«La sincerità della sua scrittura è la prima cosa che mi colpito di Joyce Lussu. Mi ha affascinato il suo modo di essere e rimanere donna, l’ aver conservato la sua femminilità, anche nelle situazioni più disperate» racconta la regista Marcella Piccinini, premiata al Bellaria Film festival per il suo intenso docufilm, La mia casa e i miei coinquilini (Il lungo viaggio di Joyce Lussu), dedicato alla scrittrice, poeta e partigiana, che fu la compagna di Emilio Lussu.
«Ad affascinarmi poi è stata anche la sua indipendenza da tutto, da gruppi politici, femministi, e il suo voler cercare a tutti costi una propria identità staccata dalla figura del marito Emilio, pur amandolo molto. E ancora – aggiunge la regista – il suo mettersi in gioco seguendo degli ideali, spesso senza neppure preventivarne i rischi; essere lei artefice della sua vita non facendosi condizionare da quello che le accadeva intorno e intervenendo in molti casi anche nella vita degli altri».
Un aspetto forse meno noto del lavoro culturale di Joyce Lussu fu quello di traduttrice, sensibile e creativa, come dimostrano le sue traduzioni delle poesie di Hikmet di cui seppe cogliere il senso più profondo, ricreandolo in italiano, nonostante non avesse studiato veramente il turco. ( Da leggere in proposito Il turco in Italia di Joyce Lussu edito da l’Asino d’oro).
«Riguardo al suo lavoro di traduttrice – commenta Piccinini – mi è piaciuto il suo scoprire quelli che lei definiva “poeti rivoluzionari”: che usavano la poesia per cambiare le cose, che scrivevano una poesia sincera che arrivasse direttamente al cuore. Lei si immergeva nella vita dei poeti, nei loro mondi, nella loro cultura per capirne la profondità e poterli successivamente tradurli». Joyce Lussu lo spiegava così: «Perché io credo che tradurre un poeta non è un’operazione tecnica e filologica, non basta un dizionario e una sintassi. Hikmet mi diceva: adopera soltanto parole concrete, non ambigue, quelle che si usano tutti i giorni e capirebbe anche un contadino analfabeta».
Centrale nel film è anche e soprattutto l’opera poetica di Joyce Lussu. «Purtroppo le sue poesie non sono così conosciute come meriterebbero, io le trovo veramente incredibili, per questo ho fatto molta fatica a selezionarle per il documentario, non potendole includere tutte». Ed è stato un lavoro di elaborazione lungo e importante quello che Marcella Piccinini ha fatto prima di girare questo film a cui ha lavorato cinque anni. «Ho iniziato facendo moltissime interviste, in Italia e all’ estero. Nel frattempo pensavo continuamente alla struttura- racconta -.Essendoci poca documentazione, soprattutto visiva, poco materiale di repertorio di prima mano su Joyce, e sentendo moltissimo l’ atmosfera che circola nei suoi libri, ho iniziato a pensare per l’appunto ad una struttura che privilegiasse la ricostruzione di quell’atmosfera: la vita di ogni giorno, i sentimenti, ma anche gli oggetti».
Il film è composto in parte da filmati d’epoca, per scovarle Marcella Piccinini ha fatto lunghissime ricerche in Italia e all’estero, soprattutto in Francia. «Ho aggiunto anche mie ricostruzioni tramite fotografie (il periodo parigino) o in pellicola in vari formati, per ridare il senso dell’ epoca anche attraverso i materiali e le tecniche usate. I formati sono il super otto, l’ otto millimetri , il 35mm, il 16mm. Credo che la pellicola mi abbia aiutato moltissimo anche mentalmente a organizzare il film, anche se girare in pellicola è stato molto faticoso, oltre che costoso». La regista è riuscita a raccontare qualcosa di molto intimo e personale di Joyce anche filmando le sue case in Sardegna e nelle Marche. «Mi hanno molto aiutato – dice – sono case vive che rispecchiano la sua personalità, i famigliari mi hanno dato l’ opportunità di abitarle per dei periodi, di mangiare con loro e quindi viverle e respirarle. Mi sono sentita a casa e si è stabilito un legame molto forte, che mi ha permesso poi di fare questo film, di immaginare per esempio gli ultimi anni di Joyce nella casa delle Marche».
Altrettanto importante è stato seguire le tracce di Joyce nei suoi viaggi, «ripercorrere i suoi stessi tragitti, usare nei limiti del possibile gli stessi mezzi che lei probabilmente usò. In Turchia ho ripreso il viaggio in autobus in super otto, poi con il direttore della fotografia abbiamo ripreso le coste turche da un caicco». E ora ci auguriamo da spettatori che il premio a Bellaria dia visibilità a questa strardinaria opera. Perché« il film non può ancora circolare ovunque perché mancano ancora dei soldi per poter pagare completamente i diritti dei video degli archivi. Questo vuol dire – conclude la regista – che può essere proiettato solo nei festival, purtroppo».
Mission to Greece per Fondazione Fotografia Modena
Facciamo il punto sulla missione fotografica dei 7 fotografi inviati in Grecia da Fondazione Fotografia di Modena. In questo momento Simone Mizzotti, Angelo Iannone, Francesco Radino, Filippo Luini, Francesco Mammarella e Antonio Fortugno sono rientrati in Italia, mentre Antonio Biasiucci si accinge a partire questa settimana per #Chios.
Vediamo chi sono:
Simone Mizzotti – destinazione: Idomeni/Atene
Il primo a partire il 9 maggio, cremonese, classe 1983, tra i più giovani del gruppo assieme ad Angelo Iannone e Filippo Luini. Tutti e tre hanno acquisito una formazione autoriale e di ricerca frequentando il master di Alta formazione sull’immagine contemporanea promosso da Fondazione Fotografia di Modena. Poi, al termine del master, Mizzotti è entrato a far parte della collezione della Fondazione con il lavoro Rifrazioni.
Come lui stesso dichiara, Simone non è un fotoreporter, il suo interesse si concentra principalmente sull’aspetto sociale del transito dei migranti in quelle aree: «Mi interessano soprattutto gli spazi e come le persone li occupano, per questo a Idomeni oltre al campo ho fotografato alcune stazioni di servizio occupate da tende». Dopo Idomeni, dove è rimasto una decina di giorni, si è spostato tra Salonicco, il porto del Pireo e Atene.
Foto di Simone Mizzotti #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – Un bambino siriano si affaccia alla finestra di un’abitazione occupata presso la stazione di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, dove centinaia di profughi arrivano tutti i giorni dopo viaggi al limite della sopportazione umana.
Foto di Simone Mizzotti #onassignment per Fondazione Fotografia Modena
Foto di Simone Mizzotti #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – Scontri nel campo di Idomeni, 18 maggio.
Foto di Simone Mizzotti #onassignment per Fondazione Fotografia Modena
Angelo Iannone – destinazione: Samos
Piacentino, classe 1982. I primi approcci li ha con la fotografia di reportage naturalistico, fa parte del Collettivo ViaGiardini. Anche lui, come Mizzotti, in seguito al master, è entrato a far parte della collezione della Fondazione che ha acquisito il suo progetto Dentro siamo bui.
Per la missione Greece prende in esame lo stretto di mare che divide Samos dalla Turchia, cogliendo le tempistiche dell’accoglienza e il loro racconto sui media del mondo. È stato a Samos fino al 28 maggio.
Foto di Angelo Iannone #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – L’ingresso di una discoteca a Samos. Un tempo mete turistiche per eccellenza, le isole greche sono diventate l’emblema del divario tra un mondo occidentale sempre più ripiegato su se stesso e attento a preservare le proprie certezze, e un mondo ‘altro’, ma a noi vicino, lacerato da guerre civili e di religione.
Foto di Angelo Iannone #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – A Psili Ammos, su Samos, l’occhio della macchina fotografica misura i 1000 metri di mare che separano la Grecia dalla Turchia .
Foto di Angelo Iannone #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – “A Vathy ho incontrato due preti ortodossi. Li ho fermati per strada per chiedere delle informazioni sul santo patrono della città e sulla bandiere esposte fuori dai luoghi di culto. Mi hanno accompagnato in un negozio per mostrarmi alcune icone e oggetti sacri. Il tutto, ovviamente, rigorosamente in greco” .
Filippo Luini – destinazione: Leros/Kalymnos
Anche lui poco più che trentenne, vive e lavora a Milano. Una laurea in Teorie della comunicazione alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano con tesi in Storia del cinema, sta girando tra le isole di Kalymnos, «ho avuto una conversazione con un volontario greco, studente di filosofia, che mi ha fatto pensare. Mi ha fatto conoscere le pagine Facebook usate dagli scafisti per pubblicizzare i viaggi di attraversata via mare tra la Turchia e la Grecia. Mostrano false immagini di navi sicure e confortevoli, attraccate in porti tranquilli. L’opposto dei pericolosissimi gommoni che hanno causato troppe vittime in mare. Il ragazzo ha riscontrato un’analogia con il proliferare in Europa di muri e filo spinato, che non serviranno ad arrestare il flusso dei migranti.» Il lavoro di Luini guarda al tema delle partenze e degli arrivi, di albe e tramonti e si è concentrato sul tema dell’attesa. Si concluderà al suo rientro con un’installazione fotografica. Anche lui è rientrato in Italia.
Foto di Filippo Luini # onassignment per Fondazione Fotografia Modena – Il porto turistico di Pothia, nell’isola di Kalymnos. Ai caratteristici colori delle case sulla collina si è aggiunto il bianco asettico delle tende del campo profughi UNHCR, che ora costituiscono un nuovo elemento del paesaggio. È questa la prima cosa che vedono i turisti, appena mettono piede sull’isola.
Foto di Filippo Luini #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – “Sull’isola di Lero passato e presente si incontrano: una ex caserma costruita negli anni 20′ dall’esercito italiano durante l’occupazione nel Dodecaneso ora è diventata un centro di accoglienza. Qui vivono più di cento rifugiati provenienti da Siria, Iraq, Afghanistan e Pakistan. L’edificio si chiama ‘Pipka’ ed è gestito da alcune ONG locali e straniere. É operativo dal 1 gennaio ed è un esempio virtuoso di accoglienza. Durante il giorno i rifugiati sono liberi di uscire e possono decidere di passeggiare nelle strade della città, svolgere attività sportive o passare qualche ora in riva al mare. L’anima del progetto è una greca di nome Mattina, che tutti chiamano ‘Mamma Mattina’”.
Foto di Filippo Luini #onassignment per Fondazione Fotografia Modena – un cartello greco di ‘Attenti al cane’.
Francesco Mammarella – destinazione: Leros/Kalymnos
Il più giovane della spedizione. Abruzzese, classe 1984, si forma a Bologna dove consegue la laurea in Storia dell’arte. La sua missione tra le isole di Agathonisi, Leros, Pserimos e Kalymnos si concentra sullo stravolgimento del panorama di queste isole dopo l’arrivo dei profughi, che nell’ultimo anno hanno superato, per numero, quello degli abitanti. «Tornato dalla missione in Grecia. Ho visto tanti uomini liberi vivere come prigionieri. Poi ho visto anche tanti rifugiati» Rientrato in Italia il 28 maggio.
Foto di Francesco Mammarella # onassignment per Fondazione Fotografia Modena
Foto di Francesco Mammarella # onassignment per Fondazione Fotografia Modena – “Oggi abbiamo visitato il centro di accoglienza dei rifugiati di Leros, che ospita circa cento persone, molte delle quali sono bambini ed adolescenti. Avremmo potuto scattare centinaia di fotografie emozionanti, ma non ne abbiamo realizzato neppure una. Abbiamo preferito fare qualcosa per loro: cinque intense ore di gioco, tra cui una combattutissima partita a calcio tra i team Siria-Iraq-Afghanistan-Italia contro Siria-Iraq-Pakistan finita, forse, con la vittoria di quest’ultima”.
Foto di Francesco Mammarella # onassignment per Fondazione Fotografia Modena – «A metà del nostro viaggio, dopo aver girato per diverse isole e parlato con numerose persone tra le centinaia di rifugiati che abbiamo incontrato, possiamo benissimo dire che ci sono almeno altri centinaia di motivi al mondo per mettere fine alle guerre in Medio Oriente. Purtroppo ci siamo resi conto che talvolta le divergenze culturali che si trovano in determinati Paesi tendono a ripetersi anche all’interno dei campi profughi».
Gli altri tre inviati in Grecia sono fotografi di lunga carriera, e conosciuti nel panorama internazionale.
Francesco Radino – destinazione: Lesbos
Nato a Firenze nel 1947 da genitori entrambi pittori. Dopo studi di Sociologia, nel 1970 diventa fotografo professionista e sceglie di operare in vari ambiti: dalla fotografia industriale al design, dall’architettura al paesaggio. A partire dagli anni Ottanta partecipa a progetti di carattere pubblico di ricerca sul territorio. Ha esposto il suo lavoro in gallerie e musei italiani, europei, giapponesi e statunitensi e le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private internazionali. Con Radino, da sempre, lavoro professionale e ricerca artistica si intrecciano. Ad oggi è considerato uno degli autori più influenti nel panorama della fotografia contemporanea in Italia.
Dall’isola di Lesbos, dove è rientrato il 28 maggio, le sue immagini ci restituiscono il fascino dei luoghi della Grecia paradisiaca, storica e leggendaria, intrecciate con l’attualità.
Foto di Andrea Cossu che ritrae Francesco Radino al lavoro – “Dal 18 marzo 2016, data in cui è stato firmato un accordo tra UE e Turchia, il numero di sbarchi a Lesbo è enormemente diminuito. Tuttavia sull’isola sono ancora presenti migliaia di profughi, in attesa di saper quale sarà il loro destino. Nel solo campo di Moria sono ad oggi presenti 4 mila migranti, costretti a vivere in pessime condizioni e impossibilitati a lasciare l’isola”
Foto di Francesco Radino # onassignment per Fondazione Fotografia Modena – “L’isola di Lesbos è bella e verdeggiante: distese di ulivi a perdita d’occhio si alternano a folti boschi di pini e macchia mediterranea; tutt’intorno, un vasto mare a separare nazioni e destini. Nelle cale a nord e ad est dell’isola i poveri resti di sbarchi più o meno recenti: salvagenti, indumenti, scarpe, qualche giocattolo, resti di barche e gommoni, a testimoniare un dramma che si è consumato sotto gli occhi di un’Europa cieca e sorda, che cerca disperatamente di volgere il suo sguardo altrove“.
Foto di Francesco Radino # onassignment per Fondazione Fotografia Modena
Foto di Francesco Radino #onassignment for Fondazione Fotografia Modena – Lesbo, una visione del campo di Moria durante gli scontri scoppiati il 16 maggio
Antonio Fortugno – destinazione: Kos
Classe 1963, vive e lavora a Como. Architetto e fotografo ha lavorato per riviste quali Domus, Interni e Area. Nel 1997, insieme a Luca Andreoni, prende parte al progetto della Provincia di Milano “Archivio dello Spazio”: un’ampia indagine fotografica sul paesaggio contemporaneo. Con Andreoni dà vita a un solido e duraturo duo artistico (Andreoni_Fortugno) che prosegue attivamente fino al 2006, portando alla realizzazione di importanti lavori e ricerche che ancora oggi sono al centro del suo interesse. A Kos, dove è stato fino al 28 maggio, si interessa ai tempi dello spostamento collegati alla memoria delle persone. «L’isola di Kos è stata, tra tutte, quella che meno ha accettato la crisi umanitaria dei migranti, nel corso dell’ultimo anno. L’hotspot presente sull’isola è stato inaugurato solo qualche giorno fa, e prima i profughi erano accampati all’interno di uno stadio da calcio» Sull’isola ha affrontato tema degli ‘spostamenti’ dei migranti, lavorando in due modi: creando un video che racconta la memoria e allo stesso tempo i cambiamenti e le modifiche fisiche del territorio
Foto di Antonio Fortugno #onassigment per Fondazione Fotografia Modena”Ieri siamo riusciti a entrare nel campo rifugiati di Kos. La struttura, aperta da soli dieci giorni, ospita oltre 200 migranti. All’improvviso, una donna di origini siriane si è affacciata a una finestra. Il suo sguardo, pacato e calmo, ha attirato subito il mio. Incontrarlo in un momento così drammatico mi ha profondamente colpito: i suoi occhi sembravano molto più rassicuranti di quanto credo potessero essere i miei”.
Foto di Antonio Fortugno #onassigment per Fondazione Fotografia Modena – L’isola di Kos è stata, tra tutte, quella che meno ha accettato la crisi umanitaria dei migranti, nel corso dell’ultimo anno. L’hotspot presente sull’isola è stato inaugurato solo qualche giorno fa, e prima i profughi erano accampati all’interno di uno stadio da calcio. Antonio Fortugno racconta, attraverso due scatti in netto contrasto tra loro, il forte ossimoro che emerge respirando l’atmosfera del luogo. Campi da calcio che diventano prigioni, gabbie per uccelli; grigi che smorzano i colori
Foto di Antonio Fortugno #onassigment per Fondazione Fotografia Modena – L’isola di Kos è stata, tra tutte, quella che meno ha accettato la crisi umanitaria dei migranti, nel corso dell’ultimo anno. L’hotspot presente sull’isola è stato inaugurato solo qualche giorno fa, e prima i profughi erano accampati all’interno di uno stadio da calcio. Antonio Fortugno racconta, attraverso due scatti in netto contrasto tra loro, il forte ossimoro che emerge respirando l’atmosfera del luogo. Campi da calcio che diventano prigioni, gabbie per uccelli; grigi che smorzano i colori
Antonio Biasiucci – destinazione: Chios
Nato nel Casertano nel 1961, l’ultimo a partire e a rientrare in Italia, sarà a Chios dal 3 al 15 giugno. Numerosissime sono le mostre personali e le partecipazioni a mostre collettive, festival e rassegne nazionali e internazionali. Molte sue opere fanno parte della collezione permanente di musei e istituzioni, in Italia e all’estero. A Chios lavorerà sul tema della prima accoglienza dei migranti: donne, uomini, bambini che devono mostrare di non essere portatori di malattie in Europa.
Le statue dei re di Napoli stanno in ordine di apparizione storica sulla facciata di Palazzo Reale. L’ultimo, Vittorio Emanuele II re d’Italia, è stato il meno residente e il meno alfabetizzato.
Le loro stature sono di taglia superiore a quella naturale, come per parodia del loro titolo di Altezze Reali. Sono al contrario irreali. Napoli non è rappresentata da questa specie di ingrandimenti, ma meglio identificata dalle sue miniature. La sua immagine più amata, dal residente e dal forestiero, è il presepe. In esso il popolo riconosce le sue molteplici fattezze, dall’acquaiolo allo zampognaro, con l’immancabile osteria, i suoi bevitori, il pozzo, il pastore meravigliato, il defecatore all’aria aperta, perché sempre si deve mescolare il sacro col profano. Lo stupefacente scultore del Cristo Velato (Giuseppe Sanmartino, 1720-1793) modellava statuine di presepe. Di anno in anno si aggiungono figure prese dall’attualità, anche loro ammesse alla taglia minuscola di tutti gli altri. Al contrario, i carri allegorici del Carnevale di altre città innalzano a monumento le caricature delle celebrità del momento. Napoli si fa rappresentare da chi non ingombra, da chi svolge la sua opera in mezzo alla folla, senza esibire fasto. Lo ha dimostrato cinque anni fa con l’elezione di un magistrato, Luigi de Magistris, alla carica di sindaco. Contro i candidati dei partiti maggiori s’impose allora un uomo la cui competenza è la legge.
Davvero non avete almeno un amico che vi abbia rimproverato per essere stati troppo duri con la povera Maria Elena Boschi e la sua sortita suipartigiani “veri” e su quelli che, di conseguenza, veri non sarebbero? Lei si riferiva – vi avrebbe detto quell’amico – ai tanti giovani, nati molto, molto tempo dopo la Liberazione e che oggi riempiono le fila dell’Anpi, accanto ai vecchi combattenti, ormai tutti oltre gli 80.
E se anche così fosse, se quelle fossero state le intenzioni della ministra, non di offendere Lidia Menapace ma di dire “voi ragazzi allora non c’eravate”? Credo – e mi dispiace – che Maria Elena Boschi abbia mostrato la stessa arroganza superficiale che caratterizza il suo mentore, Matteo Renzi, quando straparla e dice che addirittura da 70 anni si vorrebbe cambiare una costituzione che ha ancora meno di 70 anni.
Né l’uno né l’altra intendono che la Resistenza, come la Costituzione, o è una cosa viva o non è. Subito dopo la sua promulgazione nel 1948 – è vero – lo spirito della Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza, unitaria, nazionale e antifascista, fu in parte tradito. Col governo De Gasperi che scelse il suo campo nella Guerra fredda. Con la scomunica papale dei sindacalisti comunisti che riempì di voti la Democrazia cristiana. Con una ricostruzione che non fondò la Repubblica sul Lavoro, ma sui vecchi monopoli – Agnelli, Pirelli – che avevano fatto le loro prove sotto il fascismo e le guerre coloniali.
Ma fino a un certo punto. Perché la Resistenza continuò a vivere nei cortei, tra i lavoratori della Fiat relegati nelle officine Stella Rossa, tra i braccianti che non si levavano il cappello come gli aveva insegnato Di Vittorio. E – bisogna ammettere – il potere di allora, democristiano e atlantico, seppe far tesoro di questa Resistenza viva, per darsi dei limiti, per restare comunque nell’alveo della Costituzione.
Negli anni 60, i primi segni della crisi del regime – o se volete dell’anomalia italiana – la nascita di un centrosinistra partorito e poi allattato mentre si faceva udire “rumor di sciabole” golpiste. Ecco che la Resistenza saragattiana tracima nella retorica, e ne spunta un’altra che non indossa il fazzoletto tricolore ma quello “che è soltanto rosso”. Tempi difficili, nei quali però la Resistenza seppe vivere e affrontare sfide nuove. Seppe gridare nelle piazze che Valpreda era un capro espiatorio, che i fascisti e i servizi segreti, non gli anarchici di Pinelli, facevano esplodere bombe e provocavano stragi. E dall’altra parte Moro seppe intendere, nel nome della Resistenza e della Costituzione, preparando nuovi equilibri.
La Resistenza perfetta – leggete il bel libro di Giovanni De Luna – visse nella battaglia per le regioni, contro le gabbie salariali e per l’uguaglianza del Nord e del Sud, per lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori. Ma anche per il divorzio e per l’interruzione di gravidanza, affermando l’idea di uno Stato, laico e democratico, che non tollera ingerenze di un altro, confessionale.
Sono giusto ricordi, memoria ingannatrice?Davvero l’esito odierno della crisi italiana non ha più bisogno di giovani resistenti? Io non credo. Penso che nessun Paese possa costruire il futuro se chi l’ha costruito non passa il testimone ai figli dei figli. La rottamazione mi pare una rozza interruzione di questa catena. E invece a me par bello che fra le partigiane e i partigiani, membri a pieno titolo dell’Anpi, ci siano ragazzi di 30 e 20 anni. Mi sembrano autentici partigiani. Come i ragazzi che applaudivano l’altro giorno in 15mila Sanders a Sacramento mi sembrano i soli eredi possibili della nuova frontiera. Per questo la Boschi ha sbagliato. Rifiutando quei giovani ha mostrato di non capire la Resistenza né lo spirito della Costituzione che pretende di cambiare.
È quasi ironico, se non fosse drammatico, che le foto che in questi giorni hanno fatto il giro del mondo mostrando una città sommersa dall’acqua a fine primavera vengano da Parigi, dove pochi mesi fa si è tenuto il vertice mondiale sul clima. I musei sono chiusi, una decina di persone morte tra la Francia e la Germania e in diverse città, in Baviera e nel centro nord francese, sono allagate. Oggi è il giorno in cui, in teoria, la Senna raggiungerà il punto più alto. Precipitazioni sono previste in tutto il centro Europa.
Non che ciascun fenomeno metereologico estremo sia diretta conseguenza dell’aumento delle temperature, ma tutti i segnali, da qualsiasi angolo del mondo provengano, da qualsiasi misurazione o rapporto scientifico, ci parlano di un clima che cambia più in fretta di quanto gli scienziati avessero previsto. Hollande, che è in difficoltà su tutti i fronti interni, ha associato i fenomeni di questi giorni ai cambiamenti climatici. Il prossimo novembre a Marrakech si terrà un nuovo vertice mondiale per proseguire il lavoro di COP21. Allora vedremo se gli accordi di Parigi sono davvero un passo in avanti nella presa d’atto Le foto qui sotto ci ricordano, assieme a tutti i record di temperature battuti nel corso dei mesi, quanto sia urgente agire per fermare il riscaldamento globale.
La Senna all’altezza del ponte Alexandre III (EPA/YOAN VALAT)
Simbach sull’Inn, in Germania , una casa di legno distrutta dalle esondazioni del fiume (AP Photo/Matthias Schrader)
Ancora Simbach sull’Inn, si teme un nuovo peggioramento delle condizioni del tempo (AP Photo/Matthias Schrader)
Simbach sull’Inn, dall’alto. ( Tobias Hase/dpa via AP)
Triftern , si contano i danni e si ripulisce ( Armin Weigel/dpa via AP)
Il lungo Senna allagato, sullo sfondo la Torre Eiffel (AP Photo/Thibault Camus)
Sullo sfondo il Museo d’Orsay, chiuso per timore di danneggiamenti (AP Photo/Markus Schreiber)
Souppes Sur Loing, 80 chilometir a sud di Parigi. (AP Photo/Francois Mori)
Ancora la Senna a Parigi (AP Photo/Markus Schreiber)
Scontri fra polizia e centri sociali a Bologna, dove i militanti protestavano contro il comizio xenofobo di Salvini in piazza Maggiore.”Quando avremo finito con le ruspe coi campi rom, cominceremo coi centri sociali”, ha commentato il leader leghista , che ha rinunciato subito al bavaglio indossato per dimostrare il suo dissenso verso la decisione del questore che non gli aveva permesso di fare il comizio in piazza Verdi. Per sostenere la candidata leghista Lucia Borgonzoni, Salvini ha sfoderato un cartello con scritto “liberiamo Bologna”. “Sono 50 sfigati che dovrebbero essere rieducati con le buone maniere come facevano i loro amichetti in Unione Sovietica – ha detto a proposito dei militanti dei centri sociali -, la cosa indegna è l’atteggiamento del sindaco Virginio Merola, imbarazzante, vogliamo mandarlo a casa. La provocazione non è che alcuni bolognesi vogliano andare in piazza Verdi, ma che Merola tolleri e coccoli queste persone”. Questo il tenore dell’intervento bolognese che ha avuto una ulteriore escalation nel Comune di Portamaggiore.
“Vogliamo che Portomaggiore torni ai portuensi”, con questo grido dil segretario regionale Lega nord Gianluca Vinci ha introdotto il comizio di Salvini in una piazza Umberto I di curiosi e di sostenitori del candidato leghista Gianluca Lombardi, in corsa per la poltrona di sindaco di Portomaggiore. Dopo gli strali e le minacce a rom e ai centri sociali Salvini se la prende con la festa della Repubblica: “Cosa c’è da festeggiare in questa repubblica invasa e disoccupata?”. Poi l’affondo razzista parlando di centri di accoglienza con tono ringhioso: “ospitano perlopiù ventenni in salute che sanno solo lamentarsi del trattamento ricevuto”.
La ricetta di Salvini per far uscire l’Italia dalla crisi? Ha il sapore delle soluzioni ducesche, mascherate con il nuovo linguaggio del marketing: “Lo dia ai suoi figli, Renzi, l’olio della Tunisia io sarò sempre a sostegno del made in Italy. I politici del Pd sono al servizio di altri poteri, vogliono trasformare l’Italia in un grande supermarket dove si possono comprare prodotti provenienti da tutto il mondo”.
Una “rivoluzione” deve essere prevista anche per l’assegnazione delle case popolari: da privilegiare sono solo i cittadini italiani. Pacchi di pasta e case popolari in perfetto stile “novecentesco”: “Nei comuni dove c’è la Lega nord se c’è solo una casa da assegnare, questa va agli italiani che hanno contribuito da tutta la vita”. Ma non basta. Dopo la demagogia più retriva, si passa alle fantasticherie su un’Italia bucolica che non esiste, dove gli immigrati ci toglirebbero il pane della bocca pescando nei nostri fiumi (inquinati): “Non sono italiani quelli che stanno depredando i nostri fiumi, parlando della pesca di frodo. Poi i selfie egli autografi per gli acquirenti del suo suo libro “secondo Matteo”.
Lasciamo perdere Renzi, non diamogli questa soddisfazione e parliamo della riforma costituzionale. Proviamo, per oggi, anche a lasciare perdere chi l’abbia presentata (Boschi, Verdini o chi per loro) e immaginiamo che ce la stia proponendo la persona di cui ci fidiamo di più. Facciamo che il nostro collega o il nostro amico alla solita colazione insieme ogni giorno al bar ci dica che ha avuto una grande idea per superare il bicameralismo.
Immaginate che vi dica che il Senato viene abolito, anzi no, vi dice che in realtà non viene abolito ma sensibilmente ridotto e diventa molto meno influente nella tenuta del governo. Non vota la fiducia, per esempio ma si occupa comunque di questioni importanti per il funzionamento dello Stato e le regioni. Vi dice, il vostro fidato amico, che i senatori non saranno mica pagati. Anzi, meglio: otterranno certo la diaria e il rimborso e godranno comunque dell’impunità dei senatori.
Detta così, pensate voi davanti al cornetto e cappuccino, non sembra nemmeno troppo male. Vi verrebbe da chiedergli però come saranno scelti questi senatori che, nella storia della repubblica, per com’era pensato il senato, dovrebbero essere degli eletti di cui andar fieri. Anche perché la nuova legge elettorale (un pasticcio come tutte le mediazioni che vorrebbero mettere insieme parti che non hanno interessi convergenti, tipo Cuperlo con Formigoni, per intendersi) premia con un importante premio di maggioranza il partito vincitore e gli “eletti” in realtà sono nominati dal segretario di partito. Che poi qui da noi un segretario di partito sia anche il Presidente del Consiglio (e autore della legge elettorale e di questa deforma costituzionale) è una coincidenza particolarmente sfortunata.
Ecco, a questo punto vi si dice che i senatori non sono eletti. Si eleggono tra di loro. Cioè si eleggono tra gli eletti dei consigli regionali (che negli ultimi anni sono stati la melma dello sperpero e dell’illegalità) con una formula che a noi poco interessa. Tanto si votano tra loro. Così le mafie, per dire, si comprano un consigliere e si ritrovano un senatore, come al discount. Oppure, guarda un po’, sarà la politica a decidere chi può ambire ad essere eletto per ottenere l’impunità. Non so se vi ricorda qualcosa.
Vi verrebbe da ridere, sicuro. Si votano tra loro? Sembra una barzelletta. E invece no. È proprio così. Solo che sarà difficilissimo, credetemi, raccontarlo in giro.
È storia vecchia di un secolo, è storia d’oggi. L’impero ottomano tendeva a disgregarsi, un gruppo di militari e intellettuali, i giovani turchi, voleva rifondarlo su basi nazionali ed etniche. Gli imperi erano in guerra e l’ultimo sultano, Mehmet V, aveva dichiarato la jihad, contro russi e inglesi, con i tedeschi come alleati. Gli armeni furono accusati di essere, o di poter diventare, la quinta colonna del nemico russ in Turchia.
E nella notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915 cominciarono gli arresti a Istanbul degli intellettuali armeni, avvocati, deputati, giornalisti, poeti. Nei mesi successivi chiunque fosse armeno fu preso, incolonnato e deportato verso il nulla. Erano le” marce della morte”, lo sterminio di un popolo, programmato dai giovani turchi e compiuto sotto la supervisione di ufficiali tedeschi.
Perciò è storicamente importante che il Bundestag abbia riconosciuto quel genocidio, che gli armeni chiamano “il grande crimine” ma che i turchi hanno sempre negato. Erdogan è andato su tutte le furie. Invitabile: egli si pretende insieme sultano, erede di quel Mehmet V, ma anche erede di Ataturk, il giovane turco che divenne capo dello stato e artefice della modernizzazione turca. Quel genocidio appare a Erdogan un atto costitutivo, non un crimine. E i curdi, che nel 1915- 16 cooperarono alle deportazione degli armeni, sono, agli occhi di Erdogan e del suo governo, i nemici di oggi. Essendo i curdi una nazione senza stato, forte minoranza in Turchia e in Iraq, presente in Siria e Iran, e ora alleati degli americani nella guerra contro Daesh. Un pericolo per chi, come Erdogan, si vorrebbe sintesi tra Mustafa Kemal (Ataturk) e Mehemed II, che prese Istanbul.