Oggi, mercoledì primo giugno, – mentre in Francia la settimana di «scioperi illimitati» è appena cominciata – a piazza Farnese, proprio sotto l’ambasciata francese a Roma, si scende in piazza. Per sostenere la lotta dei lavoratori francesi sì, ma anche per protestare contro il Jobs act del governo Renzi: «Mentre in Italia Cgil, Cisl e Uil hanno fatto passare Jobs act, licenziamenti e controriforma delle pensioni senza un’ora di sciopero e oggi sono soddisfatte degli inutili incontri con il ministro Poletti, in Francia si continua a scioperare, a lottare e combattere contro la “Loi travail”, le misure sul lavoro che il governo francese vuole imporre, costi quel che costi» recita l’appello di Usb che ha indetto la manifestazione dalle 17 alle 21.
La riforma del lavoro, equivalente francese del Jobs act, sta scatenando proteste contro Hollande e il suo governo. La reazione dei lavoratori e della Confédération générale du travail (il sindacato francese, Cgt), può contare sull’appoggio di gran parte dell’opinione pubblica. «La legge El Khomri», scrive Léon Cremieux, «s’è trasformata in un detonatore sociale».
Dai lavoratori Air France alle Nuit Debout, ai blocchi delle raffinerie. E, ancora, fabbriche e trasporti. Ogni settore della produzione e dei servizi è, in questi giorni, oggetto della protesta. Una protesta che non andava in scena – soprattutto sulle pagine e sugli schermi mainstream – da molto tempi, tanto in Italia, quanto in Europa.
«Lavoreremo e stiamo lavorando per costruire anche in Italia un percorso di mobilitazione che porti allo sciopero generale», annunciano gli organizzatori del sit-in a piazza Farnese. E attraccano i sindacati confederali: «Cgil, Cisl e Uil hanno di fatto condiviso le politiche di austerità e abdicato definitivamente al loro ruolo sindacale», recita l’appello, che si conclude con l’invito alla partecipazione «a lavoratrici e lavoratori, studenti e pensionati, disoccupati e precari, migranti e senza casa». Proprio come in Francia.
L’Orchestra Nuit Debout
Per cantare “Bella ciao“ in lingua italiana i francesi hanno dovuto leggere gli spartiti. Gli italiani la ricorderanno ancora?
La barca è una nave mercantile, sulla fiancata porta il nome AHTS Vos Thalassa scritto con vernice bianca. Tutto in maiuscolo. Il suo lavoro è pattugliare in acque libiche lo spazio tra due piattaforme petrolifere: un avanti e indietro tra salsedine, ferro e caldo.
Finché il 26 maggio alle 8 e 35 del mattino il comandante Cosimo de Candia (sì, italiano) riceve una telefonata dalla centrale operativa di Roma: ci sono due imbarcazioni piene di migranti da soccorrere. Non bisogna avere troppa fantasia per immaginare il battito del cuore di una nave chiamata a ripescare persone in mezzo al mare, gli undici uomini dell’equipaggio abbandonano la rotta consueta per raggiungere i bisognosi. Sì, bisognosi. Perché sarebbe bello ricominciare a dirle e scriverle, certe parole.
Alle tre del pomeriggio, come racconta Cosimo, ritrovano le carrette del mare con sopra la paura a forma di persone. Alcune sono state già salvate da un piccolo rimorchiatore che porta il nome di Ringhio, come nella drammaturgia perfetta di un’epopea. Ma qui senza luci, pellicola ed effetti speciali. Fame vera. Paura stanca. Altro che i film.
Racconta l’equipaggio della AHTS Vos Thalassa che appena si sono affiancati a quel rimasuglio di barche hanno cominciato ad uscire persone come formiche, fuori da ogni angolo in cui ci si rintana per avere almeno il sollievo di credersi al sicuro e non vedere. Centinaia di persone. Alla fine del carico sono 650 persone e le 11 di equipaggio. La barca che diventa piazza dei popoli. In mezzo al mare.
Dice il comandante che la cucina e la distribuzione di coperte e medicinali hanno lavorato a pieno ritmo giorno e notte. Il bisogno del resto è così: non ha turni e solo nei casi migliori riesce ad avere almeno una fine. Durante il viaggio verso il porto di Catania si caricano anche i recuperati dalla petroliera Minerva Zen e i salvati ora sono 900.
40 ore di viaggio di 11 uomini che salvano 900 persone. «Ballavano dalla felicità, alla vista del porto» raccontano. E i numeri, quegli stessi numeri che la politica maneggia come reliquie per cercare di affermarsi, lì sul mercantile diventano moltiplicazione di salvezza. Senza bisogno di comizi, studi, consulenti, assemblee o trattative. Se nel cuore di undici persone ci stanno novecento salvati, viene chiedersi davvero cosa sarebbe possibile. Nei giorni dell’omissione di soccorso c’è anche l’emozione. Del soccorso. Per fortuna. Restiamo umani.
In Libia c’è una popolazione che vuole la pace e che potrebbe dare veramente una mano per la ricostruzione in senso federalista dello Stato. Sono le comunità berbere, quelle stesse che erano in prima linea nella rivolta a Gheddafi nel 2011. Quelle stesse che hanno applicato nei secoli la democrazia di villaggio e che adesso sarebbero pronte a dare il proprio contributo alla rinascita della Libia. Di questo impegno civile e dei possibili scenari politici in Libia si parlerà stasera alle 21, alla Casa della Cultura di Milano. È il primo appuntamento del Festival berbero di Milano, giunto alla sesta edizione (il programma qui) e che si concluderà il 5 giugno.
A promuoverlo è l’Associazione culturale berbera di Milano, l’unica in Italia, presieduta da Vermondo Brugnatelli, linguista, docente dell’Università Milano Bicocca e tra i massimi studiosi di lingua berbera. Come a dire, un mondo culturale antichissimo del Nordafrica ben prima dell’avvento degli Arabi, con una lingua, il Tamazight, di antiche origini camitiche. I berberi attualmente si trovano perlopiù in Marocco, Algeria, Tunisia, e Libia appunto.
Il festival, si snoda tra cinema, e tanta musica, culminando nel concerto finale di domenica con musicisti che arrivano dal Marocco e dall’Algeria. Qui nel video alcuni artisti di un’edizione passata e presenti anche quest’anno: Kiki Ensemble e Malika Ferhat.
«Quest’anno ci saranno anche musicisti brasiliani», dice Brugnatelli che spiega come l’Associazione berbera faccia parte di una rete multiculturale del comune, Città mondo, che raggruppa tutte le associazioni delle comunità straniere di Milano. «Speriamo che continui anche sotto la prossima giunta», dice il professore.
L’incontro di stasera porta in primo piano la situazione ancora incandescente della Libia e del Nordafrica in generale. Dopo il 2011 le cosiddette primavere arabe la situazione non è affatto pacificata, anche per le infiltrazioni dell’Isis, gli attentati e l’anarchia che regna in Libia. Stasera ne parleranno Fathi Khalifa (Libia – ex presidente del Congresso Mondiale Amazigh), Marisa Fois (ricercatrice italiana esperta di geopolitica nordafricana) e appunto Vermondo Brugnatelli. È possibile seguire l’incontro in diretta streaming (qui)
«Con l’incontro cerchiamo di far circolare delle notizie sulla Libia. Di Libia adesso si parla molto in Italia, anche se si scivola in discorsi “muscolosi” sulle armi e sui soldati da inviare», continua Brugnatelli. E invece è importante ascoltare chi la Libia la conosce e chi, come i Berberi, hanno un’idea di partecipazione democratica che li distingue nel tormentato Nordafrica. «I Berberi fin qui sono stati lasciati ai margini. In Libia tendono a prevalere forze esterne, sia le potenze occidentali che quelle del Golfo, pochi ascoltano le voci dei Berberi che peraltro sono abbastanza agguerriti non nel senso militare ma nel senso della partecipazione alla vita pubblica», spiega Brugnatelli. Il timore dei Berberi libici è quello di fare la fine degli algerini. Cioè di rimanere emarginati pur avendo contribuito (soprattutto dalla regione della Cabilia) alla lotta di liberazione contro i francesi. In Libia geograficamente i Berberi sono ben visibili, soprattutto nella regione vicina a Tripoli. Nella manifestazione seguita alla caduta di Gheddafi, racconta Brugnatelli che era presente, la piazza di Tripoli era piena di bandiere berbere. In alcune città le comunità berbere hanno dato vita a esperienze di autogoverno. Come Zuara, (in berbero Tamurt n wat Willul) una città che si affaccia sul Mediterraneo e da cui partono i famigerati barconi con i migranti in fuga verso le coste italiane. «Lì, a Zuara, le autorità stanno creando istituzioni locali per fermare il fenomeno degli scafisti, visto che a livello nazionale la legge è molto blanda, loro tentano di combatterli a livello locale», racconta Brugnatelli. «Zuara è la stessa città in cui, quando ancora si combatteva Gheddafi, gli abitanti si mettevano in fila per andare a votar. Una volta liberati, si sono subito autorganizzati, hanno una grande sensibilità democratica», sottolinea il professore che ricorda un’anteprima delle primavere arabe passata sotto silenzio, ben dieci anni prima del 2011. «Era il 2001, e sempre in Cabilia, la gente si ribellò, chiedendo più democrazia. Ci furono scontri con la polizia, morirono un centinaio di persone, ma nessuno ne parlò, l’opinione pubblica europea è molto distratta», aggiunge. Un mondo, quello berbero, che andrebbe riscoperto, proprio per creare dei ponti con l’altra sponda del Mediterraneo in nome dei diritti e della cultura. Seguendo, per esempio, il filo delle parole di Una canzone berbera di Zuara. Si intitola Talest, Umanità.
e alcuni versi dicono: Orsù, riuniamoci, orsù andiamo avanti/ Mano nella mano con tanto amore / abbiamo chiavi per tutte le porte / la porta della cultura, la porta dell’umanità / la porta della vita in cui tutti faremo festa.
I Paesi europei membri della Nato aumenteranno, quest’anno, il budget militare. In primis quelli confinanti con la Russia – Polonia e i Paesi baltici – investiti dalle crescenti tensioni dovute al timore di un attacco militare da parte della potente nazione guidata da Vladimir Putin.
L’ha annunciato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg, in un’intervista al Financial Times, aggiungendo che il prossimo 8 e 9 luglio, in occasione del vertice Nato di Varsavia, sarà deciso, insieme alle istituzioni polacche, un aumento della presenza delle truppe al confine orientale, «per inviare un chiaro segnale che un attacco contro la Polonia sarà un attacco contro l’intera Alleanza». «Le previsioni per il 2016 ci dimostrano che ci sarà, per la prima volta da dieci anni, un aumento delle spese tra i Paesi europei» ha poi concluso Stoltenberg. Il caso polacco. «Vogliamo fare in modo che la Polonia non sia solo un membro della Nato, ma vogliamo avere la Nato qui in casa» ha sostenuto in maniera entusiasta il Presidente polacco Andrej Duda, del partito euroscettico e nazionalista Libertà e Giustizia, al potere dal 2015. E il governo del premier Beata Szydlo ha previsto un aumento delle spese militari del 9% nel 2016.
Le tensioni tra tra i due Paesi sono aumentate nella primavera del 2014, in seguito all’invasione russa della Crimea, ma il timore polacco di un’invasione da parte di Mosca affonda le proprie radici nel lontano XVII secolo – quando la Polonia fu spartita dalle potenze continentali – e venne rafforzato durante gli anni della Guerra Fredda e del blocco sovietico, di cui Varsavia faceva parte. La Polonia è membro della nato dal 1999, e da anni chiede all’Alleanza Atlantica uno scudo missilistico in grado di proteggere il paese da eventuali attacchi Russi. Lettonia, Estonia, Lituania. Ma l’aumento più considerevole della spesa militare lo hanno deciso i Paesi baltici: in particolare la Lettonia incrementerà il budget del 60%, la Lituania del 35% e l’Estonia del 9%. I tre paesi nei mesi scorsi hanno ospitato nel loro territorio truppe Nato per esercitazioni congiunte, e negli ultimi mesi l’Alleanza ha aumentato la propria presenza nella regione dopo le tensioni dovute alla crisi ucraina, dispiegamento che è stato definito «il maggiore rafforzamento della nostra difesa collettiva dalla fine della guerra fredda». Brexit. Stoltenberg si è poi detto preoccupato per il referendum che si terrà il prossimo 22 giugno nel Regno Unito sull’uscita dall’Europa: «Abbiamo bisogno di unità e stabilità: il Regno Unito è il primo Paese europeo per potenza militare e principale finanziatore dell’Alleanza. Per noi un Regno unito forte in un’Europa forte è molto importante». «2%». Gli Stati europei devono aumentare la spesa militare di 100 miliardi (di dollari) per rispettare l’accordo che prevede un budget minimo del 2% del Pil, contro la media attuale dell’1,43% – negli anni 80 superava il 3% a causa della Guerra fredda. Nel 2008 la spesa (dell’1,7%) cominciò a calare sensibilmente: 288 miliardi di dollari contro i 255 del 2015. La ricerca di soluzioni diplomatiche. L’Assemblea parlamentare della Nato, guidata da Michael Turner, riunitasi a Tirana, ha redatto un comunicato nel quale si legge che vi è la necessità di «adottare risposte adeguate e proporzionare» alla possibilità di «azioni aggressive della Russia contro un membro dell’Alleanza». Nonostante le tensioni si cerca di sfruttare anche le possbilità diplomatiche: il Segretario Stoltenberg ha definito «fruttuosi» i colloqui tenutisi al vertice del Consiglio Nato – Russia dello scorso aprile, il primo dopo l’invasione dell’Ucraina. Ha poi specificato che vi saranno degli incontri con Mosca prima del summit del prossimo luglio.
Tredici comuni, 3.275 candidati. Roma (con oltre 2.000 candidati), Battipaglia, e poi Badolato, San Luca, Platì, Scalea, Ricadi, San Sostene in Calabria; Sant’Oreste e Morlupo nel Lazio; Trentola Ducenta e Villa di Briano in Campania. Questi sono i comuni nelle cui liste elettorale ha ritenuto di dover mettere il naso la Commissione Antimafia. Il risultato è meno eclatante dell’ultima volta, e così minore sarà anche la polemica che con il caso De Luca investì invece Rosy Bindi, accusata di usare il suo ruolo per le eterne beghe interne al Pd. Proprio per il precedente scivoloso, questa volta si è abbondato in prudenza, e in mediazioni, con l’ufficio di presidenza slittato più volte. Ma la relazione è comunque interessante.
Gli impresentabili sono quattordici e nessun è un volto noto. Alcune cose colpiscono, sì, come ad esempio la situazione del VI municipio di Roma dove scorrendo le liste si trovano protagonisti di processi per ricettazione, detenzione di armi, tentata estorsione. Ma appunto, parliamo di un municipio, neanche del Comune, e non c’è nessun big. Tra i candidati al Comune, «non si registrano discostamenti dalla legge Severino né dal codice di autoregolamentazione», dice Bindi, «ed è un dato consolante». La commissione però chiede di mantenere l’allarme: «Nonostante l’esiguo numero, rispetto ai duemila candidati, di soggetti riconducibili alla fattispecie della legge Severino e del codice di autoregolamentazione», scrive, «deve però segnalarsi che il quadro generale non appare ugualmente rassicurante». Anche perché è la stessa legge Severino che «avrebbe bisogno di un tagliando». E poi perché, come precisa la deputata Celeste Costantino, di Sinistra Italiana, bisogna di ricordare che la commissione non rilascia certo «bollini antimafia» alle liste che passano indenni, e che «la Severino e il codice di autoregolamentazione non assicurano affatto che non possano esserci casi di infiltrazione». «Il lavoro della Commissione», insomma, «è prezioso ma non mette al riparo».
Non mette al riparo perché la commissione dovrebbe avere più poteri, dice, e magari anche una funzione legislativa, potendo cioè instradare le leggi in parlamento e non solo proporle assegnandole poi alle diverse commissioni. E non mette al riparo anche perché le cose cambiano. E infatti se prima le mafie scalavano i partiti, oggi il vestito giusto è quello delle liste civiche, dove sono tutti i casi segnalati dalla Commissione: «Che le liste civiche siano un varco per le mafie è indubbio», dice Rosy Bindi che racconta il caso del comune dove le tre famiglie hanno seminato parenti in tutte le liste.
Secondo i dati Istat nel 2015 circa il 35% delle donne nel mondo ha subito almeno una volta una violenza. Spesso il motivo di questi attacchi contro le donne è frutto di una forte disuguaglianza dei rapporti tra uomini e donne. L’Assemblea Generale Onu ha definito la violenza contro le donne come «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini». In molti casi il movente è sentimentale, come è accaduto a Sara Di Pietrantonio, 22 anni, recentemente a Roma dal fidanzato Vincenzo Paduano, 27, che non riusciva ad accettare la rottura del loro rapporto.
Qui sotto una gallery con una serie di manifesti provenienti da varie parti del mondo che raccontano e denunciano la violenza sulle donne e l’indifferenza di chi non fa nulla per mettervi fine.
I naufragi e i ribaltamenti della scorsa settimana nel Mediterraneo avrebbero causato almeno 880 vittime. È questo quel che gli operatori dell’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, hanno riscontrato intervistando i superstiti in questi giorni. Oltre ai tre relitti recuperati nei giorni scorsi, infatti, i sopravvissuti ai naufragi hanno anche parlato di un gommone con a bordo 125 che si è sgonfiato. Qui le persone scomparse cono 47, altri otto sono morti scomparsi da un’altra barca e quattro sono morti a causa di un incendio a bordo.
Il 2016 si sta rivelando un anno letale. A oggi, secondo i nuovi dati forniti da Unhcr il mare si è portato via 2.510 vite. Nello stesso periodo dello scorso anno sono morti in 1.855, 57 nei primi cinque mesi del 2014. Nel Mediterraneo muore una persona su 81 che partono il che, sottolinea il comunicato dell’Unhcr, rende evidente l’importanza delle operazioni di soccorso e «la necessità di reali, alternative più sicure per le persone che necessitano di protezione internazionale». Nel 2016 hanno intrapreso il viaggio verso l’Europa 203.981 persone, tre quarti passando dalla Turchia alla Grecia, 46.714 sono passati per l’Italia, un dato quasi identico a quello del 2015). Il percorso Nord Africa-Italia è nettamente il più pericoloso, anche perché il tratto di mare da percorrere è molto più lungo di quello tra costa turca e isole greche: 2.119 i decessi segnalati per quest’anno, un morto ogni 23 che partono.
La maggior parte delle barche in partenza dalla Libia partono dall’area di Sabratah a ovest di Tripoli. E come in passato sono più piene di persone di quelle in partenza dalla Turchia. Secondo alcune fonti, non confermate, l’aumento recente nel numero dei morti è legato agli sforzi dai contrabbandieri per massimizzare i redditi prima dell’inizio del Ramadan, la prossima settimana. L’Unhcr ha raccolto diverse testimonianze di violenze e schiavitù sessuale nei confronti delle donne, sia in Niger che in Libia. Non sembra invece che l’accordo tra Europa e Turchia abbia cambiato significativamente i flussi di siriani – non c’è insomma un grande aumento del numero di siriani che passano dalla Libia per entrare in Europa. Si assiste anche a un aumento degli arrivi di minori non accompagnati.
Le principali nazionalità che attraversano il mare verso l’Italia sono gambiana (Paese poverissimo dove è in corso una stretta autoritaria) e nigeriana. Tra i paesi più comunemente associati con movimenti di rifugiati, gli arrivi in Italia sono da Somalia ed Eritrea.
Pittore visionario, dalla feroce ironia, Hieronymus Bosch è l’artista olandese che ha dato corpo a una visione religiosa in cui un’ideologia tardo gotica e pre-riformista si mescola al folclore popolare. Il mondo alla rovescia del Carnevale, la disforia della festa che per qualche giorno sovverte il potere, che poi torna più sadico che mai, appare accanto a macabre visioni dantesche dell’al di là. Declinate in minuziosi e angosciati quadri di punizioni corporali per i peccati commessi. Da dove nasca la bizzarria di questo pittore che pare tutto ancora chiuso nel medioevo, benché fosse contemporaneo di Leonardo, è la questione su cui si interrogano da secoli gli studiosi e sulla quale la grande mostra che si apre il 31 maggio al Prado per il V centenario dalla morte di El Bosco (così Bosch in spagnolo) promette di provare a dare qualche risposta.
Si tratta della più ampia retrospettiva mai realizzata del pittore il cui vero nome era Jeroen Anthoniszoon van Aken ( prese il nome della città del Brabante dove nacque e visse tutta la sua vita: ‘s-Hertogenbosch).
La mostra del Prado riunisce infatti 21 opere della 24 sopravvissute. Compreso Il Giardino delle delizie, che è conservato al Museo del Prado e che mancava dalla mostra che a Bosch aveva dedicato la sua città natale. Grazie alla passione di Filippo II per la pittura di Bosch, oltre al Giardino delle delizie, conserva L’Adorazione dei Magie lo Haywain Tryptich. E nelle sale del museo madrileno si trovano squadernate insieme al Cristo che porta la Croce proveniente da El Escorial, e al San Giovanni Battista dalla Fundación Lázaro Galdiano. Al Prado c’è anche il frammento della Tentazione di Sant’Antonio, scoperto recentemente nel magazzino del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City ( ma non tutti sono d’accordo sull’attribuzione).
Hieronymus Bosch
Fra i quadri in mostra ci sono tavole dal sapore popolare che stigmatizza credenze popolari come quella che attribuiva a la pietra della follia, la pazzia umana. Bosch mostra un ridicolo dottore che per cappello ha un imbuto nel tentativo di togliere dal cranio di un malcapitato la fantomatica pietra. L‘irrisione verso la stupidità è un tema che ritorna nel mondo caleidoscopico mondo di Bosch. Come si può vedere nella tavola in cui in primo piano compare l’espressione ebete di un credulone di fronte a un prestigiatore,mentre un ladro gli ruba il sacchetto delle monete a sua insaputa.
Bosch era un grande moralista e se la prendeva soprattutto con i “peccati” che connotavano l’ascesa della nuova borghesia olandese, come l’avidità, la gola, la lussuria. Dei pochissimi dettagli che conosciamo della sua vita, sappiamo che faceva parte della confraternita di Nostra Diletta Signora, per laici ed ecclesiastici, che aveva come simbolo un giglio tra le spine e si dedicava al culto della Vergine. Certamente Bosch era dentro una tradizione locale in cui il cristianesimo si mescolava alle leggende popolari. Ma come leggere le figure grottesche che dominino il suo Giudizio universale? Nascevano da una paura delirante verso lo sconosciuto i suoi mostri che sembrano sorgere da una mente malata? La malattia, la morte, la pazzia erano temi che percorrono tutto il medioevo. E la pazzia è il tema di un’opera satirica in tedesco alsaziano, La nave dei folli, pubblicata nel 1494 a Basilea da Sebastian Brant, checertamente conosceva e della quale dette una sarcastica e folgorante rappresentazione.
Hieronymus Bosch, The Conjuror, c.1450-1516
Bosch credeva che per salvarsi l’unico modo fosse evitare il male, non tanto fare del bene, credeva nel diavolo e lo vedeva ovunque, come se riprendesse la tradizione dei predicatori medievali che raccontavano aneddoti feroci. Nell’epoca in cui visse c’era una folta letteratura fantastica a fondo religioso, che aveva un fondo orrorifico. Ed è probabile che molta parte del suo fitto simbolismo fosse decifrabile al tempo e che oggi siano andate perdute le chiavi interpretative. Senza contare che Bosch non era solito datare le sue opere e diventa difficile fare una periodizzazione. Che gli studiosi hanno formulato in base all’evoluzione della sua tecnica pittorica. In mezzo alle scene partorite dalla sua strana fantasia, bizzarra, straniante, si scoprono così lirici e raffinatissimi sprazzi di paesaggio sullo sfondo. E questo paradossalmente non fa che rendere ancora più grande l’enigma di Bosch. Nelle chiese romaniche c’erano molte rappresentazioni di orrori in qualche modo facevano del linguaggio del tempo, come accennavamo, pensiamo ad esempio alla Pala di Isenheim, il pittore tedesco Matthias Grünewald (1512-1515), con figure terrificanti che sembrano tratte da bestiario di Borges che trascinano San Antonio. Ma Bosch va oltre.
C’è qualcosa di profondamente inquietante nelle sue composizioni horror minuziosamente descritte, in cui sono accatastate un’infinità di figurine sconnesse. In questo sua ridda di crudeltà consumate a vista, c’è una dismisura grottesca, che alla fine produce l’effetto di una involontaria comicità. E c’è anche chi, come lo scrittore Cees Nooteboom scrivendo un libro su Bosch dal titolo Een duister voorgevoel e in corso di traduzione da Iperborea, ha recentemente notato l’eterodossia della sua vistosa insistenza sui nudi, che nei quadri di Bosch tuttavia non hano nulla di erotico. Essendo membro dell’illustre Confraternita della Madonna, il pittore era protetto. «Ma resto curioso -dice lo scrittore olandese – che non gli abbiano chiesto nulla sulla enorme quantità di nudi nei suoi quadri». C’era una setta che si chiamavano Adamiti che dormivano nudi senza toccarsi. Predicavano il ritorno dell’Eden attraverso il nudismo. Bosch se ne era interessato? E la disperazione che si coglie in dipinti come Il giardino delle delizie non era giudicata eretica rispetto alla dottrina cristiana che impone di credere che Cristo sia il figlio di Dio, morto per redimere nostri peccati? «Se Bosch con questa sua una visione desolante del mondo avesse voluto dire che Cristo non aveva fatto nulla di buono che cosa sarebbe successo? Si cammina su un esiguo filo psicologico che ti porta a rivedere e a reinterpretare di continuo il lavoro di questo insolito pittore». Certo, Filippo II governava su un Paese puritano, c’era una guerra che durava da ottanta anni, ma questo basta a spiegarne l’allucinata visionarietà? Si domanda Cees Nooteboom, rivendicando la radice olandese del lavoro di Bosch.«Senza offesa per il Prado – dice – Il giardino delle delizie è il nostro fregio del Partenone».
L’ha bruciata viva e se ne è tornato a casa. Ora che l’hanno preso dice: “sono un mostro”. Il governo predispone hot spot sulla portaerei, ma Caracciolo dice a Renzi che il flusso migratorio non è un’emergenza contingente e che bisogna investire per accoglienza e integrazione. In Francia scende in campo la Confindustria a favore della riforma del lavoro e chiama vojous i sindacalisti della Cgt, la Cgil francese. Dalla stampa di oggi
«Orchestratore della repressione nel Ciad, dove impunità e terrore dettavano legge». Mentre il magistrato Gberdao Gustave Kam pronunciava queste parole, alcune vittime dell’ex dittatore presenti in aula hanno iniziato a intonare “Viva la vittoria”. E il 73enne Habré, sotto un turbante bianco e nascosto dietro un paio di occhiali da sole, ascoltava in silenzio, immobile. Quella di Dakar è una sentenza storica: è la prima volta che un ex capo di Stato viene giudicato per crimini contro l’umanità da una Corte straniera, Habré è il primo ex capo di Stato a essere condannato per violenza sessuale in Africa.
Al potere dal 1982 al 1990, nel Ciad di Habré si stimano almeno 40mila morti e oltre 200mila vittime di tortura.