta dai tre Rage Against the Machine del chitarrista/attivista Tom Morello con alla voce i rapper Chuck D e B Real, rispettivamente frontman di Public Enemy e Cypress Hill. Nella città dell’Ohio, invece, il 18 luglio comincia la convention repubblicana e i Prophets hanno intenzione di disturbarla più che possono: «Abbiamo una sala prenotata, ma ci potrebbero essere dei palchi volanti in giro per la città, chissà».

No Sleep ‘til Brooklyn dei Beastie Boys, mashed up con Fight the Power dei Public Enemy

«Non possiamo stare a guardare. Tempi pericolosi chiedono canzoni pericolose. E ora di riprenderci il potere», sul sito dei Prophets c’è scritto così e il supergruppo ha intenzione di girare l’America (25 le date previste) facendo campagna attiva contro Trump. Il tour ha un nome che prende in giro lo slogan della campagna Trump: «Make America Rage Again» – la campagna del miliardario è Make America Great Again – e prevede materiale originale, cover e molte cose dei tre gruppi risuonate e ripensate, come la cover dei Beastie Boys del video qui sopra. Del resto Chuck D e Tom Morello sono tra le figure chiave della militanza musicale americana capace di riempire stadi negli anni 90 e sono stati molto impegnati ovunque e comunque ci sia una mano da dare (qui sotto Morello fotografato alla manifestazione per un anno di Occupy Wall Street a New York nel 2012). E, come hanno detto in diverse interviste: «Siamo in una fase in cui c’è un delirio elettorale qui in America e la follia dal punto di vista ambientale nel pianeta. E non c’è nessuna musica capace di parlare forte e chiaro di questi temi…Martin Luther King diceva che c’è un posto speciale all’inferno per coloro che decidono di rimanere neutrali in tempi di battaglie morali epocali. Questo è uno di quei tempi e noi sfuggiamo alle fiamme dell’inferno portando in giro rock duro e hip-hop».

 

In queste settimane i nostri, ovvero la band di Rage Against the Machine con i due rapper tra i migliori in circolazione di sempre, hanno fatto qualche concerto di allenamento prima del tour. In un caso, quello di Brooklyn da cui sono tratti i video qui sotto, il biglietto era 10 e 20 dollari e l’incasso andava a un’organizzazione che aiuta gli homeless. Per queste ragioni e, per coloro a cui piace, per la potenza della base e quella delle parole, chi sarà a Cleveland il 19 luglio si divertirà.

 

L’innocenza perduta di Istanbul. Al cinema il film sul museo di Pamuk

Pamuk, Museo dell'Innocenza

Arriva al cinema in Italia  Istanbul e il Museo dell’Innocenza di Pamuk. Quando l’immaginazione diventa realtà, il film di Grant Gee dedicato al Museo dell’Innocenza fondato dal premio Nobel Orhan Pamuk nella sua città Istanbul. In un momento drammatico per questa straordinaria città cosmopolita, che per millenni ha ospitato cittadini e viaggiatori da ogni parte del mondo. E ora di nuovo colpita al cuore dal terrorismo.  Che uccide civili per le strade e allontana i turisti da questa metropoli che fa da straordinaro ponte fra Oriente e Occidente.

Proprio di turismo vive il museo concepito dal grande romanziere turco, aitore di Il mio nome è rosso.  Che oggi non ha più bisogno degli investimenti del suo fondatore ed è arrivato ad auto sostenersi, grazie ai biglietti venduti. Un fatto che sembrava impensabile quando Pamuk concepì l’idea di questo museo (nato dal suo omonimo romanzo pubblicato in Italia da Einaudi) che racconta una Istanbul che non c’è più  o forse non è mai esistita se non nell’immaginazione dello lo scrittore.

Il merito maggiore del film di Gee presentato in anteprima all’ultimo festival del cinema di Venezia e nelle sale italiane il 7 e l’8 giugno distribuito da Nexo Digital è riuscire a combinare il racconto dell’attualità – la stretta autoritaria che la città sta vivendo, la crescita continua e smisurata della città, la cementificazione e la perdita della memoria – con l’aspetto poetico, letterario, del museo, l’atmosfera affascinante, fuori dal tempo eppura viva, che si repira nelle sue sale ovattate, che accolgono lo spettatore come una casa di amici.

coverlg_homeIl museo dell’Innocenza sorge  nel cuore antico di Istanbul. Dopo  la caduta di Costantinopoli (la presa di Costantinopoli dal punto di vista ottomano) nel 1453 questa era la parte della città abitata da minoranze non musulmane a cui il governo guardava con sospetto, ma anche la zona «delle migliori bettole dell’epoca ottomana» come scrive lo stesso Orhan Pamuk. Parliamo del quartiere di çukurcuma.

Qui, prima dei progrom ordinati dal governo turco (l’ultimo avvenne ne 1955), greci, armeni ed ebrei gestivano panetterie, negozi di rigattieri, drogherie, botteghe artigiane e altri piccoli commerci.

Di quell’epoca sopravvivono ancora alcune belle palazzine, fra scheletri di più antiche abitazioni ottomane in legno, andate a fuoco. Oggi svettano cieche e abbandonate fra gallerie d’arte, negozi vintage e nuovi bistrot frequentati da studenti e scrittori. L’università intitolata a Sinan, il grande architetto del Rinascimento ottomano, non è lontana. Certi angoli ricordano i poetici scatti in bianco e nero del fotografo turco Ara Güler, il cantore di Istanbul in fotografie di struggente bellezza.

Più dei confinanti quartieri di cihangir e beyoglu, çukurcuma, del resto, è il quartiere dei contrasti, della modernità più trendy e cosmopolita che vive accanto ai resti del passato, evocando i fantasmi di uno splendore ottomano irrimediabilmente perduto.

Insieme le due anime della città – moderna e antica, occidentale ed asiatica – contribuiscono a creare quella atmosfera che rende speciale Istanbul. Un sentimento poetico «per molti versi simile a quello che gli artisti occidentali hanno sempre chiamato malinconia», nota Pamuk e il film ricrea nelle immagini, «che qui si chiama hüzün ed è una forma di tristezza, non individuale e privata, ma collettiva e condivisa. Per uno splendore passato che è svanito e che ha lasciato un vuoto incolmabile».

Con152250Segretamente questa vaga malinconia appare come il genius loci, la malta invisibile che tiene insieme questa immensa città di 11 milioni di abitanti, che si stende lungo le due ali del Corno d’oro.

L’hüzün pervade la letteratura e la musica turca, ma è anche un modo di affrontare la vita. E mentre riflettiamo su come le strade di çukurcuma paiano addirittura plasmate da questo sentimento, d’un tratto,  mimetizzato tra altre palazzine, appare il Museo dell’Innocenza. Così successe quando alcuni anni fa ci andai di persona, con  amici particolarmente cari.

Il colore rosso amaranto e l’insegna dal gusto retrò lo segnalano al passante come un museo piuttosto insolito, all’interno di una affascinate casa torre a più piani. Il portone era chiuso, nessuno all’ingresso. Ma poi dal seminterrato spuntò il sorriso dell’addetto alla biglietteria e un gigante in divisa ci fece entrare raccomandandosi di non fare rumore: l’effetto, straniante,  fu quello di entrare in casa di qualcuno mentre lui non c’è.

Davanti agli occhi di noi allora e degli spettaori del film c’è una scala a chiocciola, e una lunga teoria di bacheche piene zeppe di cimeli, di oggetti, di ricordi, di ritagli di giornale, di giochi, di reclame. Un pullulare di «buone cose di pessimo gusto» avrebbe forse detto Guido Gozzano. Che a guardare meglio si rivelano essere i tristi souvenir di un amore a cui il giovane Kemal, per ossequio alle regole di una alta borghesia turca, occidentalizzata e fortemente classista, ha voluto-dovuto rinunciare. Lei, bellissima, si chiamava Füsun e faceva la commessa. Lui era il rampollo di una famiglia bene nella Istanbul degli anni Settanta, già destinato a una fanciulla del suo rango.

Ecco_of_Memories_1Kemal e Füsun sono i protagonisti del romanzo Il Museo dell’innocenza (Einaudi, 2009) che Pamuk ha scritto e pubblicato nel 2008 prima di realizzare questo museo: uno dei più insoliti e bizzarri fra quanti possa capitare di vedere.  Come mostra il regista Grant Gee, sbirciando attraverso i vetri delle teche d’antan ai lettori più attenti di Pamuk, nel frattempo non sarà certo sfuggito l’orecchino che Füsun perse quella volta facendo l’amore con Kemal e i tanti mozziconi, con le tracce del rossetto della ragazza, che punteggiano quella passione che a Kemal è fuggita fra le dita. Il romanzo di Pamuk danza intorno alle memorie di questo amore. Precipitate fisicamente in oggetti. Che Pamuk ha recuperato dai robivecchi, nei bric a brac, in casa di amici e parenti oppure si è fatto costruire ad hoc dagli artigiani del quartiere.

«Vedi, in questi silenzi in cui le cose s’abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto», recitano i versi di Eugenio Montale che Pamuk a scelto come esergo de L’innocenza degli oggetti, il libro catalogo del museo uscito in Italia per Einaudi e che racconta la lunga gestazione di questa esposizione di oggetti reali di una storia immaginata, ma che «non vuole essere in nessun modo un’illustrazione  grafica del romanzo».

Strade-of-Memory-26-©G.Gee_Semmai un proseguimento del romanzo su un altro piano creativo, stabilendo nessi inediti fra letteratura e arti visivi, ma anche sollecitando il pubblico ad interrogarsi sulle tragiche amnesie che attraversano la storia turca. L’apertura del Museo dell’innocenza era già annunciata per il 2009, l’anno di Istanbul città europea della cultura. Ma fu Pamuk stesso a voler rimandare l’inaugurazione per non portare acqua a quel governo turco, che nel 2005 lo aveva incriminato per insulto all’identità nazionale a seguito di alcune dichiarazioni che lo scrittore aveva fatto ad una rivista svizzera sul massacro da parte dei turchi di un milione di armeni e 30mila curdi in Anatolia durante la prima guerra mondiale.

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Ondata di Piena

Sì, lo so, stiamo tutti guardando la piena della Senna, le sue acque scure e limacciose che hanno lambito i fianchi dello zuavo, la statua del ponte dell’Alma che misura il crescere del fiume. Piove a Parigi da giorni e queste piogge straordinarie sono un altro dei segni del cambiamento climatico che ci ostiniamo a non prendere sul serio. Come spesso accade, il nostro sguardo si ferma alla punta dell’iceberg, incapaci come siamo di comprendere le complessità di un mondo che sta cambiando più velocemente di quanto non ci venga raccontato. Tutto è così drammaticamente collegato che sbrogliare la matassa diventa un compito sempre più difficile, eppure proprio per questo irrinunciabile.
Il governo francese spera che la catastrofe naturale (la pioggia cade dal cielo dopotutto, che ci possiamo fare?) e il campionato di calcio (anche il calcio è una sorta di entità superiore) plachino il clima di crescente tensione, talvolta violenza, che scuote il paese da mesi. – Guardate la punta dell’iceberg, al resto pensiamo noi – sembrano dire (con l’aiuto della polizia e delle sue maniere assai discutibili) . Il sindacato si è rifiutato di sospendere gli scioperi per rispetto alle vittime delle alluvioni e alcune azioni di disturbo sono previste per il giorno di inaugurazione del Campionato Europeo 2016. “On lâche rien”, non molliamo niente, è uno degli slogan che si ritrova in tutte le manifestazioni e nelle piazze.

Nuit Debout in Paris

Sabato quattro giugno, 96 marzo per il calendario Nuit Debout, place de la République è tutta avviluppata in un nastro bianco con su scritto “Zone hors TAFTA”, zona fuori TTIP, il trattato di scambio transatlantico che viene negoziato da mesi senza alcuna trasparenza. L’enorme cavallo di troia gonfiabile che troneggia in mezzo alla piazza spiega meglio di molte parole a quale rischi l’Europa stia andando incontro. Anche l’orchestre debout, che si riunisce oggi per il quarto concerto, dedica il suo repertorio all’Europa, alla difesa dei suoi valori e al Brasile che attraversa una fase difficile della sua storia. E allora tatatata, ecco il primo movimento della Quinta Sinfonia di Beethoven, seguito dal Coro dei Gitani dal Trovatore di Verdi, Paris-mai la canzone del ‘68 di Claude Nougaro e per finire Apesa Você di Chico Buarque. L’acustica è pessima perché in piazza ci sono altri dibattiti, i musicisti hanno avuto soltanto un’ora per provare eppure seduti qui per terra, ci vengono i brividi. Anche l’arte è diventata un bene di consumo, un bene di lusso misurato esclusivamente sul suo valore economico.

Nuit Debout in Paris

È importante che la gente rimanga in piazza per dare tempo al movimento di organizzarsi, di diventare un soggetto politico dotato di una strategia, capace di darsi degli obiettivi a lungo termine, di coinvolgere parti sempre più ampie e trasversali della società. Per organizzarsi servono tempo e fatica, non basta una sollevazione spontanea, l’azione di pochi individui isolati. E servono delle buone idee, delle invenzioni nuove, anche lo sciopero tradizionale come strumento di lotta mostra i suoi limiti: per chi è uscito dal mondo del lavoro, per chi non ci è mai entrato, per è chi precarizzato, perduto, disperato, che senso può avere scioperare? I diritti sociali dovrebbero essere legati all’individuo non al suo status socio-professionale. Mi domando se queste piazze francesi serviranno davvero a incubare qualcosa. A dare il coraggio alla gente di andare a guardare cosa si nasconde sotto la punta dell’iceberg. E a manifestarsi come un’ondata di piena.

Attentato a Istanbul, continua la scia di sangue in Turchia

Istanbul, 7 giugno. Il luogo dell'attentato. ANSA/SEDAT SUNA

La Turchia, dopo gli attentati nei mesi scorsi, ripiomba nel caos: 11 morti e 36 feriti dopo una violenta esplosione questa mattina nel centro di Istanbul. Mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdogan continua imperterrito, nonostante i richiami dell’Ue, a portare avanti la sua dura politica antiterrorismo  i terroristi seminano la morte nel Paese. L’attentato – di cui ancora non è pervenuta la rivendicazione – è avvenuto nell’ora di punta a un incrocio molto trafficato nel quartiere di Beyazit.

Il luogo dell'attentato, Istanbul, 7 giugno. ANSA/SEDAT SUNA
Il luogo dell’attentato, Istanbul, 7 giugno. ANSA/SEDAT SUNA

Una bomba dentro un’auto parcheggiata è esplosa nel momento in cui passava un autobus della polizia. Sette delle vittime sono agenti, secondo quanto riferisce il governatore di Istanbul Vasip Şahin. La zona è frequentata da turisti e il luogo dell’attentato è vicino ad un edificio dell’università di Istanbul. Le  immagini mostrano la violenza dell’esplosione: un mucchio di lamiere accartocciate e dopo l’incendio ridotte a una massa nera. L’autobus è stato ribaltato e i detriti dopo lo scoppio dell’ordigno hanno provocato danni anche a edifici vicini. Nell’area,  vi sono anche alberghi famosi frequentati da stranieri, come il Celal Aga Konagi Hotel.

ANSA/SEDAT SUNA
ANSA/SEDAT SUNA

La via vicina al luogo dell'attentato (AP Photo/Emrah Gurel)
La via vicina al luogo dell’attentato (AP Photo/Emrah Gurel)

Il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu ha espresso una condanna dell’attentato tra l’altro facendo notare come sia avvenuto nel secondo giorno del Ramadan.
Quello di oggi è l’ultimo di una serie di attentati che in questo 2016 ha gettato nel terrore tutta  la Turchia. La dinamica dell’esplosione di questa mattina ricorda quella dell’autobomba scoppiata ad Ankara il 14 marzo. Allora i morti furono 37, tutti passeggeri che aspettavano l’autobus. Uno dei due kamikaze era una studentessa legata al gruppo scissionista del Pkk, il Tak (Kurdistan Freedom Falcons) che rivendicò l’attentato. A Istanbul l’anno era iniziato, il 12 gennaio, con la strage di turisti (12 di cui molti tedeschi) causata da un kamikaze dell’Is che si era fatto esplodere nella piazza della Moschea Blu. Così come attribuito ai fondamentalisti jihadisti fu l’attentato più sanguinoso, quello del 10 ottobre 2015 durante una marcia della pace a cui partecipavano i partiti di opposizione: in quell’occasione i morti furono 97.

 

“It’s a girl”: Clinton ha i delegati necessari a ottenere la nomination

Lo sapevano tutti da settimane, forse mesi, oggi è successo: secondo il computo dei delegati alla convention di Philadelphia fatto da Associated Press, Hillary Clinton è la candidata presidente dei democratici. L’idea di tutti era che l’ex senatore di New York avrebbe raggiunto il numero fatidico nelle prossime ore, dopo il voto in California e New Jersey, ma la dichiarazione di voto di un nuovo drappello di superdelegati – gli eletti del partito, delegati di diritto alle convention – hanno reso il voto nei due Stati meno stringente.
La reazione della campagna Clinton è affidata a questo tweet: “Siamo lusingati, ma vediamo di vincere dove si vota oggi”.

Certo, se Bernie Sanders dovesse vincere in California, dove i sondaggi lo danno indietro di due-tre punti, potrebbe di nuovo sostenere che il vento è dalal sua parte ed è lui che a più possibilità di battere Trump, ma la matematica direbbe comunque Hillary. La assegnazione dei delegati alla convention è infatti proporzionale e Clinton al momento ne conta 1812 eletti contro i 1521 di Sanders, se in California e negli altri Stati la posta di più di 800 delegati si dividesse a metà, l’ex first lady ne conterebbe 2200 e il senatore del Vermont 1900. Nessuno dei due avrebbe ottenuto la nomination ufficialmente solo con i voti degli elettori, ma Hillary sarebbe comunque avanti. Hillary deve quindi sperare di vincere nella maggioranza degli Stati e soprattutto in California, Bernie spera anche lui di spuntarla e sta facendo una campagna intensissima nello Stato più popoloso del Paese. Questo il messaggio affidato al suo account: andate e votate, se volete un cambiamento vero. A oggi Hillary ha vinto la maggioranza degli Stati dove vivono grandi minoranze afroamericane e ispaniche e anche stavolta la campagna è molto mirata a quei gruppi: i tweet e il materiale di propaganda, in California è anche tutto in spagnolo.

È tutto sommato un momento storico: per la prima volta gli americani si troveranno a decidere se eleggere una donna presidente. Nella notte vedremo se Bernie ha ancora la capacità di vincere dopo l’annuncio di Associated press. Dalla sua ha l’argomento che Clinton vince grazie ai superdelegati, l’establishment del partito. Contro ha la matematica – e il fatto che Hillary ha comunque preso tre milioni di voti in più di lui fino a oggi. Difficile prevedere se e quando Sanders deciderà di concedere la vittoria a Hillary. In fondo l’ex first lady sconfitta da Obama nel 2008 lo fece qualche giorno dopo la California, anche se da settimane era evidente che a raccogliere più voti era stato Obama. E anche a quella convention nessuno dei candidati aveva la maggioranza assoluta. Le prossime settimane saranno all’insegna di due cose: le trattative tra la campagna Sanders e quella Clinton sullo spazio ai temi proposti dal senatore del Vermont alla convention e l’inizio di una escalation di attacchi di Trump contro l’ex first lady. Nelle prossime settimane scenderà in campo anche il presidente Obama, che non vede l’ora, dicono dallo staff, di tornare a fare comizi contro Trump. Il candidato repubblicano nei mesi scorsi ha scherzato sull'”africano americano” e ha detto più volte che forse Obama non è nato in America, sposando la teoria del complotto per cui non potrebbe essere presidente. Obama se l’è legata al dito e vuole dare una mano a sconfiggerlo. Anche perché è convinto che senza un nuovo presidente democratico, molto dle lavoro da lui fatto, a cominciare dalla riforma sanitaria, sarebbe a rischio. La corsa che ci dirà chi a novembre diventerà il presidente eletto più potente del mondo comincia domani.

Que se vayan a la mierda

Alla fine si è riusciti a fare peggio di Renzi. Dico il giorno dopo, ieri, quando davvero a sinistra abbiamo dovuto ascoltare le voci di chi vorrebbe convincerci che non sia andata così male, che è un buon inizio, e addirittura che a sinistra le cose sono andate così così per colpa del PD. Incredibile: i democratici perdono voti che la sinistra non riesce a raccogliere e nemmeno così è colpa loro. Così ieri Matteo Renzi che gigioneggiava riconoscendo l’insoddisfazione per il risultato (pur scansandolo) è apparso più autentico della sinistra soddisfazione simulata di chi esulta per percentuali da prefisso telefonico. Renzi più innovativo anche nella sconfitta, pensa te.

Ma ci deve essere qualcosa di oscuro in questo magma che riesce ad avere dinamiche solo endogamiche a sinistra del Pd. Perché se è vero che la sinistra (ed esiste, eccome, pur disordinatamente diffusa)  è una speranza accesa (e una storia prorompente, non dimentichiamolo) ad oggi mancano gli eletti e gli elettori. Perché? Eccola l’annosa domanda che si ripete ogni volta. Ed ogni volta è un profluvio di risposte infiorettate e all’uncinetto. Sbagliate, evidentemente.

E così ieri si è alzato il venticello della sinistra che deve tornare unita. «Ripartire tutti insieme» si legge da qualche parte, come se la somma dei fallimenti possa essere la soluzione. Tutti che invocano un cambio di paradigma ma non sono nemmeno disposti a mettersi in discussione davanti alle macerie. Anzi la novità dell’ultima ora è quella di ripartire da De Magistris, fingendo di non sapere che la sua vittoria ha provocato lancinanti mal di pancia proprio tra i maggiorenti della Sinistra. Il nocciolo forse sta proprio tutto qui: nella mancanza di coraggio fingendosi uguali e in dirittura di accorpamento. Qui, a sinistra, c’è un popolino di dirigenti che si accontentano di sentirsi capi anche senza elettori.

E allora se è vero che in molti invocano un commissariamento del PD non si vede perché a sinistra non se ne debbano andare anche questi, di dirigenti. Questi che da dieci anni incarnano una speranza che non è mai stata capace di uscire dal cancello del proprio cortile, gli stessi che cambiano sigla per incipriare la solita faccia, quelli che invocano il nuovo a patto che possano farne parte.

Se la sinistra non cresce con il PD che svolta a destra, esattamente, cosa c’è da capire per parlare di sconfitta?

Buon martedì.

(ah, il titolo è una citazione)

 

Dal selfie con la scheda elettorale all’attesa dei risultati, le amministrative 2016 sui social

amministrative 2016 selfie in cabina

Dai retroscena negli studi tv intenti a seguire i risultati delle #Amministrative2016 a quelle del seggio elettorale, fra impegno civico, ironia e rassegnazione ecco gli scatti che i cittadini hanno postato sui social network.

Attese elettorali #amministrative2016 #brianza

Una foto pubblicata da @favoeva in data:

Mandiamolo a dormire un po’! Buongiorno a tutti gli altri #maratonaelettorale #buongiorno

Una foto pubblicata da Nicola Franceschini (@nickfran912) in data:

#amministrative2016 #elezioni2016 #ballottaggio

Una foto pubblicata da Riccardo Zambon (@ricczambon) in data:

#amministrative2016 la conta di una lunga notte @battiato.stefano @altralentini

Una foto pubblicata da Rosaria (@r.priviterasaggio) in data:

Oggi in regia superlavoro per @malabruzzi! #agorarai #elezioni #elezioni2016 #amministrative2016 #ballottaggio

Una foto pubblicata da Riccardo Zambon (@ricczambon) in data:

Sala stampa della Prefettura di Napoli #salastampa #prefettura #napoli #stampa #giornalista #giornalismo #amministrative2016 #sindaco #stampa

Una foto pubblicata da Claudia Annunziata (@diannuu) in data:

#working#bologna #amministrative2016#rai

Una foto pubblicata da Francesca (@francesca.c89) in data:

#bolognaèunaregola… e piccola: guarda chi incontro al mio seggio #lucacarboni #amministrative2016 #Bologna

Una foto pubblicata da Massimo Paolone (@massimo.paolone) in data:

5.6.2016 bassa affluenza, ridateci i nostri maRho. #voto di scambio, a #ghost #checkpoint in #rho, #amministrative2016 #elezioni

Una foto pubblicata da Pierluigi Anselmo Anselmi (@pierrluigi) in data:

Siete andati a votare si ?? Forza e coraggio #elezioni2016#comunediroma#sindacodiroma#votate#amministrative2016

Una foto pubblicata da Francesca (@fra_smoke) in data:

E ora via!! Tutti a #VOTARE!! #Elezioni #Amministrative2016 …Si ma PER CHI??

Una foto pubblicata da Roberta Cirillo (AppleCaffè) (@lorenmerlin) in data:

Andiam, andiam, andiamo a votar! #amministrative2016 #Alatri

Una foto pubblicata da Giulia Giustiniani (@instagiulsofficial) in data:

Fino all’ultimo voto! #melonisindaco

Una foto pubblicata da Colle Oppio (@colleoppio) in data:

#amministrative2016 #Roma

Una foto pubblicata da Olivier Tosseri (@ressoti) in data:

I bambini fuggiti dalla Siria schiavi in fabbrica e senza scuola in Turchia

Donne siriane rifugiate in Turchia
HATAY, TURKEY - JUNE 01: 20-years-old Syrian refugee woman Fida El Hasan (C), fled from Syria due to ongoing civil-war, is seen at a house, hosting 11 refugee woman, in Turkey's Syrian border city Hatay's Reyhanli District on June 01, 2016. Hasan, lost her two siblings and her father by the Assad Regime's barrel bomb attack as well as she lost his right leg. Turkey spent over US$ 8 Billion and hosts over 2 million refugees. Cem Genco / Anadolu Agency

Sono migliaia, e sono costretti a lavorare all’interno di fabbriche tessili umide e malsane, oppure a passare ore e ore nei campi di mele o frumento senza alcuna tutela. Guadagnano in media 250 dollari al mese. Non potendo permettersi una sistemazione dignitosa, dormono all’interno delle fabbriche, sotto i banchi d lavoro, in letti improvvisati costituiti da una singola coperta e da scarti di materiale tessile.

Questa è la storia comune di molti bambini siriani che scappano dalla guerra e dal terrorismo, e che giungono in Turchia per cercare un futuro migliore. Che purtroppo spesso non trovano: secondo un’inchiesta dell’International New York Times, ben 400mila bambini siriani, su oltre un milione presente in Turchia, non possono permettersi di frequentare la scuola dell’obbligo. La causa principale è la condizione di marginalità sociale e di estrema povertà in cui vivono le famiglie di profughi, costretti a mandare i figli a lavorare per poter acquistare beni di prima necessità, cibo, acqua e vestiario. Beni che gli vengono negati nonostante ne abbiano il pieno diritto. E nonostante l’Unione europea abbia avviato l’erogazione dei tre miliardi di euro previsti dall’accordo Ue-Turchia del marzo scorso, per contenere l’immigrazione «illegale» e tutelare i migranti dalle insidie del Mediterraneo. Risorse che si suppone dovrebbero anche essere utilizzate a sostegno dell’educazione dei più giovani.

Prima del conflitto, oltre il 99% dei bambini siriani aveva frequentato la scuola primaria, e l‘82% circa aveva accesso a quella secondaria. Ora invece circa tre milioni di loro sono a rischio analfabetismo. Sopratutto quelli che vivono in Turchia: il loro numero è destinato a crescere, e il problema potrebbe diventare strutturale visto il consistente aumento di profughi. Secondo Selin Unal, portavoce di Unhcr in Turchia, tra i fattori che impediscono ai bambini di frequentare la scuola ci sono anche le difficoltà linguistiche, procedure di iscrizione lunghe e cavillose e i problemi legati al poco efficiente trasporto pubblico.

«Vorrei mandare Ahmad a scuola. Non sa né leggere né scrivere,e non sa nemmeno comprendere i segnali stradali», racconta Zainab Suleiman, 33 anni, madre di Ahmad, «Ma non ho scelta. Per sopravvivere mio figlio deve lavorare». Quattro anni fa Ahmad vide suo padre morire in Siria per una ferita da arma da fuoco. Ora il ragazzo ha 13 anni, vive ad Istanbul e passa 12 ore al giorno in una fabbrica tessile,con turni massacranti: sveglia alle otto, una pausa pranzo di mezz’ora e due brevi pause in cui mangia biscotti e beve tè.

Racconta che lo fa per assicurare una vita dignitosa a sua madre, di recente cacciata da un ristorante e picchiata dal titolare dopo essersi lamentata per il ritardo con cui le era stato corrisposto il suo salario di 90 dollari a settimana. Il figlio invece guadagna 60 dollari a settimana, e con la maggior parte dello stipendio paga l’affitto della stanza in cui vive con la madre e le tre sorelle. Il padrone della fabbrica tessile ha detto di sapere che Ahmad non può lavorare perché troppo giovane, ma che lo ha assunto per aiutarlo e non per la paga bassa che gli offre.

Nel quartiere di Zeytinburnu, dove si trova la fabbrica di Ahmad, il lavoro minorile è una pratica molto diffusa. C’è Abdul Rahman, 15 anni, che usa una macchina da cucire. Sostiene di non sapere a quanto ammonti il suo salario, che viene invitato direttamente alla famiglia. Due fratelli di 16 e 15 anni, Mohammed e Basar Nour, sono addetti alla pulizia dello stabilimento e sono arrivati in Turchia direttamente da Aleppo, per sostenere economicamente la loro famiglia rimasta in Siria.

A inizio anno il governo turco ha introdotto dei permessi speciali per permettere ai siriani di lavorare in un quadro di legalità, così da fermare lo sfruttamento e assicurare il diritto all’istruzione dei loro figli. Ma sono poco più di 10mila i siriani che hanno potuto beneficiare delle nuove norme, soprattutto a causa della dura opposizione degli imprenditori turchi, riluttanti a concedere tutele contrattuali che implicherebbero garanzie come il salario minimo. Il governo aveva promesso che avrebbe affrontato la questione e aumentato il numero di permessi, ma la sostituzione dell’ex primo ministro Ahmet Davutoglu con Binali Yildirim ha reso tutto più difficile.

Nel frattempo ci si arrangia come si può. Come fa la madre di Ahmet, che per permettere alla figlia Ayla (15 anni) di studiare, l’ha promessa in sposa a un ragazzo curdo di 22 anni, la cui famiglia si è dichiarata disposta a sostenere le spese per mandarla a scuola. «Sono felice di questo, se potrà essere d’aiuto alla famiglia» ha sostenuto la ragazza. E la storia della famiglia Suleiman non è l’unica.

Sono circa tre milioni i cittadini siriani emigrati in Turchia dopo l’inizio delle ostilità, e molti di loro, circa un milione, sono costretti a rimanervi, non avendo la possibilità di raggiungere l’Europa. Intanto sopravvivono come possono, spogliati dei diritti che gli spetterebbero in virtù del loro status, tutelato dalla Convenzione di Ginevra.

La legge nazionale turca vieta il lavoro minorile fino ai 15 anni, ma ci sono alcune eccezioni che non vengono espresse con chiarezza. Inoltre la Turchia è firmataria di alcuni accordi internazionali che vietano espressamente il lavoro minorile, come la Convenzione sui diritti del fanciullo e le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro n.138 (sull’età minima) e n.182 (contro l’uso del lavoro minorile). Ma per Ahmad e gli altri leggi e convenzioni non valgono.