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Amministrative: i numeri non mentono. Quanti voti veri ha preso chi e come era andata la volta scorsa

ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

I numeri contano e quando si vota, con pazienza, dovremmo passare del tempo ad analizzarli, leggerli, provare a interpretarli. Ce ne sono di numeri della scorsa notte che hanno il loro interesse generale. A una prima lettura immediata troviamo conferma del pessimo risultato Pd, segnaliamo il mediocre andamento della Lega e il balzo in avanti a 5 Stelle. I numeri sono anche un buono strumento di fact-check: si possono interpretare finché si vuole, ma rendono più complicato stravolgere completamente i risultati.

Roma
La bassa partecipazione – era già stato così con Marino – determina un crollo del numero necessario ai candidati ad andare al ballottaggio. Nel 2006 Veltroni prese più del doppio dei voti di Raggi ieri e tre volte i numeri di Giachetti. I numeri del Pd: nel 2006 il 17% dei DS equivaleva a 40mila voti in più di quelli del Pd ieri. Nel 2008, quando il candidato del centrosinistra Rutelli perse da Gianni Alemanno, il Pd ottenne 520mila voti, 267mila con Marino, 196mila ieri. Ovvero 320mila voti persi in 8 anni – il tweet di Alessandro Lanni qui sotto è una sintesi perfetta. Certo, cala la partecipazione al voto. Ma il dato resta impressionante. Da quella tornata, chi sta alla sinistra del Pd si muove poco: 25mila voti in meno, ma quasi identica percentuale di elettori. Chi raddoppia i voti rispetto alle ultime elezioni è Casa Pound (oggi 14mila elettori), a cui vanno sommati i 30mila voti per la lista di Salvini. Ovvero 44mila romani hanno votato la destra estrema (aggiungete Fratelli d’Italia al 12%). M5S quasi quadruplica i voti.

Napoli
Nel capoluogo partenopeo il Pd perde 28mila voti rispetto al già pessimo risultato del 2011, in termini percentuali si passa dal 16,5% all’11%.Qui, inutile sottolinearlo, il successo è tutto per De Magistris: le due liste a lui collegate in senso stretto, De Magistris sindaco e DeMa raccolgono 72mila voti, la metà del totale dei voti del sindaco uscente. La sinistra, che nel 2011 correva divisa e oggi è sostanzialmente aggregata (Possibile, Sel, Rifondazione in una lista unica, non i fassiniani) perde 10mila voti, nel 2006 c’erano due partiti comunisti e assieme presero 47mila voti. Oggi quella parte dello schieramento ne prende 20.800.

Milano
Il dato forte di Milano è il crollo della partecipazione al voto. Quella che era stata una stagione avvincente di partecipazione si trasforma in un aumento dell’astensione del 13%. E così il candidato del centrosinistra passa dai 315mila voti di Pisapia al primo turno ai 224mila di Sala. Sommate 20mila voti presi da Basilio Rizzo, candidato di sinistra, e il pessimo risultato non cambia di molto. A Milano c’è una sinistra tradizionalmente molto di sinistra che un po’ non vota e un po’ sì. Con Pisapia si era mobilitata. Ieri no. Milano segna un bel successo per Parisi e Forza Italia (forse l’unico di rilievo per il partito di Berlusconi), che pure perde 70mila voti rispetto alla tornata perdente del 2011 e 90mila rispetto al 2006 (all’epoca c’era Alleanza Nazionale che ne prese circa 50mila: i voti persi cono dunque di più, anche sommando il 12mila di Fratelli d’Italia).

Bologna
Nel 2004 il Pd (o meglio la somma di DS e Margherita) pesavano 95mila voti e Cofferati 140mila, Merola ne aveva già persi 34mila nel 2011. Oggi il sindaco uscente prende 68mila voti: 40mila in meno che nel 2011. Merola quattro anni fa correva con la sinistra, oggi il candidato di sinistra Federico Martelloni ne prende 12mila: al netto sono 28mila voti persi. La destra bolognese rimane quasi intatta: quattro anni fa aveva un candidato e 63mila voti, oggi ne ha due e 56mila voti (un balzo percentuale, visto il crollo della partecipazione). Da segnalare che a Bologna la Lega – che correva con il centrodestra ma con l’ex candidato del 2011 Bernardini che correva da solo – prende gli stessi voti, ai quali si sommano almeno una parte dei 18mila presi da Bernardini. I voti del centrosinistra sono andati in parte al Movimento 5 Stelle: Massimo Bugani prende 10mila voti in più di quattro anni fa. Gli altri sono gli astenuti.

La Lega
Di Milano si è detto. Facciamo due esempi minori: Novara e Varese, con due candidati sindaci leghisti. Nel comune lombardo la lista leghista collegata al candidato Paolo Orrigoni perde 3mila voti e otto punti percentuali rispetto a quattro anni fa. A Novara la Lega con Alessandro Canelli perde circa 2mila voti rispetto alla tornata precedente. A Novara i voti in più li ha presi probabilmente il Movimento 5 Stelle. A Torino la Lega perde 7mila voti, un quarto del totale. L’effetto Le Pen/Salvini/Trump, insomma, non sembra proprio esserci. E questo è un bene.

Il Movimento 5 Stelle
I vincitori della tornata elettorale nazionale. C’è poco da fare. Oltre al trionfo romano, prende 30mila voti in più (più del doppio) a Milano, quintuplica i voti a Torino (da 20mila a 107mila) e prende un sacco di voti in molti, molti comuni minori. Magari non eleggerà sindaci, ma entra ovunque e con forza nei consigli comunali. Qualche esempio da varie regioni: a Brindisi quattro anni fa il M5S non c’era, oggi prende il 18,8%; a Marino, grosso comune laziale, raddoppia i voti, a Savona passa da 3mila a 7500 voti, a Cagliari da meno di 2mila a circa 10mila. Nonostante qui il candidato del centrosinistra abbia vinto al primo turno, l’unico nei grandi comuni. Interessante per la Sinistra: dove i sindaci non Pd hanno governato e si ricandidano ottengono ottimi risultati, a Latina, una Lista Bene Comune sopravanza il Pd e va al ballottaggio (difficilmente vincerà), in assenza di un candidato a 5 Stelle.

 

Il Pd si lecca le ferite, i 5 stelle devono accontentarsi. Chi vince e chi perde a Napoli

Il comitato elettorale del candidato sindaco Luigi de Magistris, Napoli, 05 giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Un ballottaggio con gli stessi candidati del 2011 ma a parti invertite. Questa volta è il sindaco uscente Luigi de Magistris a condurre con il 42,45% dei voti raccolti, contro il 24,04 del candidato di centrodestra Gianni Lettieri. Lo scrutinio del voto per le municipalità potrà offrire ulteriori elementi di valutazione sullo stato di salute di partiti e schieramenti e sulle prospettive del ballottaggio, ma intanto si possono già evidenziare alcuni punti fermi sul voto nel capoluogo partenopeo.

De Magistris raccoglie la maggioranza relativa dei voti senza il sostegno di grandi partiti, ma con le sue civiche assieme alle liste di sinistra che provano a non andare in ordine sparso (sarà interessante il dettaglio dei voti di lista). Gli avversari si affrettano a evidenziare che per la prima volta il sindaco uscente non viene riconfermato al primo turno, ma dall’entourage di de Magistris replicano che questo dato ha diverse spiegazioni: non c’erano truppe cammellate né grandi partiti ma si è trattato, dicono, di un voto libero.

Un voto meno “controllato” sarebbe anche tra le ragioni dell’elevato astensionismo: ieri ha votato il 50,1% degli aventi diritto contro il 60,3 del 2011. Un segnale forte che nessuno dei candidati, tanto meno quelli esclusi dal secondo turno, potrà ignorare. In particolare, una riflessione dovranno farla i 5stelle, con Brambilla fermo al 9,74% – lontano anni luce dal risultato di Virginia Raggi nella Capitale – al termine di una campagna elettorale nata male (gli scontri interni e i tempi lunghi) e condotta forse peggio (troppo sottotono per temi e impostazione di fondo).

Troppo tenero con il sindaco “zapatista” e inutilmente (hanno confermato le urne) accanito contro il Partito democratico di Valeria Valente, o meglio di Matteo Renzi, è stato Brambilla. E non appaiono convintissime le dichiarazioni di soddisfazione giunte dal direttorio, con Roberto Fico che sembra piuttosto buttare la palla in angolo: «Entriamo in Consiglio a testa alta: proporremo e vigileremo ed il prossimo giro l’amministrazione sarà del M5S, ne sono sicuro».

A scardinare i consensi potenziali del Movimento è stata soprattutto una riuscitissima operazione (targata Claudio de Magistris, il criticatissimo e capace fratello del sindaco) di attivazione di energie “civiche”: la lista DeMA nata dall’omonima associazione molto attiva in città nel corso degli ultimi due anni. Non a caso, a guidarla era Alessandra Clemente, assessore uscente alle Politiche giovanili molto attenta ai temi sociali e alla lotta alla camorra (sua mamma è Silvia Ruotolo, uccisa nel 1997 mentre rientrava a casa con il figlioletto più piccolo, finita per caso nel bel mezzo di un agguato).

Ma a leccarsi le ferite, oggi, sono soprattutto i dirigenti locali e nazionali del Partito democratico. La candidatura – e il 21,34% di voti raccolti – di Valeria Valente, area giovani turchi, è frutto di un accordo in virtù del quale il premier segretario si impegnava a darle man forte in cambio del sostegno ai candidati renziani in altri capoluoghi. È finita con i renziani in vantaggio ma senza risultati entusiasmanti altrove, e la Valente – protagonista suo malgrado dei noti episodi che hanno gettato ombre sulle primarie – fuori dal ballottaggio. A nulla sono serviti gli incontri in prefettura (con presidente del Consiglio e prefetto c’era la candidata sindaco del Pd e non il sindaco de Magistris, che ha avuto buon gioco a fare il “Davide contro Golia”) e la chiusura della campagna elettorale con Matteo Renzi in persona.

Ora Gianni Lettieri farà appello alla candidata esclusa e agli elettori del Pd per ottenere l’appoggio al secondo turno. Valente ha già gestito con disinvoltura l’appoggio dei verdiniani di Ala, che però ha fruttato un misero 1,47%. Presto capiremo se la disinvoltura, dalle parti del Partito della Nazione, può arrivare a diventare spregiudicatezza.

L’Italia che cambia in mostra al MAXXI

Extraordinary visione MAXXI

Viaggio in Italia in MAXXI. Intitolata Extraordinary visions. L’Italia ci guarda.  La mostra romana inaugurata il 2 giugno presenta centocinquanta immagini e 40 fotografi, italiani e stranieri,  che ripercorrono i luoghi e i personaggi della storia italiana più recente. Nelle sale del museo progettato da Zaha Hadid si alternano  paesaggi mozzafiato, città ideali, segno di un Rinascimento a misura d’uomo, ma anche periferie abbandonate, abusi edilizi e periferie anonime.

Alcuni dei più importanti fotografi raccontano come cambia il Bel Paese, contraddizioni e pluralità negli obiettivi di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Letizia Battaglia, Gianni Berengo Gardin, Franco Fontana, Giovanni Gastel, Luigi Ghirri, Mimmo Jodice, Armin Linke, Ugo Mulas, Ferdinando Scianna, Hiroshi Sugimoto, Massimo Vitali. E molti altri.

Fontana, Basilicata
Fontana, Basilicata

“Extraordinary visions è un viaggio visivo che restituisce un’immagine ben lontana dagli stereotipi, e un viaggio anche nei linguaggi e nelle sperimentazioni più avanzate della fotografia contemporanea”, dice la curatrice Margherita Guccione. Divisa in quattro sezioni: arte cultura e architettura, res publica, paesaggi contemporanei, città comunità e lavoro, la mostra romana offre uno sguardo a tutto tondo. E se gli scatti di Ugo Mulas e quelli di Massimo Piersanti dell’archivio Graziella Lonardi Buontempo raccontano la buona architettura, Luigi Ghirri è presente con l’immagine di uno stabilimento balneare di Riccione. Giovanni Gastel combina bellezza paesaggistica e moda, insieme alle immagini di Ferdinando Scianna, realizzate per la prima campagna pubblicitaria di Dolce&Gabbana, cercando di far incontrare indagine antropologica e fotografia di moda. Ma certamente non c’è solo il glamour.

Ghirri Sabbioneta 1989
Ghirri Sabbioneta 1989

Alessandro Imbriaco e Tommaso Bonaventura hanno fotografato i luoghi del maxi processo contro Cosa nostra e gli scaffali che ne contengono i faldoni: 2.665 anni di carcere, 360 condannati, più di seimila pagine di fascicoli. Massimo Vitali rimane in Sicilia ma sceglie un paesaggio completamente diverso, l’affollata spiaggia di Mondello. Michele Borzoni, invece, ha fotografato un concorso pubblico che si è tenuto a Firenze nel 2007, 2.174 candidati per nove posti disponibili come assistenti in un asilo nido. E ancora: Gianni Cipriano scatta invece una panoramica sulle poltrone vuote al Quirinale poco prima del giuramento di Enrico Letta nel 2013.

Massimo Vitali, palermo
Massimo Vitali, palermo

Letizia Battaglia, sulla costa della bandiera
Letizia Battaglia, sulla costa della bandiera

Fascicoli del maxiprocesso 1986-1987, Corleone, Palermo, 2012 Tenutosi tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987 nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone di Palermo, il maxiprocesso contro Cosa Nostra istruito dal pool antimafia fondato da Antonino Caponnetto ha visto 474 imputati rinviati a giudizio, 119 processati in contumacia, 2665 anni di carcere per 360 condannati, oltre a 19 ergastoli comminati a diversi boss tra cui Michele Greco e i latitanti Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Il processo di primo grado ha richiesto 349 udienze nell’arco di 22 mesi, 35 giorni di camera di consiglio e 6901 pagine per la stesura delle motivazioni della sentenza. I gradi successivi di giudizio si sono protratti fino al 1992. I fascicoli del processo sono conservati presso il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e il movimento Antimafia (CIDMA), a Corleone. Files of the Maxi Trial 1986–87. Corleone, Palermo, 2012 Held between 10 February 1986 and 16 December 1987 in the bunker courthouse of the Ucciardone Prison in Palermo, the Maxi Trial against Cosa Nostra prepared by the anti-Mafia pool founded by Antonino Caponnetto saw 474 defendants charged, 119 tried in absentia, 2,665 years of imprisonment for the 360 convictions, as well as 19 life sentences given to several bosses, including Michele Greco and the fugitive Salvatore Riina and Bernardo Provenzano. The first-instance trial required 349 hearings over a period of 22 months, 35 days of in camera hearings and 6,901 pages for the formulation of the reasons for the verdict. The successive instances of judgement continued until 1992. The files of the trial are housed in the International Centre for Documentation on the Mafia and the Anti-Mafia Movement (CIDMA), in Corleone.
Fascicoli del maxiprocesso 1986-1987, Corleone, Palermo, 2012

Quirinale, elezione di Letta 2013
Quirinale, elezione di Letta 2013

Cara Sinistra, “hai giocato vecchio”.

Sui grandi giochi si scriverà. Scriveranno tutti. Su chi ha vinto pure. Sul fenomeno M5s che costringe al ballottaggio un Pd brutto leggeremo i pezzi migliori. Io mi fermo solo per scrivere un pensiero veloce sulla Sinistra a cui avrei tenuto. L’ho osservata in silenzio, da febbraio. Dal congresso fondativo di Sì, alla candidatura “sciolta” di Fassina, ai veleni, ai doppi giochi di Sel, a nessun gioco in generale.
Ho un amico che quando perdo, o mi incastro in situazioni ferme, mi sfotte dicendomi «Hai giocato vecchio». È l’unica cosa che riesco a dire oggi di quella che dovrebbe essere la mia parte. «Avete giocato vecchio». E in quel vecchio c’è tutto. C’è non vedere, non riconoscere, non cercare, non andare al di là di quello che avete già visto, cercato, riconosciuto. Siete rimasti là.

Facciamo l’esempio di Roma, uno per tutti: Fassina scarta e si presenta contro tutto e tutti. Contro una Sel che gioca a briscola col Pd, pochi fuoriusciti malmentati da Renzi, un Possibile che non riesce ad essere alternativo, a unire, a forzare, ad allargare. Niente. Che si mette in scia silenzioso e forse consapevole del futuro massacro. La Sinistra non c’è. Non nella politica, non siamo “pochi ma belli”, siamo pochi e malmessi (neanche il 5%).

Sarebbe bastato poco, che è molto moltissimo. Sarebbe bastato non ripetersi. Non riproporre sacrosante tematiche sociali senza mai far volare. Senza mai far capire cosa avrebbe fatto stare bene le persone se ci avessero votato. Perché la Sinistra è lì. Deve capire e dire cosa fa stare bene le persone. In piena trasparenza, con grande coerenza. Senza fare appelli a papi o ad antenati senza più carne né ossa. Al contrario dovrebbe trasmettere un hic et nunc forte come una casa. Imperdibile. Un “qui ed ora” senza macchie. Perché poi bastava poco che è tantissimo, mi ripeto.

Io la Raggi l’ho ascoltata. Bastava parlare di collettività, di trasparenza, magari anche di far pagare le tasse alla Chiesa invece di nicchiare ancora sulla dottrina sociale di qualcun altro. Bastava far sentire l’odore del rifiuto e della rivolta. Della svolta. Qui ed ora. Né domani né ieri né forse. Un po’ alla De Magistris, quella roba estrema, a tratti anche apparentemente sguaiata, ma che restituisce il senso di una “reazione” di Sinistra.

Votare per il voto. Anche.

Al di là delle analisi da cui oggi saremo ricoperti, l’intervista più politica di queste ore è quella ad Antonio Tassora. No, nessun candidato particolare e nemmeno un analista: Antonio ha 104 anni e ha votato alle elezioni amministrative del suo paese, Beverino, in provincia de La Spezia.

Una storia minima in un paese microscopico che contiene però tutto il cuore che sembra andato perso nelle metropoli italiane: dice Antonio che ha voluto votare perché «70 anni fa ho votato per la Repubblica e il voto è un diritto-dovere che io intendo esercitare fino a quando ne avrò le facoltà». E così, in un colpo solo, il vecchietto dà una lezione di democrazia a tutti quelli che hanno bisogno di nemici o rottamazioni per sentirsi vivi.

Antonio invece ha il sacro fuoco del voto che non dovrebbe certo invecchiare ma piuttosto rinnovarsi e crescere. E Antonio (che fino a due anni fa coltivava ancora la sua terra, contadino centenario) è uno di quelli che crede che il voto davvero serva a cambiare le cose: «Ci sono troppi giovani senza lavoro e non potendoli aiutare concretamente spero di dare loro una mano con la mia scelta, spero che serva ad eleggere un sindaco che sappia trovare il modo per risolvere i problemi di tanti ragazzi».

Nelle elezioni della bile e dell’astensionismo ci voleva un ultracentenario per riportarci alla bellezza del voto così semplicemente, senza tifo e senza propaganda, ma per tutta la storia che il gesto del voto si porta dietro. Sarebbe da portare in tutte le scuole, uno così.

Il silenzio del Pd, i sorrisi di Raggi. I risultati del voto di domenica

La candidata sindaco di Roma del M5s Virginia Raggi prima di entrare nella sede dell'Anac per incontrare il commissario dell'Autorita' Anticorruzione Raffaele Cantone. Roma, 21 marzo 2016. ANSA/MASSIMOPERCOSSI

È andato bene questo primo turno delle amministrative 2016 per il Movimento 5 stelle. Questo è certo. I dati di Roma e Torino rendono assolutamente marginale il fatto che complessivamente la performance sia poco omogenea e che a Napoli, ad esempio, Luigi de Magistris svuoti completamente il Movimento, lasciandolo sotto il 10 per cento, più alto dell’1,7 delle comunali del 2011, sì, ma lontanissimo dal 24,85 per cento delle regionali 2015 e dal 24,07 delle europee del 2014, registrato sul territorio comunale. A Roma Raggi stacca di dieci punti Giachetti; a Torino Chiara Appendino porta al ballottaggio Fassino, che dovrà ora blindare il voto moderato, sperando che sulla 5 stelle non si inneschi un voto politico, antirenziano.

Va meno bene invece – e anche questo è certo – per il Partito democratico di Matteo Renzi. Che per troppe ore, per dire, pensa di lisciare addirittura il ballottaggio a Roma, superato in alcune proiezioni da Giorgia Meloni. Sono le 3 passate quando Luciano Nobili, uomo macchina del candidato renziano, può uscire un po’ più rilassato e lanciare la sfida per il secondo turno: «Si riparte da zero», dice. C’è poi Sala a Milano che pareggia nei fatti e anzi si fa superare, a tratti, con il candidato fotocopia Parisi: sono entrambi poco sopra il 41 per cento. A Bologna poi Virginio Merola dovrà affrontare il ballottaggio, contro la Lega e con i 5 stelle quasi al 20 per cento. E non va benissimo neanche Piero Fassino, che si pensava potesse addirittura vincere al primo turno e invece dovrà affrontare una Chiara Appendino a pochi punti di distanza. Di Napoli è meglio non parlare, Valeria Valente arriva terza e lei, come tutti i dem escluso Fassino, sceglie la via del silenzio.

Complessa è invece la situazione nel centrodestra. Forza Italia a Roma ha fatto un risultato disastroso, meritandosi le accuse dei sostenitori di Giorgia Meloni, secondo cui la candidatura di Marchini sarebbe stata un assist a Giachetti: Marchini prende meno voti rispetto al 2013, ed è incredibile se si pensa che l’altra volta era veramente «libero dai partiti». Forza Italia a Roma vale ormai meno della sinistra radicale, dunque. Però poi a Milano, invece, la Lega di Salvini senza Forza Italia (che aumenta a Milano di 8 punti) non va da nessuna parte.

Concedendoci infine un primo focus sulla sinistra, le notizie non sono così buone. E diremmo dunque le solite. Salvo Napoli (con il citato fenomeno De Magistris) e Bologna (con Martelloni che più modestamente oscilla tutta notte tra il sette e l’otto per cento), il risultato è magro. Fassina a Roma, Airaudo a Torino (soprattutto, lui che era convinto di toccare l’8 per cento, ed è a meno della metà), e Rizzo a Milano sono tutti sotto il 5 per cento. Loro e le liste collegate. Interessante per Left è però il dato di Cagliari. L’uscente Massimo Zedda vince infatti al primo turno, lui e il centrosinistra vecchia alleanza. Vecchia alleanza e vecchio candidato, senza deriva manager, senza Sala insomma. Ma anche senza Renzi né eccessi antirenziani.

Anudo, quando l’elettronica è made in Italy

Gli Anudo fanno elettronica, uno fra i generi musicali più in voga del momento, ma se gli chiedi a cosa si ispirano e quali sono stati i loro punti di riferimento musicali ti parlano di Stravinskij e di Stockhausen.
E in effetti tutto torna quando si va a sbirciare nelle vite parallele ma convergenti di questi tre ragazzi piemontesi: Daniele Sciolla, è laureato in Matematica, ha studiato flauto traverso e composizione al conservatorio ed è appassionato di fisica acustica, Federico Chiapello è un cantante rubato al rock, e Giacomo Oro è un pianista classico dall’animo punk. Per gli Anudo, nati come band solo nel 2014, il 2016 è un anno importante perché ad aprile hanno dato alle stampe Zeen, loro disco d’esordio, e adesso sono (felicemente) in tour nel Belpaese immersi in un viaggio da Sud a Nord. Un viaggio “un po’ al contrario” per loro che sono della provincia di Cuneo. Chi li ha ascoltati, e se ne intende, assicura che sono the next big thing della musica elettronica made in Italy. E in effetti il disco suona bene, è omogeneo, equilibrato, scivola sotto pelle fin dal primo ascolto. Abbiamo fatto due chiacchiere con Daniele Sciolla, per cercare di capire meglio chi sono questi tre ragazzi che promettono scintille e ottima musica.

Quanto possiamo essere fieri dell’elettronica made in Italy?
Berlino e Londra ospitano sicuramente un maggior numero di artisti, ma spesso ci si dimentica che anche in Italia c’è un sacco di roba buona e non da poco! Per esempio Berio e Pratella, uno dei padri della musica futurista, sono dei compositori che hanno importato l’elettronica nella classica, veri e propri pionieri. E poi c’è l’elettronica dance, quella di Giorgio Morder, tanto per fare un nome, uno dei musicisti più innovativi e delle voci più influenti in questo settore. Oggi abbiamo tanti artisti italiani che, in Italia e all’estero, riscuotono un buon successo. Insomma, siamo molto meno in ritardo di quanto si creda.

Noi italiani siamo bravi insomma…
Sì, abbiamo sicuramente dei limiti, ma ci sono anche grandi potenzialità. Dobbiamo sfruttarle bene.
Torino è la città italiana che sembra aver intuito di più queste potenzialità.
Sicuramente a Torino la musica elettronica è molto apprezzata, ma non meno di altre città come Milano, Roma, Napoli o Palermo. Torino spicca di più perché c’è il Club to Club conosciuto in tutto il mondo. Ma ti assicuro che questo genere, da Nord a Sud, sta prendendo sempre più piede, c’è una bella spinta nel nostro Paese per la musica underground ed elettronica.

Parliamo di Zeen. Perché questo nome?
Abbiamo registrato l’album a Londra e incontrato tanta gente che diceva “Zeen”, una parola che noi potremmo tradurre con “figata!”. Poi Zeen è anche il soprannome del nostro manager, quindi, alla fine, in qualche modo, è diventato il suono che abbiamo più ascoltato perciò abbiao deciso di chiamare così l’album.

Questo articolo continua sul numero 23 di Left in edicola dal 4 giugno

 

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Ecco perché continua il declino dell’industria

Guardiamo il lato positivo: gli ultimi dati Istat sulla produzione industriale ci hanno almeno risparmiato dai tweet sull’Italia-che-cresce-ma-bisogna-fare- di-più. Dal 2008 è andato perso un quarto della produzione, ma al governo sarebbe bastato il solito “zero virgola” di incremento per schierare il plotone dell’ottimismo. Attendibile come i dispacci di gloriose avanzate sul fronte russo. Invece diminuiscono sia il fatturato sia le commesse per il futuro.
«Lo dico senza problemi e lo dico in base ai numeri. L’Italia ha svoltato. Punto». Lo assicurava Matteo Renzi pochi mesi fa nell’intervista al Foglio dal titolo “Sveglia, la crisi è finita”. I numeri, testardi, continuano a raccontare altro: il fatturato dell’industria è oggi inferiore al 2010, era berlusconiana, ma anche rispetto a febbraio 2014, quando si è insediato l’attuale governo. Che certo ha trovato in dote i frutti avvelenati dell’austerity di Monti, ma ha diligentemente perpetuato le stesse politiche per ridurre i salari e la spesa pubblica. Così – prescrive l’ortodossia europea – aumenteranno le esportazioni e migliorerà il saldo commerciale con l’estero. È vero: rispetto al 2010 l’industria esporta il 19% in più, peccato che nel frattempo sia crollata la domanda nazionale (-13%), che in valore assoluto è molto più consistente. Ma anche la domanda estera è da tempo stabile o in lieve declino, con un calo fragoroso degli ordinativi nell’ultimo mese (-6%).

Le interpretazioni più consolatorie attribuiscono il rallentamento alla stagnazione internazionale, ma purtroppo ci sono ragioni ben più gravi, che chiamano in causa non solo la quantità, ma soprattutto la qualità del sistema produttivo italiano. L’industria nazionale si sta de-specializzando, non migliora i prodotti, deposita il 2% dei brevetti internazionali a fronte dell’ 11% della Germania e della Cina, rimane assente o marginale in molti settori ad alto valore aggiunto (si pensi a biotecnologie e high-tech). Così perde quote di mercato non solo a favore dei Paesi avanzati, ma anche di molti emergenti, che al costo del lavoro ridotto abbinano ormai un rapido sviluppo tecnologico.

“Bisogna investire di più” – si dice – giacché gli investimenti sono crollati del 30% dall’inizio della recessione. Tuttavia, l’economista Roberto Romano documenta su Sbilanciamoci.info come anche questo sia un problema qualitativo più che quantitativo. A mancare sono soprattutto gli investimenti ad alta tecnologia; inoltre i beni capitali sofisticati (macchinari, brevetti, licenze) devono essere in gran parte importati dall’estero, per l’assenza di una valida offerta nazionale. Non serve nemmeno – dice Romano – invocare più ricerca e sviluppo: è vero che il nostro Paese vi impiega poche risorse, ma è una coerente conseguenza di ciò che produce, beni e servizi di complessità limitata. Ben venga la promozione del buon cibo italiano, ma il packaging del Parmigiano richiede certo meno ricerca delle sonde di Stephen Hawking per Alpha Centauri.
Ecco il punto. In Italia manca una politica industriale..

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