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Un Paese che invecchia e i figli affidati ai nonni

Una società vecchia, che tiene i propri giovani in uno stato di minorità per quanto riguarda l’accesso al lavoro e ad un minimo di sicurezza economica, favorendo quindi il ritardo in tutte le tappe di entrata piena nello status di adulto. Eppure, sono proprio le imprese, spesso piccole, guidate da giovani quelle che stanno maggiormente creando nuova occupazione, quindi contribuendo alla ripresa, perché più innovative e competitive. Una società con ancora forti disuguaglianze di genere, nella sfera privata-famigliare (in primis nella divisione del lavoro non pagato) e nel mercato del lavoro, nonostante le giovani donne siano ormai istruite come e più degli uomini e entrino massicciamente nel mercato del lavoro, salvo doverne uscire, o comunque disinvestire, se hanno un figlio. Perché conciliare maternità e occupazione è ancora e forse sempre più difficile in una società del lavoro flessibile e senza servizi adeguati. È difficile, se non impossibile, soprattutto per le madri giovani a bassa qualifica, che non a caso sono concentrate tra i Neet, esponendo sé e i propri figli al rischio di povertà.

Nonostante tutti i cambiamenti nei modi di fare famiglia, i nonni rimangono una risorsa essenziale per una giovane madre che voglia stare nel mercato del lavoro. Una società non solo fortemente disuguale, e con un forte presenza di povertà minorile, ma in cui è forte la riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza, in particolare quella mediata dall’istruzione: chi, a 14 anni, aveva almeno un genitore laureato non solo è molto più probabile che si laurei a sua volta di un coetaneo che lo aveva solo diplomato o con la scuola dell’obbligo, ma avrà, anche per questo, un reddito del 29% superiore. Senza contare che il livello di istruzione conta anche per la durata della vita, specie tra i maschi. I laureati hanno il 13% in più di sopravvivere fino a 80 anni di chi ha la sola licenza elementare, perché hanno avuto stili di vita migliori e occupazioni meno pesanti e/o pericolose. Tra le donne la differenza è meno della metà, perché tra le ottantenni di oggi solo una minoranza è stata occupata (e le laureate sono state ancora meno). È probabile che anche tra loro il divario aumenterà nelle generazioni successive, dato il grande cambiamento che ha interessato la vita delle donne dal dopoguerra ad oggi. Una società, infine, in cui le disuguaglianze sociali e di genere si sovrappongono, accentuandosi, a quelle territoriali, senza che vi sia stata una vera soluzione di continuità dal dopoguerra adoggi ed anzi con un inasprimento a seguito della crisi.

È questa l’immagine, per altro non inaspettata, che emerge dal Rapporto annuale dell’Istat. Esso mette anche l’accento non solo sulla nota inefficienza redistributiva della spesa sociale, pur aumentata nonostante le riforme e i tagli, ma sulla mancanza, o inefficacia, delle politiche pre-distributive, ovvero di quelle che dovrebbero contrastare le disuguaglianze all’origine, non solo ex post: le politiche dell’istruzione, innanzitutto, a partire dai nidi. Questi, infatti, non sono solo uno strumento di conciliazione per i genitori, in particolare le madri, occupati. Sono, vanno pensati come, strumenti di pari opportunità per i bambini. Lo stesso vale per le scuole materne, il tempo pieno nella scuola dell’obbligo, il sostegno alle attività sportive non solo di tipo agonistico e alla partecipazione culturale dei bambini e ragazzi. È sorprendente che solo ora, dopo anni di denuncia della durezza della riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza, dello scandalo della povertà minorile, del poco nobile primato che l’Italia ha nella percentuale di Neet, si sia avviata, per meritoria iniziativa e pressione di Save the Children, una sperimentazione nel campo del contrasto alle povertà educative. Come se si ignorasse l’importanza del capitale culturale e sociale nel dare forma alle disuguaglianze e alla loro riproduzione. Meglio tardi che mai, anche se è solo una piccola goccia.

Questo articolo è sul numero 22 di Left in edicola dal 28 maggio

 

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«Sì, Matteo Renzi ha imparato da Grillo». Parla Lucia Annunziata

Lucia Annunziata

L’antipolitica di cui tanto parliamo che cos’è? Un pericolo reale per le nostre società o un alibi per l’establishment?
Messa così è un alibi per l’establishment. L’antipolitica è diventata la parola d’ordine per spiegare tutto quello che non è spiegabile, che non è prevedibile o inglobabile.
Quindi da Trump alla destra austriaca di Hofer…
A Corbyn, passando da Podemos, e persino da Fassina – ride -: un uomo d’ordine come Fassina che diventa antipolitica! È una parola chiave, peraltro invalsa da parecchio tempo. In Europa si è cominciato a parlare di antipolitica dopo il 2010, quando comincia la crisi dell’Europa che obbedisce alla Germania. In Italia è entrata nel dibattito politica con quella che io chiamo la democrazia rapita: cioè è arrivata insieme al lungo passaggio tra la crisi di Berlusconi – che ora si può dire che fu un grande complotto – e le successive non elezioni, fino all’arrivo di Renzi.
Pannella se n’è andato. Ha sempre sfidato i partiti, spesso l’opinione corrente, però tutto si può dire di lui tranne che non fosse un politico.
Era un politico-politico. Credo però che non avesse nessuna idea di un discorso di massa. C’erano i cittadini per Pannella, ma non c’era il popolo, non c’era la gente, non c’erano gli elettori, non c’erano i proletari. C’erano solo i cittadini. Pannella aveva un modo molto efficace di andare contro le idee dei partiti ma io credo che nel mondo dei radicali non ci fosse il Paese reale. I diritti sono una cosa bellissima: tutti uguali, una testa un voto. Ma non siamo uguali rispetto alla vita nè rispetto alla nazione. Io, donna borghese, ho lo stesso diritto rispetto all’aborto di una donna proletaria. Ma nella pratica, io donna proletaria ho altri problemi. Per i radicali non c’è la lotta di classe, non c’è il mercato: la divisione tra le classi non è mai entrata nel loro mondo. Ci sono solo i diritti astratti. Ci sono cittadini, ma come entità a-corporale. Per questo, io credo, non hanno avuto mai un successo elettorale, ma solo un grande impatto culturale.

Questo articolo continua sul numero 22 di Left in edicola dal 28 maggio

 

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28 Maggio 2016 | il Caffè di Corradino Mineo

Rassegna stampa tutta centrata su Obama a Hiroshima, Il commento di Roberto Toscano e quello del Financial Times. Poi Le Monde che sostiene come il governo Valls rischi di perdere la battaglia per il jobs act. E Giannelli che racconta un incubo di Renzi: che gli finisca con il referendum come finì a Umberto di Savoia.

Carbone e violenze in Colombia, Enel annuncia approfondimenti

epa04471466 Authorities during the rescue works at the coal mine in Amaga, in the region of Antioquia, Colombia, 31 October 2014.Twelve workers died after being trapped due to flooding following an explosion on, 30 October inside a coal mine which was operating legally. According to the Colombian authorities the 12 workers are dead. EPA/Luis Eduardo Noriega

Dopo l’intervendo della ong internazionale Re:Common all’assemblea degli azionisti di ieri, l’ad di Enel Francesco Starace ha annunciato approfondimenti in loco sulle violazioni dei diritti umani ai danni delle popolazioni locali nella zona mineraria del Cesar, in Colombia. All’argomento è dedicato un servizio nel numero di Left in edicola, che dà conto della sospensione delle relazioni contrattuali tra la società energetica danese Dong e le imprese locali, accusate tra l’altro di rapporti con i paramilitari che seminano violenza e paura tra i lavoratori e tra i villaggi della regione.

Maira Mendez Barboza mostra la foto di suo padre, ex sindacalista nell'impianto carbonifero della Drummond assassinato nel 2001Maira Mendez Barboza mostra la foto di suo padre, sindacalista
nell’impianto carbonifero della Drummond assassinato nel 2001

«Andremo a vedere di persona cosa succede in Colombia se non ci piace usciremo, come ha fatto Dong» ha dichiarato Starace, «Prenderemo sul serio tutte le segnalazioni che ci avete fatto ma di questa storia siamo stufi e del carbone colombiano ci interessa il giusto».

Re:Common ha ricordato, tra l’altro, agli azionisti che nel febbraio dello scorso anno la società energetica tedesca EnBW ha condotto una missione sul campo in Cesar, insieme con alcune Ong, e ha pubblicamente riconosciuto il problema delle vittime e la questione della riconciliazione. Nel 2016, va detto, l’allarme per le violazioni ha indotto prima il comune di Amsterdam a lanciare un allarme alle aziende che importano carbone e poi la danese Dong a sespendere le importazioni da Prodeco in attesa di un piano d’azione che comprenda dei risarcimenti per le violazioni dei diritti umani, dopo che nel 2006 si era già disimpegnata da Drummond per il suo presunto legame con l’assassinio di tre dirigenti sindacali nel 2001.

Qualche giorno fa, il ministro svedese dell’Industria ha riferito in Parlamento di considerare molto seria la questione dei diritti umani in Cesar e di avere grandi aspettative su come la compagnia statale Vattenfall tratterà la questione, e la settimana scorsa i parlamentari di tre dei principali partiti olandese hanno chiesto di sospendere l’importazione di carbone dal Cesar. Intanto la banca francese BNP Paribas, che aveva già inserito la Drummond nella sua lista nera, ha deciso di non fornire più servizi finanziari alla società fino a nuovo ordine.

Il nostro approfondimento sul numero 22 di Left in edicola dal 28 maggio

 

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L’ingombrante Verdini. Con l’emendamento Casson, sulla prescrizione un nuovo caso

«Per noi così non va bene». I verdiniani sono ormai maggioranza di governo e, come tale, non ci stanno a farsi cambiare sotto il naso la riforma, già un compromesso, del processo penale, che tocca anche la prescrizione. L’avvocato e senatore Ciro Falanga, componente della commissione Giustizia del Senato, respinge così l’ipotesi contenuta negli emendamenti presentati dai senatori Cucca e Casson del Pd, che sono formalmente i relatori della riforma del processo penale. Per loro la prescrizione dovrebbe smettere di correre dopo la sentenza di primo grado. Ala invece vuole al massimo una corsia preferenziale per i reati di corruzione, per evitare che quelli vadano prescritti, corsia per cui ha già presentato un emendamento. «Ci si concentri su modifiche che accelerino i processi e non a paralizzare la prescrizione», dice Falanga battagliero. E il Pd, con il capogruppo Luigi Zanda, tenta così di evitare che il caso monti: «Ho parlato con i senatori Casson e Cucca», dice Zanda, «che mi hanno comunicato che gli emendamenti da loro presentati in tema di prescrizione sono ipotesi di lavoro».

Ipotesi, vuol dire, del solo Casson. Tant’è che «non ci penso neanche», dice Felice Casson a Left, quando gli chiediamo di un possibile ritiro. È la sua proposta ma ci tiene. Quindi vuole almeno discuterne, e siccome sulla sua proposta il fronte con i 5 stelle è possibile, che diventi un caso politico sarà inevitabile. Anche perché i 5 stelle sembrano questa volta intenzionati a un compromesso: tutto si fa pur di inserirsi in una polemica interna al Pd, per non perdere l’occasione per ricordare – sotto elezioni – agli elettori dem quanto l’abbraccio con Verdini condiziona il governo di Renzi. «È una proposta di buonsenso», dice infatti Luigi Di Maio, «noi come noto pensiamo che la prescrizione debba fermarsi con il rinvio a giudizio, ma siamo disponibili a ragionare sull’ipotesi di fermala col primo grado». «Ma tutto questo non conta», continua polemico, «perché io dubito fortemente che quella di Casson sia la proposta del Pd, dubito che sia la proposta di Matteo Renzi».

G7 e G8, le 7 G contro l’ottava G. Una storia di amore e odio

US President Barack Obama (R) meets his Russian counterpart Vladimir Putin (L) in Los Cabos, Mexico, on June 18, 2012, during the G20 leaders Summit. Obama met today Putin at a G20 summit to discuss differences over what to do about the bloody conflict in Syria. AFP PHOTO/ RIA-NOVOSTI POOL / ALEXEI NIKOLSKY (Photo credit should read ALEXEI NIKOLSKY/AFP/GettyImages)

Si è appena concluso il G7 di Hiroshima, il terzo di fila senza la Russia. E i Paesi membri non hanno mostrato alcuna intenzione a riammettere Mosca, temporaneamente sospesa dopo l’invasione dell’Ucraina, al vertice dei sette paesi un tempo più potenti al mondo. Il G7 Dunque rimarrà come tale e non tornerà ad essere G8. Nella bozza risolutiva del testo si torna a condannare «l’annessione criminale della Crimea da parte della Russia», e viene ribadita la scelta del «non riconoscimento e delle sanzioni». Viene poi precisato che «la durata delle sanzioni sarà fino a quando la Russia non si conformerà agli accordi di Minsk». Tali accordi furono firmati da Russia, Ucraina e due Repubbliche secessioniste di Doneck e Lugansk nel settembre del 2014 sotto l’egida dell’Osce; prevedevano in sostanza un cessate il fuoco immediato, che non è stato rispettato dalle parti.

Il G7, il G8 e la Russia. Il G7 nacque nel 1975 con l’ammissione al gruppo del Canada: la prima riunione si tenne a Porto Rico nel 1976. La Russia fu ammessa al vertice dei «grandi» del mondo nel lontano 1998 – dopo un lungo percorso iniziato nel 1991, all’indomani della caduta dell’Urss – in virtù non tanto della sua potenza finanziaria, quasi nulla, ma grazie al suo potere militare e alla sua importanza politica, determinante nel plasmare gli equilibri mondiali. Nel 1999 il gruppo si è ulteriormente allargato in G20, riunendo al suo interno i ministri economici di alcuni tra i più influenti Paesi emergenti, come Cina, India, Brasile, Sudafrica e Messico. Il G7 continuò negli anni a riunirsi parallelamente al G8 e al G20 come summit dei Ministri delle finanze e dei banchieri centrali. G7, G8 e G20 non sono organizzazioni internazionali come l’Onu, l’Unione Europea o il Fondo Monetario Internazionale non hanno alcuna base formale e non sono basate su alcun trattato internazionale, sono fora internazionali di dialogo ai massimi livelli.

Il fallito vertice di Sochi e l’esclusione della Russia dal G8. Nel 2014 Mosca avrebbe dovuto presenziare la riunione annuale del G8 a Sochi – dove si erano svolte le olimpiadi invernali – ma dopo l’incursione in Ucraina, i ministri dei paesi membri decisero di sospendere la partecipazione della Russia e spostare in via del tutto eccezionale l’incontro del G7 a Bruxelles. Il comunicato finale del vertice mostrò una presa di posizione molto dura in merito alla crisi di Kiev: l’azione della Russia fu ritenuta «inaccettabile» e i sette Paesi si dimostrarono determinati ad intraprendere «sanzioni mirate» nel caso in cui il Presidente Vladimir Putin non avesse ritirato completamente le truppe dall’Ucraina. L’unica volta in cui Mosca presenziò il foro internazionale fu a San Pietroburgo nel luglio del 2006.

Il vertice del 2015 a Monaco. Anche il successivo incontro, tenutosi a Monaco nel 2015, vide l’esclusione della Russia. Ma non solo. Il summit, presieduto stavolta dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, si concluse con un documento che lanciava un duro monito nei confronti della Russia: «siamo pronti a rafforzare le sanzioni nel caso in cui la situazione lo richiedesse«. Ancor più deciso fu il discorso del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che accusò Putin di «voler ricreare le glorie dell’impero sovietico». «Ci riserviamo il diritto di reagire prontamente a tutte le misure non amichevoli compiute contro di noi dagli Usa» fu la pronta risposta di Sergei Lavrov, Ministro degli esteri russo.

La Russia e le sanzioni. Nonostante Putin abbia sostenuto che le sanzioni «fanno solo il solletico alla Russia», secondo l’Istituto federale di statistica russo, il Pil russo ha subito nel 2015 una contrazione del 3,7%, c’è stata una flessione dei salari reali, una svalutazione del rublo e una drastica diminuzione della produzione industriale (3,4%).

Perdita di influenza del G7. Nei paesi del G8 vive il 12,8% della popolazione mondiale e si produce quasi il 51% del Pil nominale mondiale (oltre 36mila miliardi di dollari). Con l’esclusione della Russia il G7 rappresenta «solo» il 48% del Pil mondiale (dati 2013). Inoltre il G7 e i Paesi occidentali stanno progressivamente perdendo la loro influenza economica mondiale, e la Russia ha trovato nuovi partner finanziari, come la Nuova banca di Sviluppo dei paesi Brics (Brasile,Russia, India, Cina, Sudafrica) nata nel 2014 con sede a Shanghai, che si pone come obiettivo quello di superare il vincolo valutario del dollaro. La banca ha una dotazione iniziale di 50 miliardi di dollari e un Fondo di Riserva di 100 miliardi di dollari. C’è poi la Banca Asiatica di sviluppo e investimenti, nata su impulso della Cina lo scorso Gennaio. Di cui tre Paesi membri del G7 (Francia, Germania e Italia) vogliono diventare soci fondatori.

L’Italia non cresce e la fiducia dei consumatori crolla

LUNEBURG, GERMANY - JULY 26: In this photo illustration, a shopping cart rolls down the isles of a supermarket on July 26, 2005 in Luneburg, Germany. Sparked by the election manifesto of the opposition party CDU, Germany currently debates whether raising the Mehrwertsteuer (VAT) would in fact promote economic growth or if it would have the opposite effect by hurting families and low-income households. (Photo by Andreas Rentz/Getty Images)

Gelata di primavera per il governo Renzi. Dopo i dati negativi diffusi dall’Istat sulla produttività del mese di marzo, con il fatturato che è sceso rispetto a febbraio dell’1,6% e rispetto allo stesso periodo dell’anno del 2015 del 3,6%, adesso arrivano quelli sulla fiducia dei consumatori. Sempre l’istat oggi ha diffuso le cifre relative al mese di maggio. L’indice che indica la fiducia diminuisce e passa da aprile (114,1%) a 112,7. Ma il calo è ancora più evidente rispetto al mese di gennaio (118,5%). Al contrario, il dato positivo è il clima di fiducia delle imprese che cresce e che passa da 102,7% a 103,4%.

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Il problema però sono i consumatori, coloro che dovrebbero far ripartire i consumi interni e che per il momento sono come paralizzati. Le voci della ricerca Istat infatti parlano chiaro: peggiorano i giudizi sulla situazione economica dell’Italia che a gennaio erano rappresentati da un indice di -26 e a maggio di -47. Negativo anche il giudizio sulla propria situazione economica, mentre aumenta sempre più l’attesa di risposte sulla disoccupazione (a gennaio l’indice era di 2 e a maggio di 25). Migliora rispetto ad aprile il clima di fiducia personale (da 104,8% a 105,4%) ma comunque è in calo rispetto a gennaio (107,6%). Insomma l’anno era iniziato meglio quanto alle aspettative degli italiani rispetto al governo. Invece, mese dopo mese, la fiducia è discesa progressivamente. L’Istat rileva che quello di maggio è il livello più basso da agosto dello scorso anno nonostante i progressi della componente personale del clima. Sulla crescita della fiducia delle imprese che passa, ricordiamo, da 102,7 a 103,4, c’è da dire che sull’andamento influiscono anche le diverse procedure di calcolo per l’indice aggregato e quelli settoriali, che risultano tutti in calo. Il clima di fiducia scende infatti nella manifattura (a 102,1 da 102,7), nelle costruzioni (a 120,4 da 121,2), nei servizi di mercato (a 107,4 da 107,9) e nel commercio al dettaglio (a 100,9 da 101,9).
Queste cifre non sorprendono, sostengono le associazioni dei consumatori come Federconsumatori e Adusbe (qui). Il potere d’acquisto degli italiani nel triennio 2012-2014 ha segnato una contrazione del -10,7%, con un calo della spesa delle famiglie, calcolano le associazioni, di 78 miliardi di euro. Logico quindi che adesso con la disoccupazione givanile ancora a livelli preoccupanti e con il mancato decollo della produzione, le famiglie tendano sempre più a non spendere. «Si abbandoni il megafono e si lavori per la realizzazione di un Piano Straordinario che, attraverso il rilancio dell’occupazione, sia in grado di dare nuovo impulso e nuove prospettive al nostro sistema economico», dicono Rosario Trefiletti ed Elio Lanutti, presidenti di Federconsumatori e Adusbef. Questi i punti suggeriti dalle associazioni:  «lo sviluppo tecnologico e la ricerca;  la realizzazione di opere di messa in sicurezza di scuole e ospedali; – la modernizzazione di infrastrutture, reti e trasporti; – l’avvio di un programma per lo sviluppo e la valorizzazione dell’offerta turistica nel nostro Paese».

Due settimane di proteste in Francia contro la riforma del lavoro

(AP Photo/Claude Paris)

La Nuit debout è iniziata il 31 marzo di quest’anno, quando i cittadini francesi sono scesi in piazza per protestare contro la riforma del lavoro e la Loi Travail. A distanza di quasi due mesi, le manifestazioni non si placano. Eccole raccontate le ultime due settimane di scontri in una gallery.

Gallery a cura di Monica di Brigida

12 maggio 2016. Marsiglia. I manifestanti si siedono davanti la polizia antisommossa. Nonostate proteste quotidiane in tutto il paese, il governo socialista ha deciso di forzare il disegno di legge in Parlamento senza votazione. (AP Photo/Claude Paris)
12 maggio 2016. Marsiglia. I manifestanti si siedono davanti la polizia antisommossa. Nonostate proteste quotidiane in tutto il paese, il governo socialista ha deciso di forzare il disegno di legge in Parlamento senza votazione. (AP Photo/Claude Paris)

12 maggio il governo 2016. Marsiglia. Un manifestante allontana un gas lacrimogeno durante una manifestazione. (Foto AP / Claude Paris)
12 maggio 2016, Marsiglia. Un manifestante allontana un gas lacrimogeno durante una manifestazione. (Foto AP Claude Paris)

12 maggio 2016. Parigi. Agenti di polizia antisommossa francesi marciano durante una protesta contro il diritto del lavoro che il governo socialista ha deciso di forzare il disegno di legge in Parlamento senza votazione. (Foto AP / Christophe Ena)
12 maggio, Parigi. La polizia antisommossa francese marcia durante la protesta contro la riforma del lavoro su cui il governo socialista ha deciso di forzare laa mano. (Foto AP / Christophe Ena)

17 maggio 2016. Parigi. Un giovane lancia un bastone contro agenti di polizia antisommossa durante una protesta. I camionisti hanno bloccato le autostrade e i lavoratori francesi hanno sfilato per le strade della città per protesta, ma il presidente Francois Hollande insiste che non abbandonerà il riforme del lavoro che ha scatenato la loro rabbia. (Foto AP / Francois Mori)
17 maggio, Parigi. Un giovane lancia un bastone contro gli agenti di polizia antisommossa. I camionisti hanno bloccato le autostrade e i lavoratori francesi hanno sfilato per le strade della città, ma il presidente Francois Hollande insiste che non abbandonerà la riforma. (Foto AP / Francois Mori)

18 Maggio 2016. Parigi. Un uomo cerca di spengere il fuoco su una macchina della polizia durante gli scontri. (Foto AP / Francois Mori)
18 maggio, Parigi. Un uomo cerca di spegnere un’auto della polizia in fiamme. (Foto AP / Francois Mori)

19 maggio 2016. Parigi. Agenti di polizia anti-sommossa trattengono un uomo durante una manifestazione contro il disegno di legge del lavoro. La Francia sta affrontando settimane di scioperi ed altre azioni sindacali contro la legge. (Foto AP / Laurent Cipriani)
19 maggio, Parigi. Un manifestante bloccato dalla polizia. (Foto AP / Laurent Cipriani)

20 maggio 2016. Douchy les Mines, nel nord della Francia. Sindacalisti erigono una barricata in fiamme per bloccare l'ingresso di una raffineria per protestare contro la legge di riforma del lavoro francese. © THIBAULT Vandermersch/EPA ANSA
20 maggio, Douchy les Mines, nord della Francia. Sindacalisti erigono una barricata in fiamme per bloccare l’ingresso di una raffineria per protestare contro la legge di riforma del lavoro francese. (© Thibault Vandermersch/EPA ANSA)

26 maggio 2016. Parigi. Un momento degli scontri tra agenti di polizia antisommossa e i manifestanti. (AP Photo / Francois Mori)
26 maggio, Parigi. Un momento degli scontri polizia antisommossa e manifestanti. (AP Photo / Francois Mori)

26 maggio 2016. Parigi. I manifestanti di fronte agli agenti di polizia antisommossa durante una manifestazione. (AP Photo/Thibault Camus)
26 maggio, Parigi. Manifestanti di fronte agli agenti di polizia antisommossa. (AP Photo/Thibault Camus)

26 maggio 2016. Parigi. Agenti di polizia anti-sommossa si scontrano con i manifestanti nel corso della manifestazione. (AP Photo/Francois Mori)
26 maggio, Parigi. Scontri tra agenti anti-sommossa e manifestanti. (AP Photo/Francois Mori)

26 maggio 2016. Parigi. Manifestazione di protesta dei lavoratori sindacali. © JEREMY LEMPIN/EPA ANSA
26 maggio, Parigi. Manifestazione di protesta dei sindacati. (© Jeremy Lempin/EPA ANSA)

26 maggio 2016. Parigi. Un manifestante in possesso di un cartello con la scritta 'Io sostengo lo sciopero contro il progetto di riforma del lavoro' durante una manifestazione. La manifestazione si svolge nel quadro di proteste diffuse contro il progetto di riforma del lavoro del governo francese. © JEREMY LEMPIN/ EPA ANSA
26 maggio, Parigi. Un cartello con la scritta “Io sostengo lo sciopero contro il progetto di riforma del lavoro”. (© Jeremy Lempin/ Epa Ansa)

Pablo Iglesias sostiene Coalizione civica e Federico Martelloni. Ecco il video

Pablo Iglesias, leader of Spain's Podemos (We Can) party, poses before an interview in Madrid, March 6, 2015. Europe must stop its austerity policies or watch far-right movements continue to grow and pose a real danger to democracy, said Iglesias, leader of Spain's Podemos party that like Greece's Syriza aims to offer a leftist alternative. In an interview with Reuters, the 36-year-old whose Podemos ('We Can') party is leading some election polls, also said any coalition between Spain's centre-right and centre-left would only prolong what he called the country's economic disaster. Picture taken March 6, 2015 REUTERS/Paul Hanna (SPAIN - Tags: POLITICS PORTRAIT BUSINESS)

«Bologna è stata la mia città quando ero studente Erasmus. Per me è come la mia seconda città». Inizia così il video di Pablo Iglesias, leader di Podemos e candidato alla guida della Spagna con Unidos Podemos, dopo l’allenaza con Izquierda unida. Nonostante la sua intensa campagna elettorale (in Spagna si vota il 26 giugno), el coleta trova il tempo per fare la campagna ai suoi compagni Federico (Martelloni, candidato sindaco per Coalizione civica) e Gianmarco (De Pieri, al Consiglio con Coalizione civica). Ecco il video in 33 secondi.

 

Ed ecco il commento del candidato sindaco Martelloni, nel pubblicare il video: «Pablo é con noi sin dai tempi del G8 di Genova: era a Bologna in erasmus e condivise con noi quella stagione, dottorandosi poi a Madrid proprio con una tesi sulle tute bianche. Un’esperienza che ha pesato nella nascita di quella straordinaria forza politica che punta adesso alla conquista del governo della Spagna con Unidos Podemos.
Ricevere questo messaggio, che hanno ascoltato in anteprima ieri le 5000 persone che erano con noi a Piazza Carducci, ha per noi di Coalizione Civica un’importanza straordinaria, emotiva e politica al tempo stesso.
La sfida di una forza che prova a ripensare la sinistra e i suoi valori senza il peso della parola sinistra, dei suoi errori di questi anni, la sfida di chi prova davvero a cambiare tutto senza limitarsi alla sola testimonianza, è la sfida di Podemos ed è la nostra sfida.
Adelante!»

Nuit Debout, un’onda travolgente il 27 maggio

© IAN LANGSDON/EPA ANSA

Da qualche tempo leggo e annoto gli slogan che spuntano in ogni luogo della città: sui muri, sui cartelli pubblicitari, sui marciapiedi, sulle vetrine dei negozi, nelle manifestazioni, in piazza. Proprio sotto casa hanno scritto “Leur futur n’a pas d’avenir”, il loro futuro è senza avvenire.

I francesi amano giocare con le parole e in questa stagione di mobilitazione anche le parole sembrano aver voglia di liberarsi. L’uso del linguaggio è molto diverso secondo i contesti e credo che questo contribuisca al dialogo tra sordi che si è stabilito tra il governo e i protestatari. Paradossalmente i due attori principali dello scontro, il governo e il sindacato di sinistra, la Cgt, usano lo stesso linguaggio ingessato di sempre. Il primo ministro ha accusato la Cgt di essere una minoranza che tiene in ostaggio la Francia, il sindacato ribatte che il governo ha mostrato il suo vero volto: antidemocratico, aggressivo, illiberale.
Settimo giorno di mobilitazione nazionale, giovedì 27 maggio, 87 marzo per il calendario Nuit Debout: la partecipazione alle manifestazioni è in aumento in tutto il Paese, lo slogan è “On arrête tout”, fermiamo tutto. A Parigi le pompe di benzina sono a secco da tre giorni, le centrali nucleari sono in sciopero, i porti e molte reti autostradali sono presidiate, il governo ha dovuto attingere alle riserve di risorse previste in caso di emergenza. La Francia non è nuova a queste forme di protesta estreme ma ci sono due cose che appaiono insolite.
La prima è il dispositivo di stampo paramilitare che viene utilizzato per gestire il dissenso. Lo stato di emergenza a seguito degli attentati di novembre ha favorito l’installarsi di dispositivi di sicurezza impressionanti. Con il passare dei giorni aumenta vertiginosamente il numero dei feriti da entrambe le parti, ma soprattutto tra i manifestanti che vengono colpiti dalle flash-ball dei CRS e dai gas lacrimogeni. Centinaia di camionette della polizia attraversano incessantemente la città a sirene spiegate.
L’altro fenomeno è quello della convergences des luttes, o lotte convergenti. La protesta contro la legge del lavoro ha messo in moto un movimento profondo e sempre più diffuso nella società, un movimento di protesta e di critica radicale al sistema capitalista i cui danni sono sempre più gravi, manifesti e incontrollati. Non è più possibile stare a guardare il disastro che è sotto i nostri occhi; è per questo che sempre più gente si sta mobilitando. Le persone che animano i dibattiti di piazza del movimento Nuit Debout e che scendono in strada non certo sono tutti sindacalisti! Il governo e i partiti nella loro forma tradizionale sembrano del tutto impreparati a gestire l’emergere di un conflitto complesso, multiforme, stratificato e di lunga durata. La confusione regna, le dichiarazioni ufficiali si contraddicono di ora in ora, per un voto ieri non è passata all’Assemblée la proposta di legge per la regolamentazione degli stipendi dei dirigenti d’impresa.
Prendo a prestito le parole di Yves Pagès, scrittore e editore engagé dal suo blog: «non lasciamoci ingannare da questa criminalizzazione preventiva delle dissidenze sociali e esistenziali in corso. Oggi più che mai, la rivolta dei precari è all’ordine del giorno. E lo è la Nuit Debout, se vi ritroviamo l’eterogeneità dei nostri vissuti, se riaffermiamo che non crediamo più al ritorno del Pieno-impiego stabile, e soprattutto se non ne desideriamo il ritorno nella sua versione deregolata (come in Germania e nel Regno Unito). È tempo di lottare per strappare nuovi diritti a fronte di nuove forme di impiego che ci vengono imposte. Ci vorrebbero intercambiabili e usa e getta, diventiamo permanentemente instabili!».
Parigi quasi senza macchine è bellissima e si moltiplicano gli annunci di car sharing tra vicini. Io continuo la mia “flânerie” alla ricerca delle parole liberate che raccontano quello che sta accadendo.