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2 giugno 1946, cronaca di una giornata storica

C’era un bel sole in tutta la penisola quella domenica 2 giugno 1946, prima giornata del referendum istituzionale tra monarchia e repubblica – si votava anche il lunedì, fino alle 12 -. Tutto si svolse con tranquillità, anche se le file cominciarono fin dalla mattina di domenica. Avevano fretta i cittadini italiani, correvano alle urne. Finalmente erano protagonisti, finalmente era giunta l’ora del suffragio universale. Per la prima volta infatti si recarono al voto tutte le donne. A dire il vero, era già accaduto qualche mese prima, il 10 marzo (qui), ma erano elezioni amministrative che riguardavano 436 comuni (nei cui consigli comunali vennero però elette 2000 donne).

Immaginatevi la soddisfazione, la felicità di quelle stesse madri e mogli a cui il regime fascista nei vent’anni precedenti aveva chiesto immani sacrifici: oltre all’“obbligo” di fare tanti figli “da donare al duce” (come racconta il bel libro di Piero Meldini Sposa e madre esemplare, Guaraldi), le donne italiane avevano donato le loro fedi a Mussolini. Chissà, forse quando andarono a sbarrare la croce sula scheda del referendum, il loro pensiero sarà andato a quelle cerimonie dell’“oro alla patria” – in cambio ricevettero fedi di ferro – necessario per armare il regime.
Il 2 giugno 1946 era anche l’anniversario della morte di Giuseppe Garibaldi e chissà se anche questo non fosse un buon auspicio per la Repubblica. In quella stessa giornata del 2 giugno non c’era in ballo solo il referendum istituzionale, ma anche l’elezione dei rappresentanti dei partiti politici per l’Assemblea Costituente che sarebbe partita il 24 giugno 1946.
Dunque, una giornata tranquilla, con la particolarità che i bar erano chiusi per impedire disordini causati magari da ubriachi eccitati… Soltanto nella notte precedente c’era stato un episodio inquietante: il lancio di una bomba contro la tipografia milanese che stampava l’Unità e l’Avanti!.

Ma vediamo un po’ di cifre e i risultati: alla doppia tornata del 2 giugno avevano diritto al voto il 61% dei cittadini italiani (28.055.449). Si recarono alle urne in 24.947.187, una percentuale dell’89,1%. Lo storico Emilio Gentile sottolinea che quella partecipazione così alta nessuno se la sarebbe aspettata, dopo vent’anni di dittatura e lo stesso Piero Calamandrei gridò al miracolo. A favore della Repubblica si espressero in 12.717.923, per la monarchia 10.719.284, le schede nulle furono 1.498.136.

1946 REFERENDUM MONARCHIA - REPUBBLICA. GIUSEPPE ROMITA LEGGE I RISULTATI DEL VOTO.
1946 Referendum monarchia-repubblica: Giuseppe Romita legge i risultati del voto

Non fu un conteggio semplice. Nei giorni successivi alle votazioni si rincorsero, notizie, voci, articoli di giornali che davano ora la repubblica ora la monarchia per vincenti. Addirittura il 4 giugno il re Umberto I (il re di maggio, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele III) era sicuro di aver vinto. Il 5 giugno alle ore 18 il ministro dell’Interno Giuseppe Romita proclama alla radio la vittoria della Repubblica. L’annuncio ufficiale, però avvenne il 18 giugno, dopo che la Corte di Cassazione aveva esaminato tutti i ricorsi presentati. Se volessimo esaminare il voto per regioni, ecco il quadro generale: la repubblica aveva vinto nel Trentino Alto Adige, nel Veneto, nel Piemonte, nella Lombardia, nell’Emilia-Romagna, nella Toscana, nell’Umbria e nelle Marche. La monarchia invece in tutte le altre regioni dal Lazio compreso fino alle isole. Il Nord e il Centro repubblicano e il Sud monarchico. Una divisione che sancisce anche quella storica vissuta durante la seconda guerra mondiale. A parte Napoli con le sue cinque giornate di rivolta ai nazifascisti, tutto il Mezzogiorno infatti era stato liberato dall’esercito alleato, non aveva quindi conosciuto né la ribellione dal basso con la guerra partigiana né tantomeno le violenze degli uomini della Repubblica di Salò.

Per tornare alle classifiche, il Comune più repubblicano, con il 91,2% dei sì, fu Ravenna, città dagli ideali mazziniani fortissimi, mentre le città più monarchiche furono Palermo e Messina con oltre l’80%.

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Veniamo alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Erano 556 i seggi che furono così ripartiti: 207 alla Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi (35,2%), Il partito socialista di Pietro Nenni che allora si chiamava Psiup ne ottenne 115 (20,7%), il Partito Comunista di Palmiro Togliatti ebbe 104 costituenti con il 18,9%. Le altre forze  presenti alle urne erano l’Uomo qualunque del commediografo Guglielmo Giannini che ottenne 30 rappresentanti con il 5,3%, il Partito d’Azione che dopo poco si sarebbe sciolto (come anche l’Uomo qualunque) con l’1,5% e 7 eletti, il partito repubblicano con 23 eletti (4,4%), L’Unione democratica nazionale (6,8%) con 41 seggi e poi altre liste minori.
Il 2 giugno non provocò alcun “salto nel buio” come aveva sostenuto  la propaganda monarchica. Il buio gli italiani lo avevano lasciato alle spalle, nel vero senso della parola. Anche se la ricostruzione, non fu soltanto luce, ma si svolse tra molti coni d’ombra. Ma questa è un’altra storia.

 

Storie di donne che fecero la Repubblica

Grande preparazione e una «oratoria stringata ed efficace», così Patrizia Gabrielli nel libro Il primo voto, elettrici ed elette, appena uscito per Castelvecchi, racconta le 556 componenti della Assemblea costituente. Erano le prime presentanti elette dal suffragio popolare. «Laureate o lavoratrici, tutte avevano cooperato con slancio al movimento femminile, alla resistenza e alla lotta clandestina, e arrivarono in Parlamento con una esperienza dei problemi sociali che renderà particolarmente interessante la loro attività alla Costituente».

Interessante è anche l’indagine che l’autrice offre sulla quantità di pregiudizi che ancora pesavano addosso alle donne, guardate con diffidenza ai seggi, ma anche in Aula. Nei dirigenti dei partiti cattolici e conservatori ( e non solo) c’era la radicata idea che l’elettorato femminile avrebbe portato alla distruzione della famiglia e al rovesciamento dei ruoli, che avrebbe messo a soqquadro «l’ordine sociale» e della morale. Cartina di tornasole ne era già stata “la svista” per cui in un primo momento per le donne era stato ipotizzato solo il voto attivo e non quello passivo per essere elette.

Nelle liste elettorali, ricorda Gabrielli, figuravano 226 candidate, «il Partito comunista italiano ne presentò 68, la Democrazia cristiana 29, il Partito socialista italiano 16, il Partito d’azione 14, l’Unione democratica nazionale 8, la Concentrazione democratica repubblicana 8, l’Uomo qualunque 7, altre nelle liste minori. Ne furono elette ventuno. Percentuale non alta constatarono con un po’ di amarezza le dirigenti politiche di allora. Eppure , ricorda la scrittrice Dacia Maraini furono proprio quelle donne a cambiare il volto de Paese, aprendolo alla modernità, allo sviluppo, nei più svariati settori.

«Ricordiamoci che la storia la raccontano sempre i vincitori. Ed è quella che rimane a testimonianza del passato. Vogliamo farci anche noi narratrici della nostra storia, per ricordare che oltre ai molti coraggiosi e valenti uomini italiani, ci sono state tante donne che hanno contribuito profondamente ai migliori cambiamenti del nostro Paese?» con questa domanda, che è anche una esortazione Maraini apre La Repubblica delle donne (Il Mulino), un volume a più mani, in cui sono tratteggiati quattordici profili di donne eccellenti, da Camilla Ravera, a Teresa Noce e Lina Merlin, passando per le donne della resistenza, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Marisa Ombra, Ada Gobetti, ma anche ricordando scrittrici come Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Renata Viganò e l’attrice come Anna Magnani, la famosa sarta Biki, e la leggendaria Dama Bianca compagna di Fausto Coppi. Tante le storie affascinanti  e che meritano di essere più conosciute come quella di Giuliana Saladino, coraggiosa giornalista e scrittrice palermitana che, negli annidifficili del dopoguerra, ha contribuito alla ricostruzione della Sicilia. Mentre di storie più conosciute come quella di Camilla Ravera  della quale si tende di solito a ricordare solo la parte più “glamour” della sua vicenda di giornalista e scrittrice,  qui vengono ricordati i suoi cinque anni di carcere per aver partecipato alla Resistenza, con lunghi periodi di totale isolamento, quando poi fu trasferita al confino con Terracini e quando criticò aspramente nel 1939 il patto di non aggressione Russia-Germania, venendo così espulsa dal partito.
«Questo libro  – racconta Maraini  – è nato per festeggiare i settant’anni dalla nascita della Repubblica Italiana sancita dal referendum del 2 giugno 1946, giorno in cui le italiane hanno esercitato per la prima volta il diritto di voto e per la prima volta hanno ottenuto il diritto di rappresentanza. Ma anche e soprattutto per cominciare ascrivere la storia della Repubblica anche da un punto di vista femminile».

Per festeggiare i 70 anni della Reppublica che coincidono con i 70 anni di vita dell’Udi, la gloriosa associazione di donne  (che è andata a congresso l’8 maggio) pubblica un volume in cui si ricordano le conquiste di allora con contributi di Lidia Menapace  e riprendendo pagine di Marisa Ombra e di altre partigiane. Senza fermarsi  solo al passato . L’obiettivo è anche cercare di tracciare un quadro di qanto è cambiato per le donne italiane nel frattempo. E ciò che emerge, purtroppo, non è entusiasmante.  La ricerca dell’Udi  prende in esame il lavoro,  i tassi di integrazione e i casi di femminicidio.

«Dalle donne partigiane alla generazione 2.0, i dati indicano ancora oggi mancanza di attenzione e disparità sociale». Nel lavoro ancora moltissime sono le disparità di genere. Anche  nel trattamento pensionistico: le donne, infatti, sono la maggioranza dei pensionati (53%) ma assorbono solo il 44% dei 275.079 milioni di euro di spesa.  In cauda venenum : La violenza sulle donne è una piaga sociale enorme. Sono quasi 7 milioni le vittime che in Italia hanno subìto qualche forma di abuso nel corso della propria vita. Secondo i dati dell’Istat, ricorda  la ricerca dell’Usi,  sono 6 milioni e 788mila le donne che hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni.

Intervista doppia: la partigiana vera e il “falso partigiano”

Cosa significa essere partigiani oggi e cosa ha significato? Lo abbiamo chiesto a una partigiana vera, la staffetta Tina Costa, oggi 91enne, che partecipò alla Resistenza giovanissima nelle colline dell’entroterra riminese, dove attraversava la linea Gotica per portare borse ai partigiani, e ad Adriano Manna, 30enne “falso partigiano” iscritto all’Anpi.

Riprese e montaggio di Daniele Carlevari – Mawivideo

«Scuole a colori contro l’indifferenza»

FOTO DI ALESSANDRO PONTILLO

 

Sono i giorni dell’indifferenza, di una società che sembra non riconoscere più l’altro. Ma a Napoli sono anche i giorni della comunità che si ritrova attorno al fare insieme. L’Istituto Serria-Monti, due scuole nel quartiere periferico di San Giovanni a Teduccio, a est della città, è stato il centro di un intervento di “restyling” collettivo promosso dall’associazione Alveare per il sociale. SOS Scuola, si chiama il progetto: dopo analoghi interventi a Palermo, Roma e L’Aquila, nel capoluogo campano per nove giorni scolari, famiglie, abitanti del posto e personale della scuola sono stati coinvolti in una serie di laboratori permanenti di creatività, innovazione e integrazione.

Paolo Bianchini, regista e fondatore dell’associazione Alveare per il sociale, traccia con Left un bilancio appassionato di questa esperienza. «Ci siamo detti: “Insegniamo ai ragazzi a raccontare se stessi, la vita che li circonda agli altri”. E abbiamo cominciato a sperimentare una piccola radio-tv sul web. Ogni momento era una sorpresa straordinaria» racconta il regista. «Abbiamo scoperto, e in un certo senso tirato fuori, la vera faccia della cultura di questa città: quella della capacità di guardarsi negli occhi, di una comunità che sa che cosa vuol dire la convivenza».

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Per oltre una settimana, poi, armati di pennelli, bombolette, palette e martelli, tutti hanno contribuito alla riqualificazione dell’istituto, dipingendo muri interni ed esterni insieme alla Facoltà di Architettura della Federico II. Oggi su quelle pareti prima grigie ci sono i murales del più noto street artista napoletano, Gianluca Raro, assieme a giochi a terra, sedute, fiori, cespugli e orti realizzati con materiali di recupero. «Ora quest’istituto sembra un grande giocattolo» riprende il presidente dell’associazione Alveare per il sociale. «Prima di questo intervento che li ha visti protagonisti, in questo grande cortile i bambini non immaginavano nemmeno di poter giocare».
Al terzo piano del plesso “Monti” è sorto “Spassatiempo”, un ampio atrio dedicato ad attività sociali e ricreative, tra cui la web radio. Obiettivo del progetto non è infatti solo ridisegnare fisicamente gli ambienti scolastici, ma anche consegnare agli studenti degli spazi stimolanti e confortevoli per favorire la socializzazione.

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«Voglio chiamare quest’esperienza “le sette giornate di Napoli”» conclude Paolo Bianchini. «Le tante madri coraggio e i loro figli scugnizzi che ora hanno qualche possibilità in più di sottrarsi ai pericoli della strada, sono i veri protagonisti del processo di riappropriazione di uno spazio e di una modalità positiva di relazionarsi che rappresenta un antidoto all’indifferenza. Coinvolgendo studenti e famiglie nel restyling del Sarria-Monti e consegnandogli una scuola finalmente all’altezza dei loro sogni, speriamo di far recuperare anche la qualità della partecipazione alle attività scolastiche».

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Per la stretta sui voucher c’è tempo. Il decreto slitta

Slitta al prossimo Consiglio dei ministri il decreto correttivo del Jobs Act per la parte relativa ai voucher, metodo di pagamento per lavori occasionali e discontinui, gli ormai noti buoni di lavoro accessorio che vengono erogati dall’Istituto nazionale di previdenza sociale (l’Inps).

Per limitarne l’uso disinvolto, il Governo – che pure si rifiuta di limitarne l’uso, ormai smodato – aveva deciso di introdurne la tracciabilità: l’impresa che acquista un voucher – che è utilizzabile entro 30 giorni – dovrebbe comunicare all’Inps, via sms o mail, nome e codice fiscale del lavoratore, il luogo della prestazione e la sua durata, un’ora prima che cominci l’attività lavorativa. Se l’azienda si esime da tale obbligo, la pena pecuniaria prevista varia da 400 a 2400 euro. L’obiettivo è presto detto: se devi attivare prima il voucher non puoi, ad esempio, attivarlo dopo – magari dopo un controllo o dopo un incidente.

E perché il Cdm ha scelto di rinviare la discussione? Ufficialmente per ragioni tecniche, limature. Sarebbe però stato proprio il premier Matteo Renzi, secondo quanto scritto dal Corriere della Sera e dal Sole 24 ore, a prendere la decisione. Anche per una questione politica, con l’occhio alle amministrative: per evitare possibili attacchi da parte del Movimento 5 Stelle, dalla minoranza dem, dalla sinistra e dai sindacati che considerano il testo troppo soft. A loro certo non sarebbe sfuggito che, per quanto riguarda il settore agricolo, la tracciabilità è peraltro più permissiva e blanda. Qualcuno avrebbe sicuramente rievocato gli ultimi scandali avvenuti soprattutto nel sud Italia – ma anche in Veneto, che è il primo utilizzatore di voucher – che hanno visto consumarsi gravi episodi di sfruttamento e caporalato – contro cui l’esecutivo ha appena firmato un protocollo.

Attendendo dunque questo minimo intervento di modifica, ricordiamo un po’ cosa sono i voucher.

Inizialmente strumento per il solo lavoro occasionale (fu il ministro Damiano, con Prodi, a vararli per i pensionati e gli studenti e per rispondere a una richiesta di manodopera per la raccolte in agricoltura), i voucher dovrebbero – nelle intenzioni del governo, che ne ha molto esteso l’utilizzo – mettere un freno al lavoro nero e rendere, situazioni lavorative difficilmente inquadrabili a livello contrattuale, «legali». Così non è, almeno non sempre. E proprio il numero uno dell’Inps, Tito Boeri ha messo in guardia il governo: i voucher di lavoro accessorio vengono spesso utilizzati per lavori continuativi e per nulla discontinui, che necessitano di altre tipologie contrattuali, e molte volte a fronte di pochi voucher viene pagata in maniera illecita la maggior parte delle ore lavorate.

Un po’ di numeri. Il 2015 ha visto un boom dell’uso dei voucher: 1.392.900 contro i soli 24437 del 2008. Uno su tre è andato ad un under 25. Lo sostiene il rapporto annuale dell’Inps. Circa il 10% dei precettori di tali buoni ha avuto un rapporto subordinato o autonomo con l’azienda. Inoltre solo lo 0,4% ha incassato un valore annuale di oltre 5000 euro, mentre il 64,8% ha incassato meno di 500 euro, mentre il 20% ha superato i 1000. La media di incasso per i percettori è di 633 euro.

Suad Amiry racconta Damasco: «Era la perla dell’Oriente»

Damasco

È una delle città più antiche al mondo. «Damasco vanta una storia millenaria che, senza soluzione di continuità, arriva fino ad oggi». Esordisce così la scrittrice e architetto Suad Amiry, parlando del suo nuovo romanzo, che l’autrice presenta il 2 giugno a Cagliari al festival Leggendo metropolitano. «Ho scritto questo libro per portare i lettori nei vicoli della città vecchia, a sentire il profumo dei numerosi suk che vendono spezie, stoffe e cose preziose, a conoscere lo splendore dei palazzi, dei cortili con fontane e dei giardini segreti. Con i suoi stretti vicoli, le sue case e la grande moschea degli Omayyadi fa da sfondo alla storia della mia famiglia che ripercorro a ritroso nel tempo per tre generazioni».

Nel romanzo intitolato Damasco (Feltrinelli) la scrittrice riannoda i fili della vicenda familiare, di sua nonna e di sua madre, Samia Baroudi, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, intrecciandola con fatti storici come l’insurrezione palestinese del 1929 «contro la creazione di un focolare ebraico in Palestina». E poi con le altre rivolte che sarebbero seguite dal 1921 al ’36, al ’44, al ’47 fino al 2000 e oltre. A molte di queste sollevazioni suo padre, Omar Amiry, insegnante di origine palestinese, partecipò in prima persona come attivista così, per ragioni di sicurezza, dovette lasciare Giaffa dove era nato e poi Damasco per trasferirsi con la famiglia nella più grigia provincia giordana.

Ma in questo nuovo lavoro, Suad Amiry più che di fatti storici si occupa della trama dei rapporti affettivi e della vita più intima dei personaggi ricreando memorie d’infanzia e narrazioni trasmesse oralmente. A cominciare dal racconto del lungo viaggio, fra emozioni contrastanti, che la giovanissima Teta (in arabo nonna) intraprese da Nablus, nella Palestina rurale, per andare in sposa al ricco mercante damasceno, Jiddo, che aveva vent’anni più di lei. « In questo libro racconto la storia di una famiglia ricca di Damasco, una storia d’amore ma anche di tradimenti e segreti. Dove si incontrano donne forti come mia zia Laila che – ricorda la scrittrice – governava l’intera famiglia». O come la stessa Teta che alla fine si lascia conquistare dalla simpatia del bambino della domestica, nonostante sia nato dal tradimento di suo marito. Oppure come la zia Karimeth che, da nubile, decide di adottare una bambina.

Ripercorrere tutte queste vicende assume un significato nuovo e più profondo oggi che la Siria, purtroppo, è dilaniata dalla guerra. Come in altri romanzi di Suad Amiry anche qui la ricerca letteraria si fonde con l’impegno civile e politico.

 Suad Amiry
Suad Amiry

«Volevo parlare dei siriani, della loro grande storia, perché oggi sono obbligati ad emigrare ma in Occidente sono visti come mendicanti. È un dolore immenso vedere gli abitanti di Damasco e di Aleppo costretti a scappare per diventare rifugiati indesiderati. Queste persone, che oggi vediamo all’addiaccio, sono portatori di una cultura ricchissima. Nessuno lascia la propria casa se non è davvero costretto. Ogni italiano, ogni europeo, ha un padre o un nonno che è stato rifugiato o emigrante dopo la seconda guerra mondiale. Ma il guaio è che tendiamo ad avere la memoria corta».

Da architetto che ha fondato il Riwaq Center for architectural conservation a Ramallah e continua ad occuparsi del recupero del patrimonio culturale palestinese aggredito dalla colonizzazione, Suad Amiry come immagina una possibile ricostruzione della Siria? «Spero che questa guerra finisca davvero – risponde la scrittrice -. E che al più presto si possa cominciare a ricostruire la città vecchia di Aleppo con le sue splendide case e il suo castello. Vorrei che potessero tornare al loro antico splendore. Così come vorrei che fosse restaurata Palmira. Ma fino a quando il conflitto è in atto i civili siriani hanno bisogno di sostegno, trattiamoli in modo umano».

La casa, come simbolo di un luogo interiore e poi, all’opposto, come prigione sotto l’occupazione israeliana è un tema che Amiry ha trattato in Sharon e mia suocera, dopo essere tornata a vivere a Ramallah nel 1981. Mentre il dolore di dover abbandonare la propria abitazione è al centro del romanzo Golda Meir ha dormito qui in cui racconta la vita dell’esponente israeliana in una casa araba, dopo averne cancellato l’insegna in occasione di una visita di delegati delle Nazioni Unite. Molti palestinesi furono dichiarati “proprietari assenti” delle loro case, abbandonate sotto i bombardamenti israeliani a partire dal ’48 e poi non poterono farvi ritorno, se non col rischio di trovarsi faccia a faccia coi nuovi inquilini ebrei.

La vicenda siriana in qualche modo oggi le rievoca quella palestinese? «Sì perché io stessa sono stata una rifugiata. I miei genitori furono cacciati dalla loro casa, come altri 850mila palestinesi, quando lo Stato di Israele conquistò spazio. Nel mio lavoro c’è questo senso di sradicamento, questa impossibilità poi di sentirsi a casa, nonostante gli sforzi». Essere un architetto che si occupa di disegno urbano, di progettare quartieri e abitazioni «mi ha fatto capire che le case non sono fatte di pietre ma di storie umane, intime, personalissime.Questo – approfondisce Suad Amiry – è ciò che tiene insieme il mio lavoro di tutela del patrimonio architettonico e quello di scrittrice. La mia cultura assomiglia a uno stratificato palinsesto, nato dalla sedimentazione archeologica siriana e da quella palestinese ».

Damasco cTornando a Damasco, la bella dimora al centro del romanzo è l’universo in cui si muovono le donne. E se la vita sociale di inizi Novecento era teatro esclusivo degli uomini, nella sfera privata le donne erano sovrane. «Questo non è tipico solo del mondo arabo. Mostrami una cultura in cui la casa non sia il dominio delle donne! Mostratemi un paese in cui gli uomini non dominino la scena pubblica, dall’Italia, alla Francia, alla stessa Inghilterra. Con questo – precisa Amiry – non voglio dire che non ci sia niente da risolvere riguardo alla condizione della donna nei paesi musulmani e nel resto del mondo. Dico soltanto che in molte società giudicate arretrate dall’Occidente ci sono donne dalla forte personalità. Io stessa ne ho conosciute molte. Ma le donne che vengono dal mondo musulmano sono incasellate secondo stereotipi. Per esempio non si ricorda spesso che un famoso architetto come Zaha Hadid era cresciuta nella cultura araba, essendo di origine irachena!». Anche rispetto alla vita intima e affettiva delle donne nel mondo musulmano circolano molti pregiudizi, sottolinea la scrittrice. Nel romanzo, per esempio, tutta la famiglia Baroudi accetta in modo naturale una bambina, Norma, adottata da una delle figlie non sposate. Ed erano gli anni 50. «Una famiglia all’apparenza tradizionale come quella di mia madre si dimostrò aperta di mente. Tutti in casa pensavano che si è madri quando si ama un bambino e lo si cresce, non contava il fatto biologico in sé».

Quanto al rapporto con l’uomo e alla sessualità «sfortunatamente – dice Amiry – tutte le religioni, dall’ebraismo al cristianesimo all’islam sono ossessionate dal corpo delle donne: le suore devono coprirsi la testa, lo fanno anche le ebree e le musulmane. Tutte le religioni monoteiste cercano di controllare la sessualità femminile, si intromettono in questioni private come la decisione di abortire e perfino nel modo di vestire». Questo è il motivo per cui, aggiunge la scrittrice, «la separazione fra Stato e Chiesa è un passaggio fondamentale nella storia di ogni Paese. Quando la scelta religiosa di alcuni diventa fatto politico siamo tutti nei guai, perché ogni credo religioso pretende di essere superiore. E quando qualcuno pensa di essere un eletto o un essere superiore, comincia il razzismo. Iniziano la paura e l’odio per l’altro, il “diverso”, un pregiudizio che è alla base di guerre ancora oggi. Quando un musulmano commette un crimine tutti i musulmani sono considerati criminali, ma quando un cristiano commette un crimine nessuno menziona il suo credo religioso. Non possiamo usare due pesi e due misure».

L’Ocse: «Crescita destinata a rimanere lenta senza redistribuzione e investimenti pubblici»

Le prospettive di crescita per l’economia globale non sono buone. Sorpresi? Probabilmente no: i segnali sono tutti mediocri e a metterli in fila è il Global Economic Outlook dell’Ocse, che presenta un quadro non oscuro, ma niente affatto allegro, nel quale alcune tendenze osservate negli ultimi anni non si arrestano. La crescita mondiale resterà fiacca, con i grandi Paesi emergenti che corrono meno che nel decennio passato e alcuni grossi calibri – Russia e Brasile – che continueranno ad annaspare. Il quadro è desolante soprattutto perché la crescita lenta che continua viene dopo una recessione dura. Dopo la crisi del 2008 non c’è stata una ripresa sostenuta, un rimbalzo vero e duraturo in nessun luogo. E in questo quadro, se escludiamo le economie malate russa e brasiliana, a essere piuttosto malmesso è il paziente europeo. Gli analisti dell’Ocse prevedono che l’area dei 34 Paesi è destinata a crescere dell’1,8% nel 2016 e del 2,1% nel 2017.

Le ragioni della difficoltà vanno segnalate perché sono delle critiche al modello diseguale di crescita al quale siamo abituati: debolezza della domanda, scarsa condivisione degli effetti dell’aumento della produttività e crescita dei salari più bassa di quella della produttività. Le diseguaglianze che aumentano, insomma, e la poca redistribuzione sono gli imputati e producono poca domanda e scarsi investimenti: chi investirebbe sapendo che le prospettive sono mediocri?

Che fare? La risposta dell’Ocse è semplice: «La politica monetaria da sola non può far uscire l’economia dalla trappola della bassa crescita» e i bassi tassi di interesse consentono margini di politica fiscale, servono poi «investimenti pubblici per sostenere la crescita e pacchetti di riforme strutturali necessarie per aumentare la produttività, i salari e l’uguaglianza». L’Ocse insomma, propone riforme che, per la prima volta da qualche decennio, cambino di segno le politiche adottate soprattutto dall’Europa – che tra le grandi macro aree del pianeta di cui si occupa il rapporto è quella destinata a crescere più lentamente. Se poi i britannici dovessero votare Si al referendum sull’uscita dall’Unione, beh, apriti cielo, sostengono gli analisti dell’istituto di Parigi.


I numeri dell’Ocse

Tra le principali economie avanzate, gli Stati Uniti, cresceranno dell’1,8% nel 2016 e del 2,2% nel 2017. L’area dell’euro migliorerà lentamente, con una crescita del 1,6% nel 2016 e dell’1,7% nel 2017. in Giappone, la crescita è stimata allo 0,7% nel 2016 e 0,4% nel 2017.

Con riequilibrare continua in Cina, la crescita dovrebbe continuare ad andare alla deriva inferiore al 6,5% nel 2016 e del 6,2% nel 2017, sostenuta dalla domanda stimolo. i tassi di crescita di India sono attesi a librarsi vicino a 7,5% quest’anno e il prossimo, ma molte economie emergenti continuano a perdere slancio. Le recessioni profonde in Russia e Brasile persisteranno, con il Brasile prevista una contrazione del 4,3% nel 2016 e dell’1,7% nel 2017.


Le previsioni Ocse parlano di un’Italia che cresce poco anche nel prossimo biennio: 1% nell’anno in corso e 1,4% nel 2017. La disoccupazione è destinata a calare leggermente, 11,3% quest’anno, 10,8% nel 2017 (nel 2015 era del 11,9%). Tutti indicatori positivi, ma per il nostro Paese vale in maniera più pesante quel che vale per l’area Ocse in generale, dopo anni di disoccupazione record e crescita negativa, non sono questi numeri a far cambiare lo stato del Paese.

A criticare il modello sono ormai tutte le istituzioni che contano. Tre importanti economisti del Fondo Monetario firmano un breve articolo dal titolo “Neolibearlism Oversold” (che potremmo tradurre “Troppe lodi per il neoliberismo”) nel quale con toni moderati e lodandone un po’ gli effetti della prima fase, si descrivono gli effetti negativi della conversione al mercato per tutto portata dal neoliberismo. Come fa notare Aditya Chakrabortty commentatore economico del Guardian, fino a qualche anno fa gli esperti del Fondo si rifiutavano di usare persino la parola neoliberismo, sostenendo che si trattasse di una definizione ideologica di chi contestava le scelte naturali, le cose giuste da fare.

Gli economisti scrivono: «La prova del danno economico delle disuguaglianze crescenti suggerisce che i politici dovrebbero essere più aperti all’idea della redistribuzione (…) Oltre a questa, politiche potrebbero essere progettate per mitigare alcuni degli effetti in anticipo (ridurla alla radice) attraverso una maggiore spesa per istruzione, formazione e pari opportunità (Le cosiddette politiche di pre-distribuzione). E le politiche di consolidamento fiscale dovrebbero essere pensate per ridurre al minimo l’impatto negativo sui gruppi a basso reddito». Tradotto rozzamente: redistribuzione, welfare e, quando necessario, politiche fiscali pensate per far quadrare i conti che non devono accanirsi sui più poveri. Peccato che il Fondo, per adesso, non segua le idee dei suoi ricercatori – sebbene sulla Grecia il braccio di ferro tra la direttrice Lagarde e la Commissione europea fosse in parte dettato dall’eccesso di richiesta fatta da Bruxelles – e che tutta la politica economica dell’Unione europea punti a implementare regole e politiche che appaiono ormai vecchie e scadute. E, a giudicare dalle previsioni dell’Ocse, anche fallimentari.

Tutti gli indicatori Ocse in una grafica interattiva 

Sulla rotta dei migranti (terza puntata)

© Antonio Fortugno per Fondazione Fotografia di Modena. Hotel captain elias, isola di Kos.

Sono 7 i fotografi italiani che Fondazione Fotografia Modena ha inviato in Grecia per documentare l’emergenza migranti. Questa è la terza tappa del  viaggio di Left con loro nella penisola ellenica: siamo stati a Leros con Filippo Luini, a Linopoti e a Kos con Antonio Fortugno e a Kalymnos con Francesco Mammarella

 

Filippo Luini, Leros: «Ieri è stato un giorno speciale per i rifugiati del centro di accoglienza “Pipka” di Leros. Per la prima volta da quando ha aperto, lo scorso 1 gennaio, i migranti hanno potuto cucinare il loro cibo. “I siriani non mangiano pasta, preferiscono il riso!” mi sono spesso sentito ripetere durante i nostri incontri. Per mia sorpresa, uno dei piatti più serviti nei campi profughi sono i maccheroni alla bolognese.

Così, nel caldo segreto di una cucina chiusa a chiave per fare una sorpresa a tutti, una mezza dozzina di donne (aiutate da due bambine e un uomo per il taglio degli ortaggi) ha spadellato tutto il giorno con energica fierezza, quasi senza scambiarsi una parola, determinate e indifferenti alla mia presenza, compiendo un vero miracolo: riso, hummus e polpette per 50 persone!».

© Filippo Luini per Fondazione Fotografia di Modena
© Filippo Luini per Fondazione Fotografia di Modena

© Filippo Luini per Fondazione Fotografia di Modena
© Filippo Luini per Fondazione Fotografia di Modena

Antonio Fortugno, Linopoti: «In questa zona c’è la via dei profughi dell’Asia minore, a ricordo di quegli ampi spostamenti di masse umane accaduti nel 1923 tra Turchia e Grecia. Poco più su, questa caserma italiana, dove nel 1943 vennero uccisi a tradimento un centinaio di ufficiali italiani per mano dei tedeschi. È qui che sarebbe dovuto sorgere l’hotspot di Kos e in questa piazza, dopo una dimostrazione di protesta organizzata da Alba Dorata, ne fu impedito l’allestimento».

© Antonio Fortugno per Fondazione Fotografia di Modena. Linopoti. In questa zona c'è la via dei profughi dell'Asia minore, a ricordo di quegli ampi spostamenti di masse umane accaduti nel 1923 tra Turchia e Grecia. Poco più su, questa caserma italiana, dove nel 1943 vennero uccisi a tradimento un centinaio di ufficiali italiani  per mano dei tedeschi. È qui che sarebbe dovuto sorgere L'hotspot di Kos e in questa piazza, dopo una dimostrazione di protesta organizzata da Alba Dorata, ne fu impedito l'allestimento. Antonio Fortugno
© Antonio Fortugno per Fondazione Fotografia di Modena.

Antonio Fortugno, Hotel Captain Elias, isola di Kos
«In questo hotel abbandonato sono stati ospitati i rifugiati sino a qualche mese fa. Poi, la banca proprietaria dell’immobile, ha impedito a loro di restare e a me di fotografare… Non vuole che rimangano documenti a ricordo dell’accaduto».

© Antonio Fortugno per Fondazione Fotografia di Modena. Hotel captain elias, isola di Kos In questo hotel abbandonato sono stati ospitati i rifugiati sino a qualche mese fa. Poi, la banca proprietaria dell’immobile, ha impedito a loro di restare e a me di fotografare… Non vuole che rimangano documenti a ricordo dell'accaduto Antonio Fortugno
© Antonio Fortugno per Fondazione Fotografia di Modena.

Francesco Mammarella, Kalymnos: «Dopo il nuovo accordo tra Ankara e Bruxelles, definito da Medici senza frontiere “iniquo e disumano”, il personale dell’organizzazione non governativa, dopo aver preso una decisione difficile, si presta a lasciare le isole greche in segno di protesta. Tutto il materiale che hanno raccolto dovrà essere trasferito al più presto».

© Francesco Mammarella per Fondazione Fotografia di Modena da Kalymnos - 24 maggio Dopo il nuovo accordo tra Ankara e Bruxelles, definito da Medici senza Frontiere "Iniquo e disumano" , il personale dell'organizazione non governativa, dopo aver preso una decisione difficile, si presta a lasciare le isole greche in segno di protesta. Tutto materiale che hanno raccolto dovrà essere trasferito al più presto.
© Francesco Mammarella per Fondazione Fotografia di Modena

Left è media partner ufficiale di Fondazione Fotografia Modena per questo progetto

Bankitalia, Visco assolve i banchieri e taglia i bancari

Il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco durante la relazione annuale della Banca d'Italia, Roma, 31 maggio 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

«Usciamo lentamente da un lungo periodo di crisi». La ripresa è ancora lenta e di questo passo «raggiungeremo i livelli pre-crisi in un tempo non breve». Per il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, che pure nelle sue considerazioni finali all’Assemblea annuale loda l’operato del governo, «si deve e si può fare di più». A partire dall’annunciata riduzione del debito pubblico nel 2016, che – spiega – non arriverà se non si mette mano a «uno stretto controllo dei conti pubblici» e alla «realizzazione del programma di privatizzazioni» dalle quali si attende attorno a 8,5 miliardi l’anno per tre anni.

A margine di una relazione che non ha scontentato nessuno ed è piaciuta ai big del capitalismo all’italiana, da De Benedetti a Montezemolo, Visco suddivide equamente i suoi pochi rimbrotti tra le banche italiane (le stesse che fino a poco tempo fa erano le più virtuose del Vecchio continente), che ora devono darsi una ripulita e lavorare per accorparsi tra loro, e l’Europa troppo rigida nei loro confronti.

Sul fronte della crisi delle banche Visco ha difeso l’azione di vigilanza e controllo esercitata dalla Banca d’Italia, spiegando di aver fatto tutto quanto in suo potere e addossando gran parte dei limiti della gestione della crisi al divieto di utilizzare il fondo salva-depositi da parte della Commissione Ue. L’Europa, ha aggiunto Visco, ha pure respinto la richiesta dell’Italia di non addossare, almeno in questa fase, su azionisti e creditori il peso del salvataggio degli istituti di credito in crisi, il cosiddetto bail-in.

A qualcuno però la relazione di Visco non è affatto piaciuta. Fuori dall’assemblea Federconsumatori e Adusbef hanno protestato contro la mancata vigilanza nel caso dei fallimenti di Banca Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche. Denunciano che quei fallimenti hanno arricchito qualcuno e impoverito tanti, compresi i territori cui facevano riferimento le banche, chiedendo che vengano indagati e processati gli autori dei crack e chi eventualmente non ha controllato adeguatamente.

Il governatore ha poi evocato la necessità di rivedere la quantità degli organici degli istituti di credito. E questo è bastato per provocare la levata di scudi dei sindacati, compatti nel sostenere che la razionalizzazione di filiali e dipendenti è già avvenuta e che il rapporto dipendenti-clienti in Italia è più bassa che in Francia e Germania. Insomma, a quanto pare lo scenario è quello di una riduzione dei bancari in un quadro di impunità dei banchieri.