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La non-notizia degli industriali favorevoli alla riforma costituzionale

Il vicepresidente della Confidustria Vincenzo Boccia e la presidente Emma Marcegaglia durante l'incontro con Intesa San Paolo per la firma di un nuovo accordo che tra l'altro mette a disposizione dieci miliardi di euro per lo sviluppo delle pmi italiane nella sede della Confindustria, Roma, 23 settembre 2010. ANSA / GUIDO MONTANI

«Le riforme sono la strada obbligata per liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi, che hanno contribuito a soffocarlo nell’immobilismo». È un Sì ancora informale quello di Confindustria al referendum costituzionale (sarà ufficializzato il 23 giugno quando si terrà il Consiglio generale e, in quell’occasione, verranno decise e rese note «le conseguenti azioni»), ma non per questo meno convinto. Perché gli industriali d’Italia – questo sì è certo – le riforme del governo hanno intenzione di sostenerle, e possibilmente accelerarle, tutte.

È una, in particolare, la ragione di questo sostegno. E il neopresidente Vincenzo Boccia – l’uomo della continuità tanto apprezzato dall’ex presidente Emma Marcegaglia, adesso a capo di Eni – l’ha ricordata ai suoi colleghi, che al termine del suo discorso di insediamento, ieri, si sono spellati le mani per i commossi applausi: «Confindustria si batte fin dal 2010 per superare il bicameralismo perfetto e riformare il titolo V della Costituzione. Con soddisfazione, oggi, vediamo che questo traguardo è a portata di mano». Dopo il ritorno in viale dell’Astronomia, quindi, la linea Marchionne è a portata di mano in tutto il Paese.

Per Confindustria le riforme sono indispensabili. Perché «l’economia è ripartita ma la risalita è modesta e deludente»; perché lo scambio fra salari e produttività «è l’unica strada percorribile» e perché «il superamento del (tanto odiato, ndr) bicameralismo», è finalmente «a portata di mano». E la democrazia rappresentativa – quei «veti delle minoranze e dei particolarismi», per parafrasare Boccia – non sono che un intralcio. Lo ricorda il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky dalle colonne di Repubblica: la riforma del Senato sommata all’Italicum «realizza il sogno di ogni oligarchia: umiliare la politica a favore delle tecnocrazie».

Non parla solo al governo Boccia, ma anche a Cgil Cisl e Uil: «Per risalire la china dobbiamo attrezzarci al nuovo paradigma economico». Serve un capitalismo moderno, insomma. E per farlo occorre superare quel vecchiume dei contratti nazionali del lavoro. Perché gli aumenti retributivi devono corrispondere ad aumenti di produttività. «Il contratto nazionale resta per definire le tutele fondamentali del lavoro e offrire una soluzione a chi non desidera affrontare il negoziato in azienda».
Boccia avverti i sindacati, invitandoli a «non giocare al ribasso: con i profitti al minimo storico, lo scambio salario-produttività è l’unico praticabile» e «crediamo che la contrattazione aziendale sia la sede dove realizzarlo».

Preso dall’ottimismo, infine, accenna alle altre indispensabili riforme. Come quella sul fisco: «Spostare il carico fiscale, alleggerendo quello sul lavoro e imprese e aumentando quello sulle cose». Ma le persone vanno nella categoria “lavoro” o in quella delle “cose”?

Da Madrid a Londra in morte del bipolarismo

Se si votasse oggi in Spagna, secondo El Pais, Il Partito popolare di Rajoy otterrebbe il 29,9%. Al secondo posto l’alleanza tra Podemos e Isquierda Unida, con il 23,2% dei consensi. Al terzo il Psoe (20,2) e al quarto la destra riformata di Ciudadanos, 15,5%. Un assetto quadripolare che rende possibile sia un governo sostenuto da un’alleanza di sinistra, Podemos-Psoe, sia uno appoggiato dalle destre, Partito popolare-Ciudadanos.
In Francia, dove l’anno prossimo si voterà per il presidente, le forze politiche sono tre: il Front national di Marine Le Pen, i Repubblicani di Juppè e Sarkozy, i socialisti di Hollande e Valls. Se il Front national supererà, come pare certo, lo scoglio del primo turno, al secondo o la destra o la sinistra non saranno rappresentate. E ciò di per sé mette in crisi la quinta Repubblica, creazione gollista che dal ’58 ha consentito l’alternanza fra destra e sinistra.
Anche in Gran Bretagna, nonostante l’episodio delle elezioni politiche del 2015, il bipolarismo conservatori-laburisti sembra assai provato, insidiato non tanto dai liberaldemocratci quanto dalle liste regionali: lo Scottish national party ha ottenuto il 46,5% dei consensi in Scozia, Plaid Cymru il 20,5% nel Galles, togliendo ai laburisti la maggioranza assoluta della rappresentanza.
Dei tre lander tedeschi dove si è votato a marzo, il Baden-Württemberg ha dato la vittoria ai verdi, la Renania Palatinato ha confermato la presidente Spd nonostante la crisi del partito, in Sassonia-Anhalt la leadership della Merkel è minacciata da Alternativa per la Germania, partito di estrema destra che ha totalizzato il 24,2% dei consensi.
La prima considerazione è che in Europa il bipolarismo destra-sinistra – o come diremmo noi centrodestra-centrosinistra – è ormai un ricordo del passato. Di conseguenza non funzionano più le leggi maggioritarie, a un turno come in Gran Bretagna o a due come in Francia. Anzi, la crisi politica appare meno grave e più gestibile dove il sistema maggioritario è più temperato come in Spagna e in Germania.
La seconda considerazione riguarda le ragioni di questa crisi, della destra come della sinistra. Il ceto medio, l’enorme corpaccione che ha sostenuto le nostre democrazie lungo gli ultimi 70 anni, vive una condizione di ansia, di incertezza del futuro, di provvisorietà esistenziale. Non sa più dove investire – chiedetelo ai risparmiatori tedeschi imbufaliti per il quantitative easing di Draghi -, si sente minacciato da poveri e migranti, diffida delle politica, che considera corriva, con un capitalismo senza volto che sposta in un attimo miliardi di dollari cambiando la vita di centinaia di milioni di donne e di uomini. Da ciò, il riproporsi dei nazionalismi, la richiesta di alzare muri, ma anche la contestazione dal basso verso l’alto, l’antipolitica, come gli apparati usano chiamarla.
Questione economica e questione democratica sono strutturalmente connesse. E la scomparsa di una sinistra che appaia in grado di contestare alla radice le disuguaglianze sociali, di rifiutare che siano i popoli e non la ricchezza accumulata a pagare gli enormi debiti, finisce con il favorire l’affermarsi di una destra anti sistema con umori e slogan simil fascisti. Sanders può fermare Trump, Podemos ha indotto la nascita di Ciudadanos, movimento liberista ma non fascista.
Al contrario, insistere su leggi iper-maggioritarie, accusare la Costituzione di colpe non sue, illudersi che il doppio turno e il premio al premier ci consegnino un governo di “chi vuol bene all’Italia” è pura follia, un’arma di distrazione di massa, è fare da apprendista stregone a un futuro Trump italiano.

Questo editoriale lo trovi sul numero 22 di Left in edicola dal 28 maggio

 

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Il mito della purezza e l’odio per i partiti

La democrazia rappresentativa ha bisogno di partiti perché ha bisogno di canali per la selezione della classe politica e perché ha bisogno di poter controllare i rappresentanti eletti con mandato libero. Se i partiti sono esclusive congreghe di eletti (partiti cartello) o movimenti destrutturati (partiti anti-partito) i cittadini rischiano evidentemente di non avere più una voce tanto forte da farsi sentire dentro le istituzioni mentre i movimenti rischiano di non riuscire a garantire alcun controllo sui loro rappresentanti. L’Italia si trova a soffrire entrambi questi problemi che il Pd e il Movimento 5 stelle ben personificano: tra la Scilla di un partito cartello e istituzionale e la Cariddi di un movimento che raccoglie consensi elettorali ma non riesce a controllare con regole condivise e certe i propri eletti. Nonostante le differenze, Scilla e Cariddi hanno qualche cosa di simile – sono il frutto maturo dell’ideologia dell’antipolitica e dell’antipartito. Sono l’esito della lunga stagione di propaganda antipolitica che dagli anni Novanta sta cambiando letteralmente non solo il panorama partito ma anche l’abito del ragionamento pubblico. Matteo Renzi e Luigi Di Maio (o Beppe Grillo) non sono in questo molto distanti, e sfidano la barca della politica con la stessa minacciosa resistenza delle due sponde omeriche.
La propaganda di Renzi per la revisione della Costituzione poggia su quello che sono gli argomenti principe dell’antipolitica: i costi dei politici da abbattere (con questo argomento si milita contro il Senato della Repubblica) e le aggregazioni o le mediazioni da scongiurare (la fine dell’inciucio). Due argomenti che sono stati per anni nell’agenda di Marco Pannella, il più grande degli ispiratori dell’antipolitica. I costi della politica che pesano sulle tasche dei contribuenti; e maggioranze che si devono formare non in Parlamento ma la sera in cui le urne chiudono. Pannella ha sempre combattuto per questa battaglia, come per quella dell’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, un obiettivo per il quale promosse campagne politiche e referendarie e che affiancò all’altro tema: l’attacco ai partiti identitari e ideologici e quindi al consociativismo che da essi emanava – l’attacco a tutte quelle forme organizzative e aggregative (anche i sindacati) che erano non semplicemente associazioni a tema singolo (per risolvere questo o quel problema) ma associazioni “pesanti” che univano intorno a progetti ideali e ideologici ed erano poco malleabili alla scelta elettorale libera o “laica”. Liberare la politica dai partiti – questo il progetto avviato da Pannella, preseguito dalla prima Forza Italia e poi dal M5s e ora anche dal Pd di Renzi. Quella che chiamiamo abitualmente antipolitica è il tessuto connettivo che unifica oggi Renzi e Grillo (o Di Maio), molto più simili di quanto sia loro conveniente far credere. Per entrambi la società politica, necessaria per risolvere problemi che i privati non possono da soli risolvere, deve pesare il meno possibile, costare meno possibile, essere visibile il meno possibile.
Ricordiamo come è nato il Movimento 5 Stelle – sulla scia dei Vaffa day, i raduni di gente intorno ai palchi di Beppe Grillo per gridare il disgusto verso i partiti e per rivendicare una palingenesi e purificazione che solo chi stava fuori dai giochi poteva realizzare. Il Movimento è poi cresciuto e ha deciso di partecipare alle consultazione elettorali, ovvero di entrare nelle stanze piccole e grandi dei bottoni.

Questo articolo continua sul numero 22 di Left in edicola dal 28 maggio

 

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Cosa successe a Firenze 23 anni fa. La strage di via dei Georgofili e la «Falange Armata»

Firenze, primavera 1993. Nella notte tra il 26 e il 27 maggio un’autobomba esplose in via dei Georgofili, nei pressi della galleria degli Uffizi. L’esplosione provocò la morte di 5 persone: i 4 membri della famiglia Nencioni (Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, di 39 e 36 anni, e le figlie Nadia e Caterina, 9 anni la prima e 2 mesi la seconda) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni). Inoltre 48 persone rimasero ferite, alcune in maniera grave, mentre la celebre Torre dei Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, rimase gravemente danneggiata. L’ordigno provocò un cratere enorme, tre metri di diametro per due di profondità, a causa dell’alto potenziale esplosivo, 200 chili di tritolo e pentrite. La mattinata successiva con due telefonate anonime all’Ansa di Firenze e Cagliari la «Falange Armata» rivendicava la strage.

Per capire chi sia la «Falange armata» occorre fare un passo indietro. E volgere lo sguardo all’Italia dei primi anni novanta: nel gennaio del 92 si era concluso il maxi-processo di Palermo, iniziato nel 1986 e protrattosi per sei lunghi anni. Il processo era stato istruito dal pool antimafia di Antonio Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per la prima volta trovò applicazione l’articolo «416 bis», il carcere duro per i reati di stampo mafioso, istituito nel 1982 dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, all’epoca prefetto di Palermo. Le condanne inflitte furono molto pesanti: 19 ergastoli, 2665 anni totali di reclusione e multe per 11 miliardi di lire. Furono condannati in contumacia anche Totò Rina e Bernardo Provenzano, che rimasero latitanti per molto tempo ancora.

Dopo i fatti di Palermo la «Commissione provinciale» di «Cosa Nostra» (l’organo direttivo dei più potenti boss mafiosi, tra cui vi erano Riina e Provenzano) decisero di dare inizio alla stagione stragista ( che durerà per tutto il biennio 92-93) e di rivendicare gli attentati con il nome di «Falange Armata». I fatti di Firenze sono da inserirsi all’interno di una strategia più ampia con la quale «Cosa Nostra» mirava a incutere timore nell’opinione pubblica, ricattare lo Stato e imporsi come suo interlocutore diretto, in particolare per farsi approvare alcune richieste (il famoso «papello» di Ciancimino) in cui si chiedeva, tra le altre cose, l’annullamento del 416 bis e la revisione della sentenza del Maxi – Processo.

Nel sanguinoso biennio 92-93 vi furono numerose stragi collegate a quella di Firenze: il 14 maggio del 1993 venne piazzata una bomba in via Ruggiero Fauro a Roma, per colpire il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, che ne uscì miracolosamente illeso. Il 27 luglio una bomba in via Palestro, a Milano, causò la morte di 5 persone. Il 27 e 28 luglio a Roma esplosero altre due bombe nelle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio Velabro, senza fare vittime, fortunatamente. Tutte queste stragi furono rivendicate dalla «Falange Armata».

https://www.youtube.com/watch?v=zl_zYsqdnpA

A che punto sono le indagini. Il primo processo sulla strage, istituto grazie alle rivelazioni di alcuni ex-mafiosi pentiti, si concluse nel 1998 con la condanna di 14 persone all’ergastolo, gli esecutori materiali della strage (tra i quali Gaspare Spatuzza, Gioacchino Calabrò, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Pietro Carra, Antonino Mangano e Giuseppe Ferro). Il secondo terminò in appello nel 2001 con la condanna di Totò Riina e Giuseppe Graviano.
Francesco Tagliavia, un mafioso di Brancaccio, è stato condannato all’ergastolo prima nel 2011 e poi in un processo d’appello bis nel 2016. Nel 2013 è stato condannato all’ergastolo un pescatore accusato di aver fabbricato l’esplosivo usato nelle stragi, Cosimo D’amato. Gaspare Spatuzza, che collabora con la giustizia dal 2008, ha sostenuto che il boss Giuseppe Graviano avrebbe indicato nel 1994 Silvio Berlusconi e l’ex senatore Marcello Dell’Utri come suoi referenti politici.

Nel 1994 il magistrato responsabile delle indagini pier Luigi Vigna, deceduto nel 2012, ha sostenuto che la strage abbia avuto dei «mandanti a volto coperto». «Si riconosce in queste operazioni» – sosteneva Vigna – «una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi delle comunicazioni di massa, e anche una capacità di sondare gli ambienti politici e di interpretarne i segnali». E proprio in quegli anni avvennero simili stragi. Anni in cui in seguito al vuoto di potere creatosi con Tangentopoli la mafia era priva di interlocutori politici.

Idomeni, le foto scattate dai migranti durante lo sgombero

A Kurdish man sits on the ground as he waits to leave a makeshift camp during a police operation at the Greek-Macedonian border near the northern Greek village of Idomeni, Thursday, May 26, 2016. Greek police continue to evacuate the sprawling, makeshift Idomeni refugee camp where more than an estimated 8,400 people have been living for months. (Yannis Kolesidis/ANA-MPA via AP)

Il campo profughi simbolo del limbo della migrazione al confine greco-macedone non esiste più. Ai giornalisti non è stato permesso di accedere durante le operazioni di sgombero condotta delle divise greche. E delle 8.424 persone presenti lunedì scorso a Idomeni, in maggioranza provenienti da Siria, Iraq e Afghanistan, sono state smistate in altri campi, soprattutto nell’aria di Salonicco.

Le immagini che seguono, invece, sono state scattate dai migranti con i loro smartphone e inviate a Left durante le diverse fasi dello sgombero.

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Migranti, due naufragi in ventiquattro ore

epa04712791 A handout picture made available by German shipping company Opielok Offshore Carriers (OOC) on 20 April 2015 shows a boat with refugees close to the cargo ship 'OOC Jaguar' in the Mediterranean sea on 12 April 2015. The ships of the German shipping company Opielok Offshore Carriers have rescued more than 1,500 people in the Mediterranean sea since December 2014. EPA/Opielok Offshore Carriers Mandatory Credit: Opielok Offshore Carriers HANDOUT EDITORIAL USE ONLY

Quattromila migranti recuperati in mare in una sola giornata. La centrale operativa della Guardia Costiera ha coordinato 22 interventi di soccorso, che si sono tutti conclusi. Complessivamente sono stati recuperati dai mezzi della Guardia Costiera, della Marina Militare, di Frontex e Eunavformed, e da rimorchiatori e mercantili dirottati in zona circa 4.100 migranti. Segno di soccorsi più efficienti, dicono alcuni giornali, ma viene da chiedersi anche quante siano invece le persone annegate e disperse. Ciò che è certo è che c’è stata una forte ripresa delle migrazioni via mare con l’arrivo della bella stagione. Con un grande assalto al Canale di Sicilia. Ma da dove arrivano questi fragili barconi? I cinesi ne producono a basso costo e ad altissimo rischio.
Alcune delle gang attive al confine del Messico operano nell’ambito criminale del traffico degli esseri umani, avendo esteso la propria area di influenza fino al Mediterraneo. Secondo un’indagine di Europol, il business è ormai un affare multinazionale, che ha toccato punte di 5/ 6 miliardi nel 2015. Documentati sono ben 250 centri di smistamento. Mentre si comincia a parlare di una rete transatlantica. L’Unione Europea al G7  ha lanciato un appello: è necessario un impegno in soldi e accoglienza. Che incontra molti ostacoli, anche da parte della Turchia che lancia una nuova minaccia come carta di contrattazione assai significativa con l’Europa: se non ci saranno progressi sulla liberalizzazione dei visti, la Turchia non continuerà nell’attuazione dell’accordo sui migranti.

Intanto le drammatiche foto dei migranti i mare fanno il giro del mondo. In particolare ieri una foto, riporta l’Ansa, in cui si vede un barcone semiaffondato ed una cinquantina di migranti,alcuni ancora appoggiati al barcone altri già in acqua. Virale in rete è diventata la toccante della bambina di otto mesi salvata dal medico di Fuocammare, Francesco Rosi. Segno di una forte onda di commozione che circola in rete e che speriamo si traduca in mobilitazione per l’accoglienza. La situazione  nel Mediterraneo, ogni giorno si fa più tesa, come  racconta la mappa pubblicata in questa pagina.

I 31 siti Unesco minacciati dal riscaldamento globale

Sono almeno 31 i siti Patrimonio Unesco nel mondo minacciati dai cambiamenti climatici: dalla Laguna di Venezia alle Isole Galapagos passando per la Statua della Libertà. L’allarme giunge da un rapporto congiunto dell’Unesco, dell’Unep (il programma ambientale Onu) e della Union of concerned scientists (Ucs): World Heritage and Tourism in a Changing Climate.

Sono numerose le tipologie di evento legate al surriscaldamento globale che mettono a rischio il nostro patrimonio ambientale e culturale, ma la specificità di questo report sta proprio nell’aver individuato 31 casi in cui i danni sono già riscontrabili e tangibili. Adam Markham, coautore del rapporto e vicedirettore clima ed energia di Ucs, ha ribadito: «Fin qui abbiamo parlato soprattutto dei potenziali effetti dei cambiamenti climatici sui siti del Patrimonio mondiale. Oggi, la maggior parte delle problematiche che vi presentiamo sono già arrivate. A riprova che il climate change già fa sentire i propri effetti».

Il bilancio dell’impatto climatico su gioielli planetari come il Parco nazionale di Yellowstone negli Stati Uniti o la foresta impenetrabile di Bwindi, in Uganda, non esaurisce i beni della lista del World heritage a rischio. Gli autori dello studio spiegano che la selezione è stata fatta per avere una rassegna completa delle diverse tipologie di pericoli legati ai cambiamenti climatici cui sono sottoposti i siti Unesco.

I fattori di pericolo sono molti: l’aumento delle temperature nell’atmosfera e negli oceani, eventi meteorologici estremi, inondazioni, innalzamento del livello del mare. In Mali, la Grande Moschea di Djenné è particolarmente sensibile a temperature e umidità. Venezia e la sua laguna sono minacciate dall’acqua alta, la vecchia città costiera di Hoi An in Vietnam, già soggetta a inondazioni durante la stagione delle piogge, è minacciata da tempeste sempre più frequenti, erosione costiera e innalzamento dei mari.

Perfino l’Isola di Pasqua, a più di 3.500 km dalla costa cilena, ha i sui problemi. Le statue Moai, erette tra il 1250 e il 1500, girando le spalle al Pacifico meridionale potrebbero finire sommerse causa erosione e innalzamento delle acque. L’aumento della temperatura dell’acqua e l’acidificazione degli oceani sono poi le più grandi minacce per le barriere coralline di tutto il mondo.

Il rapporto avrebbe anche fatto registrare un caso di “censura” da parte del governo australiano, preoccupato per le conseguenze sul turismo delle schede riguardanti i propri siti. In particolare, ha rivelato Guardian Australia, venute a conoscenza delle schede contenute nelle bozze del rapporto e riguardanti la Grande barriera corallina, Kakadu e le foreste della Tasmania, il dipartimento per l’Ambiente australiano hanno chiesto di non pubblicarle, suscitando l’irritazione degli autori.
«La minaccia per i siti del patrimonio mondiale è imminente, non c’è più tempo da perdere – riassume Adam Markham – Dobbiamo continuare gli sforzi avviati con la Cop21 di Parigi. Dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra e sviluppare una strategia globale per la protezione dei siti Unesco». Da qui la scelta di luoghi di fama mondiale, per favorire una nuova consapevolezza delle popolazioni e dei governi.

Per Mechtild Rössler, direttrice della divisione Patrimonio culturale dell’Unesco, l’industria del turismo è parte del problema ma anche della soluzione. «Vogliamo educare tutti i soggetti coinvolti: i governi, i responsabili dei siti e il mondo del turismo. Insieme, siamo in grado di gestirli in modo diverso, per proteggerli meglio». Un avvertimento che arriva poco prima del 40esimo Comitato del Patrimonio Mondiale, che si riunirà a Istanbul dal 10 al 20 luglio. L’Unesco imporrà agli Stati di adottare misure per la loro conservazione, e deciderà, se necessario, l’esclusione dei siti “inadempienti” dalla lista. L’ultimo a essere rimosso, nel 2009, è la Valle dell’Elba a Dresda, in Germania, a seguito della costruzione di un ponte a quattro corsie nel cuore di un paesaggio unico.

 

LA LISTA DEI SITI MINACCIATI

Africa
• Bwindi Impenetrable National Park, Uganda
• Le rovine di Kilwa Kisiwani e Songo Mnara, Tanzania
• Aree protette della Regione di Cape Floral, Sud Africa
• Parco nazionale del Lago Malawi, Malawi

Mondo arabo
• Ouadi Qadisha (La Valle sacra) e la foresta dei Cedri di dio (Horsh Arz el-Rab), Libano
• Area protetta di Wadi Rum, Giordania
• Antichi Ksour di Ouadane, Chinguetti, Tichitt and Oualata, Mauritania

Asia e Oceano Pacifico
• Rock Islands Southern Lagoon, Palau
• Antica cittadina di Hoi An, Vietnam
• Shiretoko, Giappone
• Parco nazionale di Komodo, Indonesia
• Parco nazionale di Sagarmatha, Nepal
• Lagune della Nuova Caledonia: Barriera corallina ed ecosistemi associati, Francia
• Terrazzamenti di riso della Cordigliera filippina, Filippine
• Montagne d’Oro dell’Altai, Russia
• East Rennell, Isole Solomon

Nord America
• Parco nazionale dello Yellowstone, Stati Uniti
• Statua della Libertà, Stati Uniti
• Antica città di Lunenburg, Canada
• Parco nazionale del Mesa Verde, Stati Uniti

Sud America
• Porto Fortificazioni e Monumenti a Cartagena, Colombia
• Coro e il suo porto, Venezuela
• Isole Galápagos, Ecuador
• Parco nazionale di Huascarán, Perù
• Riserve delle Foreste atlantiche del Sud-est, Brasile
• Rapa Nui (Isola di Pasqua), Cile

Europa
• Il Fiordo ghiacciato di Ilulissat (Groenlandia), Danimarca
• Cuore del Neolitico di Orkney (Scozia); Stonehenge, Avebury e siti associati, Regno Unito
• Mare dei Wadden, Olanda, Germania e Danimarca
• Venezia e la sua Laguna, Italia

Che vergogna il silenzio sulla Capacchione e Saviano

Italian writer Roberto Saviano gives an interview on March 17, 2010 in Rome. Saviano, 29, whose book "Gomorrah" has been translated into 42 languages, has lived under police protection for two years. The screen version of "Gomorrah," directed by Matteo Garrone, won second prize at the 2008 Cannes film festival and was in the running for an Oscar. His book, exposes the workings of the powerful Naples mafia, the Camorra. AFP PHOTO / CHRISTOPHE SIMON (Photo credit should read CHRISTOPHE SIMON/AFP/Getty Images)

Ho pensato che forse sarebbe stato il caso di aspettare almeno un giorno per giudicare, così dopo i deliri del senatore D’Anna (ALA, la misconosciuta schiera di servetti al comando di Verdini e quindi nuova maggioranza di governo) che ha insistito in un’intervista per dirci che Saviano è “un’icona farlocca” e che lui e la Capacchione (giornalista sotto scorta e parlamentare PD) “vivono di rendita”.

Ho aspettato per sentire almeno un cenno minimo di solidarietà, un segnale di disgusto e, perché no, una censura vera contro chi si permette di pensare che la tranquillità della propria vita si un dazio ragionevole da pagare in cambio del successo. Poi ho ascoltato Verdini scusarsi (per quanto possano valere le scuse di un bugiardo naturale come stabilito dalle Procure) e ho scorto la Valente prendere le distanze dalle affermazioni di D’Anna.

E poi il silenzio. Buio. Netto. Perché? Perché Saviano (e la Capacchione e tutti quelli che sono stati cannibalizzati per una minaccia di una mafia a caso) sono allo stesso tempo i simboli della delega vigliacca di chi pensa che non sia affar suo e allo stesso tempo la dimostrazione dell’inerzia di tutti gli altri. Può un libro smuovere le coscienze? In un Paese di membri del governo corrotti e classe dirigente svenduta alla mafia certo che sì, eccome. Può Saviano avere sbagliato qualcosa? Certo, sicuro, probabilmente moltissimo ma ogni suo errore riconosciuto rischia di essere una tacca di vigliaccheria in più a tutti quelli che stanno zitti.

Il problema non è che un senatore in cerca d’autore sganci la bomba radiofonica per avere un giorno di titoli sui giornali: il problema vero è questa sensazione che Verdini (e chi per lui) sia diventato il portavoce del percolato che il governo vorrebbe dire ma non può. Basterebbe poco, davvero: un “sì scusate abbiamo esagerato ma Saviano ci sta sul cazzo e cercavamo un imbecille che si facesse sintesi della nostra antipatia”. Sarebbe bastato anche così. Pace con tutti. E va bene comunque.

Invece niente. Scuse raffazzonate e qualche piccolo bisbiglio solidale: oggi ancora una volta è il silenzio dei codardi che stupisce. O forse davvero non stupisce più. Così anche chi (secondo le proprie ragioni) è critico con Saviano decide di salire in groppa dell’asino di turno.

Buon venerdì.

Sulla strada per Garissa, al confine poroso tra Kenya e Somalia

A Dujis: cento chilometri a nord ovest da Garissa, strada pessima, circa due ore e mezzo per arrivare. Tre cantieri stradali cinesi in mezzo al nulla: cammelli, capre, qualche vacca ma anche giraffe, dik dik, antilopi e appunto cinesi, col berretto a falde larghe e tendine laterali, treppiede e misuratori, con scorta armata. Nelle loro mani il futuro infrastrutturale del nord est del Kenya. Anche chi, come noi, è qui per filmare, deve viaggiare sotto scorta: 4 militari, giusto quelli che entravano in una seconda macchina. Cifra tonda: 5000 scellini. Mille al capo rimasto in caserma e il resto agli altri. E così si fa giornata.
Dujis, fino a qualche giorno fa, 4000 abitanti, oggi 40. Gli altri sono scappati tutti. Non è stata Al Shabaab a far scappare tutti questa volta, ma un clan rivale, per questioni di acqua e altro in sospeso da sempre. Il risultato è impressionante, tutte le case in muratura bruciate e quelle di fango rase al suolo. Cenere ovunque e in mezzo suppellettili, piatti di alluminio, brocche, una bilancia, una macchina per cucire. Una fuga precipitosa. Bashey, che ci accompagna, dice che c’era un ottimo ristorante a Dujis. Nello spaccio semidistrutto gli asini mangiano il riso sparso per terra tra le scansie per la mercanzia. Secuola e centro sanitario sono intatti ma chiusi e saccheggiati. Rimangono solo le reti dei letti a castello del dormitorio degli studenti qualche quaderno abbandonato in fretta. Una postazione dell’esercito con due mezzi blindati. Militari sparpagliati per il paese e qualche abitante che ancora raccoglie le ultime cose e si allontana tra i cespugli col fagotto. Di qui a poco si aspettano ritorsioni. Al Shabaab strumentalizza gli scontri interclanici per reclutare giovani vendicativi.

Il giorno dopo a Fafi, verso il confine con la Somalia. La strada di terra è meno rovinata della prima, dev’essere passata una ruspa dopo la stagione delle piogge. Quattro case e una moschea nel nulla a 40 gradi. Qui Al Shabaab ha colpito due volte, l’ultima delle quali uccidendo un soldato e facendo esplodere la residenza della pattuglia. Risultato: gli insegnanti della scuola locale (tranne uno) e il personale sanitario, tutti scappati a gambe levate. Molti studenti non sono tornati a scuola. È rimasto solo il maestro di Eldoret a stipendio di una Ong keniota. Si chiama Eliud Ktoo ed è un eroe. Oo qualcuno che davvero non ha alternative. Al presidio medico un giovane del posto cerca di darsi da fare con le conoscenze che ha acquisito come assistente del personale sanitario prima che scappasse. Naturalmente niente medicine. Niente vaccini da un anno. Completamente abbandonati e alla mercé delle milizie. Incazzati, forse più col governo che con i terroristi. In pericoloso allineamento con la strategia di Al Shabaab.
Eppure Farah Alì mi guarda sorridente con l’occhio opaco dalla cataratta e dice, in perfetto inglese, che la comunità è unita e i miliziani non l’avranno vinta. In nessun modo acconsentiranno a un reclutamento. Con loro, dice, non ci sediamo, e non si dialoga.
I miliziani sono arrivati in 30 nel tardo pomeriggio. Volevano bruciare anche il centro sanitario ma gli uomini sono usciti dalla moschea e hanno cominciato a urlargli contro. Naturalmente gli studenti del convitto, gli insegnanti e il personale medico se ne sono andati il giorno dopo.
Il vecchio mi chiede cosa vogliamo come “ricompensa” nel caso il filmato produca dei benefici al villaggio. Gli rispondo in maniera politicamente corretta, del tipo servizio pubblico, lo facciamo per la gente ecc. ecc., e dentro di me penso che quella domanda è già una ricompensa.

La strada di Garissa

La strada che attraversa Garissa collega Nairobi al porto somalo di Kisimayo. Lasciato alle spalle il caos della capitale del Kenya, la strada è tutta una frenesia di attività kikuyu, da Thika in poi, dagli inumani latifondi a caffè e ananas, alle torrette di avvistamento per ladri di frutta, all’agave e al banano; il monte Kilimambogo che annuncia la fine della regione centrale. Si comincia a scendere: la silenziosa terra dei Kamba, l’arancione dei grandi massi levigati, le colline e il baobab. E ancora più giù, fino ai 40 gradi del grande Nord Est, una regione circa metà dell’Italia che nasconde un milione e mezzo di pastori nomadi. A Garissa, la capitale del regno, si arriva attraversando il ponte sul fiume Tana: ci si lascia alle spalle il Kenya e si entra in Somalia, anche se nominalmente il confine è a 140 chilometri più a nord – confine da squadra, in stile congresso di Berlino – mentre è il fiume Tana a dividere da sempre gli africani bantu cristiani dai somali nilotici musulmani. Più avanti, verso il confine, l’enorme campo profughi di Daadab, 500 mila persone senza identità né prospettiva.
È domenica, a Garissa. I cristiani col vestito da festa in due sulle motorette, e molto colore, gli arancioni, i rossi e i blu degli hijab creano un elegante movimento in mezzo alla polvere. Ma anche scuri niqab, e burqa, a testimoniare il cambiamento delle tradizioni.


A Garissa si arriva attraversando il ponte sul fiume Tana: ci si lascia alle spalle il Kenya e si entra in Somalia, il confine è a 140 chilometri più a nord ma è il fiume a dividere da sempre gli africani bantu cristiani dai somali nilotici musulmani. Più avanti l’enorme campo profughi di Daadab, 500 mila persone senza identità né prospettiva


 

 

Negli anni della guerra civile in Somalia, e oltre, dopo la fuga degli americani e più in generale dell’Occidente, l’essenziale alla popolazione è stato – ed è – garantito dall’assistenzialismo religioso. Maggiore l’impegno delle organizzazioni religiose musulmane, maggiore e più rigida la loro influenza sui costumi. Come le epidemie che scoppiano in Somalia e il giorno dopo arrivano a Garissa, così, anche se più lentamente, arrivano le nuove regole. Si sfuma al nero, virano i colori. Il confine è nominale, di fatto divide ma non separa clan e famiglie. Un confine poroso, come lo definisce Ahmed Daud, capo progetto di Amref per il Nord Est, che rende difficile all’organizzazione riuscire a inseguire e a garantire il minimo di assistenza sanitaria ai suoi nomadici assistiti. Soprattutto dopo che, a seguito degli attentati, hanno dovuto evacuare quasi il 70% del proprio personale medico. Ossia i cristiani.

La strage del 2015

Il2 aprile del 2015 quattro appartenenti ad Al Shabaab entrano nell’università di Garissa, prendono 700 studenti in ostaggio e, poi, fanno una strage: 148 morti e 79 feriti. Dopo una giornata di assedio, i quattro verranno uccisi – uno si farà saltare in aria. Un anno dopo la commemorazione della strage. La lapide fa il suo effetto; a parte il macabro dorato dell’arte funeraria, la lista dei nomi restituisce parte dell’orrore. L’ultimo, il 148esimo ha solo un nome (o un cognome), ed è stato aggiunto dopo. Lo si capisce dal diverso font con cui è scritto e l’incertezza nel seguire una linea retta. Scritto a mano, si direbbe: “148 – Masinde”. Una vaghezza e un mistero molto africano. Viene voglia di indagare la sua storia.
Leggo i nomi sulla lapide come mi capita spesso con i monumenti ai caduti dei nostri paesi. L’analogia è piuttosto impressionante perché la lista è lunga come può esserla quella di un nostro centro urbano. La maggior parte ragazze. Il Daily Nation lancia già i suoi articoli on line in cui parla di centinaia di partecipanti alla maratona e di mille persone venute da tutto il Kenya. Al massimo correvano in cento e che in tutto eravamo in 500, in maggioranza di etnia somala. Ma tant’è, bisogna dare un messaggio alla città e alla nazione, il paese è unito, solidale, non abbiamo paura, e così via. Era molto bello veder correre le ragazze in ciabatte sorridenti con l’hijab svolazzante.
Poi i discorsi e i convenevoli di alcuni politici locali e quello commosso del rettore dell’università: “Buio a mezzogiorno”, cita, ricordando quella mattina, i suoi studenti e le sue studentesse. Lui, Ahmed Osman, aveva scritto sei lettere per raccomandare alle istituzioni la presenza di una postazione militare nel campus, l’ultima scritta una settimana prima dell’attacco. Poi parlano preti e imam. Decisamente più convincenti i secondi, discorsi a braccio, molto comunicativi e sentiti rispetto ai primi, letti da magrissimi sacerdoti che scambiavano l’ordine dei fogli. Nessuna testimonianza di studenti sopravvissuti ma quella di un militare che descrive nel dettaglio il lavoro micidiale del cecchino appostato sul tetto dei dormitori. Lui è riuscito a togliersi dalla linea di fuoco ma ha dovuto assistere impotente all’agonia di un ragazzo inerme esposto al tiro.


Alla fine delle celebrazioni della strage un tappeto di bottiglie di plastica vuote che si sciolgono al sole; un cameraman mezzo svenuto, soldati appisolati qua e là. Quelli impeccabili dell’esercito regolare e le reclute della polizia, sbottonate, con la camicia fuori dai pantaloni di colore diverso da quello delle braghe, il fucile usato per sostenersi nella calura


 

Alla fine dei giochi, un tappeto di bottiglie di plastica vuote che si sciolgono sotto un sole impossibile; un cameraman mezzo svenuto, soldati appisolati qua e là. Quelli impeccabili dell’esercito regolare, con elmetto e giubbotto antiproiettile, e le reclute della polizia amministrativa, sbottonati, con la camicia fuori dai pantaloni e di un colore leggermente diverso da quello delle braghe, come spaiata, il fucile usato per sostenersi nella calura. E soprattutto l’infaticabile “big man” Hassan Sheik Ali, primo rettore e cofondatore dell’università. Magro, in bianco, profumatissimo, che mi scruta attraverso un paio di occhiali bifocali. Le sopracciglia tinte con l’henné si riflettono sulle lenti. Sbobinare la sua intervista è scrivere un trattato sulla politica del governo centrale in questa zona dimenticata del Paese. Volutamente dimenticata. Che ricorda qualcosa di noi.

La moschea, il luogo sicuro in città

All’una abbiamo finito, giusto in tempo per i ragazzi di andare in moschea, dove andiamo pure noi, e dove mi trovo improvvisamente circondato dai fedeli con l’imam che mi punta, ha fretta di dire qualcosa, che i musulmani di Garissa hanno donato il sangue per salvare i superstiti degli attacchi e che la loro comunità non può vivere senza i cristiani, gli uni sono parte della vita degli altri. Certo è che, al momento, almeno fino a quando Al Shabaab non abbraccerà l’ideologia dell’ISIS – e non comincerà ad ammazzare altri musulmani – ho l’inevitabile e scomoda sensazione che il cortile della moschea sia l’unico posto sicuro della zona, e infatti i suoi cancelli sono aperti alla strada, e non ci sono guardie armate di fronte all’ingresso. Il custode della moschea ha una frusta in mano ma serve solo per cacciare i questuanti troppo insistenti. Anche lui vuole parlarmi ma è difficile capire quello che dice perché ha perso troppi denti, e per di più in maniera asimmetrica: sembra lamentarsi del fatto che i militari kenyoti picchiano i somali e ne violentano le donne. Viene subito in mente il modo – un misto di autoritarismo e arrapamento- con cui il laido caporale di stanza a Dujis guardava insistentemente Dinah, la giovane contrattista dell’ufficio di comunicazione di Amref che ci sta aiutando in questo viaggio. Il caporale fa parte di un esercito di occupazione, con tutto lo schifo che ne deriva.

Al contrario, cancelli chiusi e militari vigili davanti alla cattedrale di Garissa e all’African Inland Church, dove il primo luglio del 2012 i miliziani hanno ucciso due militari, quattro uomini, nove donne e due bambini. Il Kenya è un paese in guerra, lo capisci facilmente dalla lista degli attacchi di Al Shabaab riportata da Wikipedia. Quasi 900 morti in quattro anni. Senza contare le vittime indirette di uno stato di guerra: i sospetti, le vendette personali, gli scomodi…

La sera disobbediamo alle raccomandazioni del responsabile della sicurezza e ceniamo fuori dall’albergo. Niente di eccessivo, attraversiamo la strada ed entriamo nello spaccio della polizia: carne arrosto e birra. Solitamente posti molto squallidi: prostitute e poliziotti ubriachi, musica troppo forte e attese inverosimili per mangiare. Ma qui siamo a Garissa, guardie armate e sobrie all’ingresso, motivi lingala di sottofondo e un ampio spazio ventilato, dove persone nere discutono nell’anonimato del buio. Respiriamo un attimo, parlando poco e guardando distratti un lontano schermo televisivo. E davanti a noi si materializza un prete, il reverendo che dava messa la mattina nella cattedrale, anche lui vuole parlare, e allora ricomincia la descrizione dell’orrore. I primi spari prima dell’alba, e poi sempre peggio fino alle sei di sera, con i suoi giovani fedeli che gli mandavano su whatsapp l’invito a pregare per le loro anime. Qualche messaggio ancora alle undici, l’ultimo verso l’una. Poi silenzio. Sulla strada principale la corsa disperata dei fuggitivi, coperti di sangue, altri mezzi nudi. Mi chiedo come mai anche lui qui, non sembra un posto adatto a un prelato. Mi rispondo subito: anche lui forse viene a prendere un “po’ d’aria”, prima di tornarsene in canonica, dove ogni rumore sottolinea il fatto che la sua vita non vale niente. Father Nicholas non ha più un coro, quasi tutte le ragazze che cantavano erano studentesse dell’università di Garissa. Quelle che non sono morte, sono scappate.