











(gallery a cura di Monica Di Brigida)












(gallery a cura di Monica Di Brigida)
A Ostia il mare c’è ma non si vede. Dal porto turistico fino a Capocotta, i diciotto chilometri lungo i quali si sviluppa il litorale contano ben 71 tra stabilimenti e spiagge libere o attrezzate. Il problema però nasce nel cuore di Ostia, tra il pontile e piazzale Cristoforo Colombo: quattro chilometri disseminati di abusi edilizi e spiagge a pagamento su otto totali di per sé problematici. Lo chiamano il Lungomuro: un mare di cemento e artefatti di varia natura che delimita i feudi del “potere balneare” costruito a suon di cabine innalzate, mura di cinta e, se va bene. cespugli e alberi che impediscono di vedere la spiaggia.
Nel X municipio di Roma, quello commissariato per la pervasività del crimine organizzato, chi combatte per la legalità è ripagato con minacce di morte: cuore e fegato di animale sull’uscio di casa. È successo all’esponente dei Verdi Angelo Bonelli: «Sabato 28 maggio alle 3,20 di notte suona il citofono di casa: “Ammerda c’è un pacco pe’ tè”. Affacciandomi ho visto uno scooter andare via. Davanti alla porta di casa, al quarto piano, ho trovato un pacco e un biglietto: “Perché il prossimo sarà il tuo?”», ci racconta Bonelli, che nelle scorse settimane ha presentato un esposto alla Procura di Roma e ha scritto al ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti per chiedere il loro intervento contro la costruzione in corso d’opera del resort Capitol, in piena area protetta a Castel Fusano. E soprattutto ha fatto molte denunce contro la “spiaggiopoli” di Ostia.

Per troppi anni nessuno è stato capace di fermare gli abusi edilizi commessi da alcuni beneficiari delle concessioni demaniali. Lo scorso anno l’amministrazione capitolina di Ignazio Marino, provò a intervenire calando l’asso: Alfonso Sabella. Il magistrato, dopo aver cercato un accordo con i gestori degli stabilimenti, era pronto ad azionare le ruspe non solo a Castelporziano, dove è intervenuto per sanare gli abusi, ma anche nel cuore di Ostia. Oggi, decaduta la giunta Marino, la patata bollente è passata in mano a un altro pezzo delle istituzioni, il prefetto Domenico Vulpiani che da mesi cerca una sintesi pacifica con i gestori degli stabilimenti. Metodi diversi ma un obiettivo comune. Ad oggi però, dei dodici varchi di pubblico accesso alla battigia voluti dalla giunta Marino, soltanto due sono stati aperti: in uno il cartello di segnalazione è privo del logo comunale e la passerella di accesso è rotta, l’altro è senza insegna, stretto, raffazzonato e la sera simile ad un orinatoio.
«Ci sono volute tre ordinanze del Consiglio di Stato per stabilire l’accesso libero e gratuito al mare anche per i cittadini romani, la legittimità dei varchi e l’obbligo dei gestori degli stabilimenti di far passare chiunque a qualunque ora», racconta Sabella a Left. A Ostia Lido, ovvero tra il pontile e via Cristoforo Colombo, «la presenza del Lungomuro impedisce ai cittadini di accedere al mare senza dover pagare: possono farlo quasi esclusivamente attraverso gli stabilimenti e quasi per gentile concessione. Di conseguenza i varchi a mare servono a ben poco, perché i padroni degli stabilimenti sono attentissimi a far rispettare una sola norma di legge: quella che prescrive che la fascia di cinque metri della battigia deve essere lasciata libera da persone e cose per consentire l’accesso dei mezzi di salvataggio. Per cui, anche riuscendo ad accedere alla spiaggia, le persone possono solo fare il bagno e andar via, senza poter sostare o appoggiare un asciugamano». Sabella aveva avviato una trattativa con i gestori degli stabilimenti per arrivare ad un abbattimento condiviso del Lungomuro, ma «l’accordo è stato violato da parte loro un quarto d’ora dopo con il sostegno dalla stampa locale e di due soggetti politici presenti sul territorio, Casapound e il Movimento cinque stelle». Per non compromettere la stagione balneare Sabella decise quindi di far passare l’estate: «A ottobre ero pronto a intervenire con la forza e fare la guerra perché decadessero le concessioni di chi aveva violato la legge. Avevo promesso ai romani che nel 2016 non avrebbero avuto il Lungomuro, ma non sono stato in grado di farlo perché, decaduta la giunta, si è conclusa anche la mia esperienza. Il resto è spiegato nel libro Capitale infetta».

Con l’estate alle porte i cittadini sono esausti. «Da anni siamo in una situazione di illegalità a cielo aperto. Vogliamo una soluzione», dice il vicepresidente dell’Unione dei comitati di Ostia, Ciro Orsi. Oggi con la nuova amministrazione guidata dal prefetto Vulpiani il problema è monitorato e sono stati fatti dei sequestri in alcuni stabilimenti non a norma, ma la strada è ancora impervia. «A Castelporziano e Capocotta c’erano alcuni abusi che si stanno mettendo a posto e laddove le concessioni degli stabilimenti sono scadute, il nuovo bando per l’assegnazione delle spiagge verrà fatto quando saranno risanati gli illeciti», spiega a Left Vulpiani. Per quanto riguarda il Lungomuro «abbiamo cercato un punto di incontro con i balneari, che invece hanno allungato i tempi per arrivare all’apertura della stagione estiva. Di mezzo ci sono molti contenziosi aperti dai gestori degli stabilimenti, legittimi, ma finalizzati a prender tempo e a far valere i propri interessi. Con l’estate alle porte, chi non si adegua a mettersi in regola sarà soggetto a controlli ed eventualmente a sanzioni amministrative. Agiremo sempre cercando di dare meno disagi possibile agli utenti, ma facendo rispettare le regole ed eliminando gli abusi». Se non dovesse bastare, conclude il prefetto commissario, «come estrema ratio l’esercito è pronto ad intervenire e demolire laddove è necessario. Certo, questo comporterebbe disagi e grosse spese per i contribuenti». Ma il lungomare “privato” rappresenta un disagio e un costo altrettanto grande per la collettività.
«C’è voglia di contaminazione», dice nell’intervista sul prossimo numero di Left Emilio D’Itri, direttore artistico per l’edizione 2016 di Fotoleggendo e presidente di Officine Fotografiche, che da sempre organizza la kermesse a Roma. La 13esima edizione del Festival di Fotografia, dal 10 giugno sarà itinerante, aperta ad altre forme d’arte e in connessione con la street art capitolina e non solo. Nei tre giorni di inaugurazione, oltre all’apertura delle mostre, si terranno incontri, presentazioni di libri, proiezioni, premiazioni ed eventi speciali. Gli spazi che accoglieranno le mostre fotografiche e le opere di street art sono Officine Fotografiche, Circolo degli Illuminati, Loft, Rashomon Club.





Tell It Like It Is
Dal 13 giugno (e fino al 2 luglio) il festival si allargherà al resto della città: la stazione ferroviaria di Porta San Paolo, l’adiacente Polo Museale Atac e la rete di gallerie che comprende Isfc, Interzone Galleria, 001, Wsp Photography, Microprisma, Officinenove. In tutta la manifestazione saranno esposti più di 30 lavori fotografici. Altri punti di riferimento per mostre e iniziative saranno l’Istituto di istruzione Superiore Statale Cine tv Roberto Rossellini, il Dams Roma Tre.
«Per questa edizione sono partito da un concetto:» – Spiega a Left Emilio D’Itri – “Dall’immagine su negativo all’immagine su file di oggi cosa è cambiato? E quale pubblico oggi viene a visitare le mostre fotografiche?». Da qui ha preso il via un percorso insieme alla commissione (Annalisa D’Angelo, Tiziana Faraoni, Lina Pallotta e Marco Pinna, ndr): abbiamo esaminato quello che a nostro parere c’era di nuovo nelle immagini e nel linguaggio, senza tralasciare la storia di FotoLeggendo legata ai grandi racconti. Infine, la connessione con gli artisti di street art: a loro abbiamo chiesto di confrontarsi con un Festival di fotografia».
Monica Di Brigida
Quattro mesi fa, Izquierda unida ha ottenuto quasi un milione di voti, ma solo due seggi. Un brutto colpo per gli eredi del partito comunista spagnolo e di altre forze , arrivato tra l’altro mentre l’organizzazione doveva fare i conti con i suoi bilanci in rosso. E allo stesso tempo una nuova forza politica straripava nel Paese, Podemos. Sembrava finita per i comunisti di Spagna. Ma adesso, la nuova alleanza con il partito di Pablo Iglesias già vola in alto nei sondaggi con il 23,2%, 3 punti sopra il Psoe, fermo al 20,2%. Al grande appuntamento del 26 giugno, quando la Spagna tornerà al voto, le due forze politiche si presenteranno strette in un’alleanza, su cui fino a poco tempo fa nessuno avrebbe scommesso. Unidos Podemos, uniti possiamo.
E, a scanso di equivoci, per sugellare l’accordo, i due leader si sono stretti in un abbraccio a Puerta del Sol, la piazza di Madrid che fu scenario della nascita del movimento degli “indignados” nel 2011. Alberto Garzón di anni ne ha trenta, e di dubbi nessuno: «Non è il sorpasso sui socialisti l’obiettivo, ma vincere le elezioni». Dice così a Left il leader di Izquierda unida, mentre si concede per un’intervista fatta a colpi di messaggi vocali tra una riunione e un comizio di piazza.
Alberto Garzon, Unidos Podemos è un’alleanza elettorale, con le idee chiare: vincere per governare. Conosciamo ormai le parole d’ordine di Podemos: la contrapposizione tra alto e basso, ha preso il posto di sinistra-destra. Al leader della “Sinistra unita” è d’obbligo chiedere: con questa coalizione anche voi ve la lasciate alle spalle?
Qui non si tratta di sostenere un dibattito scolastico, ma sui contenuti politici. In qualunque modo ognuno scelga di definirsi, qualunque nome dia alla sua identità, l’importante è che ci si confronti sul terreno della politica concreta. In questa alleanza noi di Izquierda unida siamo senz’altro la sinistra della coalizione, poi c’è gente che si definisce in altro modo: come il “basso” o come “il 99%”, ma cosa importa? Non sono queste etichette che ci interessano, ma, ribadisco, è il contenuto politico che importa.
Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità dell’ergastolo ostativo (Editoriale Scientifica, 2015), Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto riportano un dato impressionante di fonte istituzionale: 1.174 dei 1.619 ergastolani in carcere al 12 ottobre scorso sono stati condannati per reati che impediscono il loro accesso alle alternative al carcere e, tra esse, alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente a chi abbia già scontato almeno 26 anni di pena detentiva di non morire in carcere. Sono, insomma “ergastolani ostativi”.
Secondo un noto sofisma, tra i più raffinati della giurisprudenza costituzionale, la pena dell’ergastolo è costituzionalmente legittima nella misura in cui non sia effettivamente scontata. È costituzionale, insomma, a patto che non sia effettivamente tale. Come dire: un nazista è persona di buon cuore nella misura in cui non sia nazista.
Ma se A per essere B non può essere A, tanto vale dire che A non può essere B, e cioè che l’ergastolo non può essere costituzionalmente legittimo. Ma questo la Corte costituzionale quarant’anni fa non ebbe il coraggio di dirlo, nonostante fossero molti i buoni argomenti. Per incominciare, la finalità rieducativa della pena. Se per “rieducazione” intendiamo (come la Corte costituzionale ha sempre affermato) un concreto processo di reinserimento sociale cui deve tendere la pena – e non una semplice emenda morale che il reo raggiunge chiuso nella sua cella al termine dei suoi giorni – è del tutto evidente che una pena senza fine (“MAI” era scritto nel fascicolo degli ergastolani alla voce “fine pena”, prima che l’automazione informatica imponesse un codice numerico: 99/99/9999) non è costituzionalmente ammissibile.
Inoltre, un’adeguata valutazione dell’altro principio costituzionale per il quale le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, sarebbe anch’esso sufficiente a motivare l’incostituzionalità di una misura che non offre alcun fine alla vita umana se non quella di soffrire e morire per essere d’esempio negativo ad altri.
Tutti questi argomenti erano già tragicamente in campo quando il legislatore in “stato di eccezione” decise che bisognasse impedire legalmente ai condannati per delitti gravi o legati alla criminalità organizzata di accedere alle misure alternative.
Ma allora valeva il vecchio sofisma della Corte costituzionale e molti credevano veramente che, siccome la legge dava in astratto questa possibilità, in Italia l’ergastolo mai si scontasse per intero. Oggi no: quella pia illusione non può più essere coltivata. Con la preclusione all’accesso alle alternative, la gran parte degli ergastolani sconta la propria pena per intero, fino al 99/99/9999.
Ma, si dirà, a queste condizioni il sofisma della Corte costituzionale non regge più, e dunque l’alto consesso avrà almeno dichiarato illegittima quella preclusione. E invece no: a sofisma 1, segue sofisma 2. La preclusione alle alternative stabilita dalla legge non è assoluta, ma può essere aggirata collaborando con la giustizia, o dimostrando di non poterlo fare, di non aver nulla da dire. E dunque, secondo la Corte costituzionale, l’ergastolano che non accede alle alternative è causa del suo stesso male.
Evidentemente ai giudici della Corte non è venuto in mente che quel modo di sfuggire alla morte civile ha qualcosa di terribilmente inquisitorio: un pubblico ministero sente che io potrei sapere qualcosa su un fatto di reato; sente, ma non sa (altrimenti non me lo chiederebbe e procederebbe altrimenti); se io gli confermo le sue sensazioni, in cambio potrò avere una prospettiva di liberazione condizionale, e magari prima qualche permesso-premio; se non gli confermo quelle sensazioni (perché non so o perché “non voglio mettere un altro al posto mio”, come dice Carmelo Musumeci) marcirò in galera per il resto della mia vita. Non chiamiamola tortura, per carità, ma libera scelta proprio no.
È così che siamo arrivati a più di 1.600 ergastolani (erano 408 quando nasceva l’ergastolo ostativo): in carcere c’è chi entra senza poterne uscire più, in barba alla Costituzione più bella del mondo.
Dall’Eros dormiente di Caravaggio ai disegni di Sharazade, una bambina del campo di Idomeni. L’arte al posto degli sbarchi di migranti disperati o, peggio, delle vittime delle stragi in mare scandite da quello che è diventato ormai un vero bollettino di guerra. Di fronte al quale spesso, troppo spesso, gli Stati europei rimangono inerti, se non complici nelle loro assenze. Non è certo rimasta inerte in tutti questi anni Lampedusa, l’isola dell’accoglienza, dell’ospitaltà, la prima terra che i barconi incontrano sulla loro rotta dall’Africa. La porta d’Europa. Ecco, oggi, per una volta Lampedusa è al centro dell’attenzione grazie a una “buona” notizia. Nell’isola fino al 3 ottobre è allestita la mostra “Verso il Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo” promossa dal Comune di Lampedusa e Linosa, dal Comitato 3 Ottobre, dall’Associazione First Social Life e dalla Rai.

Nella luce abbagliante dell’isola, dentro l’edificio dalle bandiere rosso sgargiante sul tetto, al centro del paese che si affaccia sul porto testimone costante degli sbarchi, oggi si è tenuta l’inaugurazione alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il quale è stato accolto da un personaggio diventato famoso: il piccolo Samuele, protagonista insieme al generoso medico dell’isola Pietro Bartolo, di Fuocammare, film di Gianfranco Rosi Orso d’oro a Berlino (qui).
L’arte e il dramma delle migrazioni, questo il filo della mostra. Ogni opera ha un suo contenuto, un senso profondo che testimonia il legame con l’oggi. Un Caravaggio, ma anche tre opere provenienti del Museo del Bardo di Tunisi, oggetto di un terribile attentato jihadista nel 2015.
«La cultura è un’arma per combattere l’estremismo, il fanatismo», ha detto Moncef Ben Boussa, direttore del museo di Tunisi, a Lampedusa per partecipare all’inaugurazione. Una di queste opere, ha aggiunto, «ha viaggiato molto e non si sa se questo è un punto di partenza o di arrivo». Dopo un viaggio, perché trafugata negli Stati Uniti, è anche la testa di Ade. E protagonista di un viaggio è anche l’opera di Caravaggio, l’Eros dormiente, l’amorino, il bambino dal corpo rilassato e dal volto dolce e sognante. C’è chi l’ha collegato all’immagine di Aylan, il piccolo siriano di 3 anni morto sulle coste turche a settembre 2015. Un’immagine, quella, che ha avuto una eco mondiale, che ha scardinato, per un po’ di tempo – troppo breve – pregiudizi e ignoranza.
È il direttore degli Uffizi Eike Schmidt a spiegare la presenza dell’opera di Caravaggio, conservata nella Galleria Palatina e dipinta tra il 1608 e il 1609 nella vicina isola di Malta dove Caravaggio era arrivato, per così dire, come un rifugiato. «Rappresenta un messaggio positivo di speranza, di solidarietà. Raffigura il piccolo Eros, il piccolo amore addormentato che bisogna svegliare in tutti noi per dare una mano a chi ha bisogno, a chi ha bisogno vitale per sopravvivere, e che dobbiamo aiutare tutti insieme», ha detto il direttore. Figurano poi altre opere dai Musei Correr di Venezia e dal Mucem di Marsiglia: mappe, libri antichi, reperti dal Mediterraneo. Ma c’è anche il Mediterraneo di oggi, e le sue coste martoriate tra migranti e popoli in cerca di libertà. Nella mostra figura infatti anche l’ultimo libro letto da Giulio Regeni, il Siddartha di Herman Hesse e un origami a forma di cuore con la scritta in arabo di “Verità per Giulio”: lo ha inviato dal carcere Ahmed Abdallah, l’attivista egiziano consulente della famiglia del giovane ricercatore italiano morto mentre era nelle mani delle forze dell’ordine egiziane e sulla cui sorte permane ancora un enorme cono d’ombra.
E poi ci sono i disegni di Sharazade, la bambina che viveva nel campo di Idomeni, raccolti e fatti mostrati da Gazebo, la trasmissione di Diego Bianchi su Rai Tre. Ci sono anche le storie dei rifugiati come Adal, che ha disegnato per la Rai le torture inflitte a migliaia di ragazzi come lui dal regime eritreo e diventate prova nella relazione di condanna delle Nazioni Unite. E poi le testimonianze dirette da Lampedusa: gli oggetti personali di 52 persone morte soffocate nella stiva di un barcone. Uno dei tanti, come quelli che si possono vedere a poche centinaia di metri dal Museo, là sotto, vicino al campo di calcio. Infine, il docufilm di Gianfranco Rosi Fuocoammare: verrà proiettato a Lampedusa nell’ambito del Prix Italia, manifestazione che la Rai ha spostato qui dal 29 settembre al 2 ottobre.

Ancora una volta, la porta d’Europa, come spesso ha detto il sindaco Giusi Nicolini, non ci sta a diventare un cimitero, ma lancia un messaggio a tutto il continente, che non deve rimanere passivo e sordo. Del resto, sulla scogliera vicino al porto, c’è un’opera di Mimmo Paladino (qui sopra) che parla da sola. Un’enorme porta. Aperta.

La Polonia celebra il 225 anniversario della sua prima costituzione. Approvata dalla Dieta il 3 maggio del 1791, la cosiddetta “costituzione di maggio” fu la prima Carta fondamentale in Europa e la seconda al mondo, dopo quella statunitense, a introdurre il principio moderno di monarchia costituzionale fondata sulla separazione dei poteri. I polacchi continuano a celebrare l’anniversario ma intanto la costituzione è cambiata più volte. E oggi più che mai il principio di separazione dei poteri è sotto attacco.

A Varsavia dunque c’è poco da festeggiare. Soprattutto con lo scontro frontale in atto tra la Commissione europea e il governo nazionalista di Beata Szydlo (del partito di destra Diritto e giustizia, Pis), che governa dallo scorso 25 ottobre grazie alla maggioranza assoluta ottenuta alle elezioni. In particolare, Bruxelles ha emesso un «monito formale» alla Polonia per la controversa riforma della Corte costituzionale, promossa dall’esecutivo e fortemente voluta dal presidente della Repubblica, Andrzej Duda, anch’egli membro del Pis, ma soprattutto dal leader storico e carismatico del partito, Jaroslaw Kaczinsky. Secondo il vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, la riforma della Corte costituzionale rappresenta un «rischio sistemico» per lo Stato di diritto del Paese, in quanto limita il controllo di alcune leggi e impedisce alla Corte di operare efficacemente.

Il 1 giugno la Commissione europea ha compiuto un passo ulteriore, inviando a Varsavia un «parere sullo Stato di diritto», avviando per la prima volta in assoluto tale procedura verso uno Stato membro. È la prima volta che l’Unione Europea accusa uno dei Paesi membri di minare le fondamenta della democrazia e non rispettare lo Stato di diritto. La Polonia avrà due settimane per presentare le proprie osservazioni all’esecutivo europeo; se non venisse trovata una soluzione nel breve termine, il contenzioso potrebbe aggravarsi con l’approvazione di alcune sanzioni nei confronti di Varsavia, tra le quali la sospensione del diritto di voto all’interno del Consiglio Europeo. Il braccio di ferro tra la Commissione europea e l’esecutivo polacco dura da oramai da 5 mesi, e la possibilità di trovare un accordo è sempre più lontana.
Timmermans ha dichiarato che il dialogo continua e si è detto soddisfatto che la premier polacca, Beata Szydlo, sia «incline al confronto». Ma ha anche sottolineato di essere «freddo e lucido nel suo lavoro», e che «garantire il funzionamento dello Stato di diritto all’interno dell’Unione sia compito delle istituzioni europee e dei Paesi membri». Anche a Varsavia non si smorzano le critiche: Kaczinsky ha recentemente sostenuto che le indagini e le procedure aperte nei confronti della Polonia «violano il principio di autodeterminazione», e che sia impossibile per Varsavia «impugnarle di fronte alla Corte di giustizia Europea».

La riforma. Subito dopo le elezioni dello scorso autunno il Parlamento approvò una legge che permette al governo, tra le altre cose, di cancellare le nomine dei giudici della Corte costituzionale fatte dal governo precedente («la Corte costituzionale è il bastione delle cose che non funzionano» ha detto Kaczinsky commentando la riforma). L’esecutivo licenziò i 5 giudici eletti dal precedente governo di Piattaforma civica – di cui 2 vacanti per presunta incostituzionalità – per eleggerne altrettanti vicini al partito di governo. Il presidente della Corte Costituzionale, Andrezej Rzeplinsky, si rifiutò, in contrasto con il Capo dello Stato, di approvare tre nomine su cinque, concedendo loro di occupare solo i seggi rimasti in precedenza vacanti. Inoltre, la Corte costituzionale ha emanato un verdetto in base al quale la riforma sarebbe anti-costituzionale, verdetto che il Governo si rifiuta di pubblicare in Gazzetta ufficiale. Cosa che ha provocato una grave paralisi istituzionale.
Il Pis sta assumendo posizioni estreme su molti altri fronti. In primis c’è la volontà di rendere completamente illegale l’aborto, già fortemente regolamentato. In secondo luogo, in vista del vertice Nato di luglio, che si terrà a Varsavia, il governo chiede un aumento delle truppe dell’Alleanza Atlantica al confine orientale a causa delle tensioni con Mosca. In terzo luogo, è oramai un dato di fatto l’asse Varsavia-Budapest contro il piano Ue di ripartizione delle quote di migranti. Asse già manifestatosi in occasione del braccio del ferro con Bruxelles (Budapest ha dichiarato che porrà il veto se Varsavia venisse sanzionata dalla Commissione) e che potrebbe essere destinato a rafforzarsi nei prossimi anni, visto l’exploit dei partiti della ultra-destra negli altri Paesi dell’Unione, pronti a imitare il modello polacco.

Il più grave disastro ambientale della storia americana: 106 giorni di sversamento di petrolio al largo del Golfo del Messico. Dal 20 aprile al 4 agosto 2010, il greggio in uscita dal pozzo Macondo della piattaforma Deepwater Horizon, a 1.500 metri di profondità, ha causato la morte di 11 persone e danni difficili da dimensionare.
Oggi la britannica Bp, la compagnia responsabile dell’impianto, ha chiuso un accordo per risarcire gli investitori che avevano acquistato le azioni dopo l’incidente ma prima che ne fossero note le effettive dimensioni: tra 2016 e 2017 risarcirà 175 milioni di dollari per scongiurare l’apertura di un nuovo processo, il cui inizio era già fissato per il mese prossimo.
La richiesta degli investitori si basava sul fatto che Bp aveva pubblicamente ridimensionato la quantità di greggio fuoriuscita. A quanto pare le cifre reali erano circa dieci volte maggiori rispetto a quanto dichiarato dalla compagnia all’epoca, quando si parlava di un quantitativo tra i 1.000 e i 5.000 barili. Il greggio furiuscito, hanno poi rivelato le stime, si aggira infatti attorno ai 4,9 milioni di barili.
Finora, i vari risarcimenti, le multe e la bonifica sono costati a Bp 56,4 miliardi di dollari: 18,7 miliardi sono andati al governo Usa e ai cinque Stati colpiti dall’inquinamento, 12,9 per risarcire imprese e individui danneggiati, e 4 miliardi a seguito delle condanne. Ma lo strascico processuale del disastro non è ancora terminato.
All’incidente e le sue conseguenze è dedicato un film in uscuta nelle sale statunitensi il 30 settembre. Il titolo è Deepwater Horizon ed è diretto da Peter Berg (Lone Survivor), con Dylan O’Brein, Mark Wahlberg, Kurt Russell, John Malkovich e Kate Hudson.




Ansa/ Nasa/Goddard/MODIS Rapid Response Team


Ansa / Petty Officer Scott Lloyd













