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Anche il Teatro Romano di Fiesole diventa location per feste private

Sposarsi nell’anfiteatro romano di Fiesole costerà 4mila euro. Si aggiunge così un altro bene culturale che andrebbe ben tutelato alla lunga lista delle location per cerimonie di lusso. Anche la Toscana che vanta una delle tradizioni più illustri e secolari nella tutela cede al noleggio di beni pubblici da parte dei privati. Per fare cassa. Nonostante nel Codice dei Beni culturali e del paesaggio si legga: «I beni culturali non possono essere adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione». E in barba all’articolo 9 della Costituzione che lega la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico alla ricerca e alla conoscenza.

Così dopo Roma (Il circo Massimo location per matrimoni e comunioni) e molte altre città storiche anche Fiesole si mette su piazza affrendosi a chi voglia andare a nozze davanti al sindaco, o a un suo delegato, e anche organizzare il ricevimento da 500 invitati dentro l’area del Teatro Romano di Fiesole e più invitati, o da 150 se ci si accontenta dell’area antistante il Museo archeologico. Poco importa se questo terrà fuori il turismo internazionale. Lo ha deciso all’unanimità il consiglio comunale stabilendo anche la tariffe: 4 mila euro per tutti, fiesolani e non. A tramutare la tradizione toscana della tutela che risale all’età dei Comuni e al civilissimo Costituto di Siena, come è noto, fu Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze, noleggiò il ponte Vecchio alla Ferrari, facendone un ring per una festa vip e privatissima, impedendo così a turisti e cittadini di godere di un bene pubblico considerato patrimonio universale. Poi grazie alla sciagurata legge Ronchey che apriva i musei ai privati, la soprintendenza del polo museale fiorentino allora guidata da Cristina Acidini arrivò anche a varare un tariffario ufficiale dedicato all’affitto di sale ed aree dei musei di Firenze, dalla galleria degli Uffizi a quella dell’Accademia, da Palazzo Pitti a tutti gli altri spazi del Polo fiorentino.

Fu stilato nel 2013 in una riunione tecnica dedicata alla realizzazione del “prezzario” che si tenne in prossimità delle ferie a fine luglio, quando la città si stava svuotando e l’attenzione scemamava. I costi? Anadavano da una ‘base’ di 3mila euro fino a 130mila per gli Uffizi, aperti anche ad improbabili sfilate di moda.

Diritto allo studio negato? Studenti e sindacati lanciano una legge di iniziativa popolare

Sotto i platani di via Porta Portese a Roma accanto ai banchi delle scarpe e dei vestiti a 5 euro ci sono anche gli studenti della Lip. Un piccolo tavolino con i moduli da firmare e alcune ragazze che fermano con un sorriso i passanti chiedendo: «Volete firmare per il diritto allo studio?». Del comitato promotore della nuova legge di iniziativa popolare per il diritto allo studio fanno parte decine e decine di sigle (qui) che vanno da quelle sindacali della Flc Cgil e Fiom a quelle del mondo studentesco (Coordinamento universitario, Link, Rete della Conoscenza, Uds) da quelle di categoria come le associazioni dei dottorandi e dei ricercatori non strutturati a reti e movimenti come Tilt, Act!, fino ad arrivare ai partiti e forze politiche: Rifondazione comunista, Sel, Sinistra Italiana, Possibile. Partecipano, tra gli altri, anche Arci e Legambiente.

All in è lo slogan della campagna che dovrebbe portare alla raccolta di almeno 50mila firme e il logo è una mano che regge un pocker d’assi. I simboli indicano i servizi che dovrebbero essere garantiti a chi non ha i mezzi per frequentare l’università. Il diritto allo studio è sancito dall’articolo 34 della Costituzione ma come ricorda anche il comitato promotore della Lip, è continuamente disatteso. Le cifre parlano da sole: nell’ultimo decennio si è verificato un calo del 20 per cento di immatricolati, mentre in dieci anni sono “scomparsi” 463mila studenti. A dare un colpo notevole, sono stati i tagli della riforma Gelmini che ha intaccato considerevolmente il Fondo nazionale per le borse di studio, mentre aumentavano le tasse universitarie e le regioni – a cui spetta l’erogazione delle borse di studio – si muovono a macchia di leopardo. Alcune, più virtuose, come l’Emilia Romagna, riescono a garantire totalmente il diritto allo studio, altre, soprattutto al Sud e nelle isole non ce la fanno. Nell’anno accademico 2014-2015 in 40mila sono stati dichiarati idonei a ricevere la borsa ma non l’hanno ricevuta.

E poi l’innalzamento della soglia del certificato Isee (Indicatore della situazione economica equivalente) ad opera del governo Renzi, più quello Ispe (Indicatore della situazione patrimoniale) sulla situazione patrimoniale ha espulso una fascia maggiore di studenti dal diritto allo studio. Il decreto ministeriale del 23 marzo n.174 ha aggiornato i limiti massimi portandoli a 23mila euro per l’Isee e a 50mila euro per l’Ispe, ma «è a livello nazionale, bisogna vedere come le Regioni riusciranno a recepirlo nei bandi per le borse di studio», dice Irene Ricciuti, studentessa di Giurisprudenza a Bologna, del Comitato promotore, al tavolino per le firme insieme a Marianna Nardi, studentessa di Lettere antiche a Pisa, a Federica Borlizzi, iscritta a Giurisprudenza a Roma Tre e a Alberto Campailla, portavoce di Link.
Nell’affollato clima del mercato di Porta Portese gli studenti hanno scoperto una cosa molto semplice: «La gente sa poco del diritto allo studio», dice Marianna. «I più anziani ricordano il presalario, i più giovani rispondono ‘ma tanto a che serve studia’?». «Per questo motivo occorre fare una mobilitazione e una proposta che parte dal basso», continua Marianna, «per far capire l’importanza dello studio e spiegare che chi è laureato riesce a trovare un lavoro prima di chi si ferma al diploma». Dopo l’uscita pubblica di sabato e domenica, con 50 piazze in tutta Italia, la campagna proseguirà soprattutto nelle università.

Bologna

Cosa prevede la legge di iniziativa popolare?
Sono 17 articoli molto dettagliati che vanno dalla garanzia del diritto all’assistenza sanitaria gratuita per tutti gli studenti ai trasporti e poi ai requisiti per ottenere le borse di studio, comprendendo anche la definizione dei Lep (livelli essenziali di prestazione). “La soglia Isee viene innalzata per la borsa di studio a 23.000 euro, mentre la soglia Isee per la borsa servizi viene fissata a 28.000 euro”, si legge. Mentre “contestualmente chiediamo l’abolizione dell’Ispe, che con l’introduzione del nuovo calcolo si è rivelato il principale fattore di esclusione dai benefici di Diritto allo studio”. Il Comitato promotore suggerisce anche le risorse per coprire i costi del diritto allo studio. Per la precisione l’articolo 16 prevede un miliardo da reperire con tagli “all’acquisto di nuovi sistemi d’arma” da parte del Ministero della Difesa e 500 milioni tramite “la tassazione sui veicoli automobilistici”.

Il testo completo della legge qui

Per firmare, i comitati territoriali Lip qui

 

Caro Salvini, posa il vino

Il segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, durante l'incontro ad Avezzano (L'Aquila), 23 marzo 2016. ANSA/STEFANO RUGGIERO

Deve essere una vita sfiancante quella di Matteo Salvini: tutto il giorno a spulciare twitter, fb e i siti d’informazione per cercare anche oggi un appiglio su cui defecare l’invenzione del giorno per meritarsi un po’ di spazio sui giornali. Deve essere uno sforzo simile alla proiezione continua di idee di un ricercatore, o alla concentrazione usurante di un carcerato con la lima sulle sbarre oppure qualcosa di simile ad un vasaio, tutto il giorno a cercare la giusta forma dei bordi.

Così ieri, il Salvini, deve essere arrivato a pomeriggio inoltrato senza avere uno straccio di notizia da sciacallare, con la stessa paura di un negoziante nel chiudere la giornata senza clienti e dopo avere visto su google che nessun extracomunitario avesse investito qualche italiano, che non ci fossero stati sanguinari furti d’appartamento, che non ci fossero foto di siriani con il telefonino ha cominciato a sudare. Pagherei per poter leggere la cronologia delle ricerche sul browser internet del tablet di Matteo: “furti + negro”, “violenza sessuale di stranieri”, “allah + evasione fiscale”, “maometto + periferie sporche”, “Renzi + dracula”, “cosa ha detto oggi un membro qualsiasi della famiglia Le Pen”, “Putin + libertà” e chissà quante altre ancora.

Alla fine deve essersi arreso inserendo nel  motore di ricerca banalmente “frontiere” e chissà come ha esultato quando ha letto che Mattarella (dopo essersi rassicurato su Wikipedia su chi fosse Mattarella) ha pronunciato la frase “superiamo le frontiere”.
Avrà cominciato a pregustare i millemilioni di mi piace su Facebook o i tantimila retweet mentre gli veniva l’arguta idea di associare le parole “complice e venduto” al capo dello Stato. Chissà che non gli siano venute le vertigini ricordandosi di quando il suo padre spirituale Umberto Bossi raccontò di usare la bandiera italiana per pulircisi il culo.

E così ha sparato a zero. Alla Salvini. Satollo anche oggi di avere fatto il proprio dovere con la salvinata del giorno. Finché non gli hanno detto che Mattarella, bontà sua, parlava di esportazione del vino italiano. E chissà che cin cin corale si sono fatti al Vinitaly alla cazzata di Salvini. Avrà offerto il primo giro il Presidente, probabilmente.

Beh, dai, forza. È lunedì.

Il populista Sanders e l’eccessivo realismo di Clinton

La serie di successi del “perdente” Sanders è davvero impressionante: il senatore del Vermont ha vinto in 8 degli ultimi 9 stati in cui si è votato. Questo non riduce in modo significativo il vantaggio in delegati della Clinton ma forse ne sta minando l’immagine. Ormai lo sappiamo che l’ex frist lady ed ex segretario di stato (di Obama) non riesce a convincere né i giovani nè le minoranze più radicali, non ha seguito tra i democratici bianchi della classe media né fra gli ex operai. Molto probabilmente prevarrà nella corsa alla nomination, grazie al sostegno dell’apparato di partito, di quasi tutti i super delegati -che non vengono eletti- e delle borghesie nere e ispaniche, legate al ricordo degli anni d’oro in cui Bill governava dalla Casa Bianca e l’economia americana andava a gonfie vele, ma si presenterà l’8 novembre, allo scontro decisivo,  come un candidato azzoppato, con un sostegno più che timido di quello che dovrebbe essere il suo campo.

In verità credo che troppi fra coloro che scrivono di politica, di quella italiana come di quella internazionale, sottovalutino la crisi di credibilità che investe gli apparati di governo, i professionisti del governo, davanti a un capitalismo -della finanza e delle multinazionali- che lascia loro sempre minori margini di manovra e di azione autonoma.  La polemica che muove dal basso della società contro l’alto, cioè contro la casta, contro i decisori che lucrano vantaggi ma non sanno compiere scelte coraggiose, non si può più, ohimé, liquidare con la comoda etichetta del “populismo”.

Mi permetto di segnalarvi questo scambio di accuse. Sanders contro Clinton. «Quando leggo sul Washington Post che Clinton mette in dubbio i numeri di Sanders per la presidenza, la mia risposta è questa. Mi permetta, signora segretario di stato, di suggerirle che il popolo americano potrebbe mettere in dubbio i suoi titoli. Non credo infatti che lei sia così qualificata se prende 15 milioni di dollari da Wall Street. Non penso che sia così qualificante aver votato per la disastrosa guerra in Iraq». Clinton contro Sanders: «I presidenti che vincono sono quelli che sanno cosa vogliono fare e come lo possono fare. Certe sue idee (di Sanders) non funzionano perchè i conti non tornano. Il mio sfidante non ha nessun piano». Un realismo ostentato, che affonda le radici in una più che ventennale frequentazione del potere, contro la denuncia di Wall Street e della guerra di Bush.

Si può scegliere l’attitudine della signora Clintom, sperando così di vincere. Così come, in Italia, parecchi liquidano ogni ciritica a Renzi dicendo che favorirebbe i 5 stelle, ma non si può, per questa via, convincere un giovane in cerca di lavoro, un povero o un escluso, una famiglia della classe media costretta a stringere la cinghia mentre vede chi sta in alto sempre più smodatamente ricco.

 Bergoglio ha invitato a Roma Bernie Sanders, non certo perchè è un papa marxista, come vorrebbero i suoi detrattori di destra. Resta un gesuita e cerca di salvare la sua chiesa da un declino che sembrava inarrestabile. Ma mentr le parole di Sanders lo interessano, quelle dalla Clinton probabilmente lo annoiano. Perchè gli ricordano quelle di altri segretari di stato, in Vaticano.

Hai presente le Filippine? Il lavoro nell’industria del carbone

epa05205712 A Filipino gathers charcoal to sell at a makeshift charcoal factory in Las Pinas city, south of Manila, Philippines, 11 March 2016. Workers expose themselves to the hazardous environment of heat, fumes, dust, stench, flies and mosquitoes to earn a living collecting wood and burning it to make charcoal. The workers earn an average of 200 euros per month. EPA/FRANCIS R. MALASIG

Nel momento in cui scriviamo, i filippini in Italia sono 168.238: il 3,4% degli stranieri nel nostro Paese. Arrivati per lo più con i flussi migratori degli anni Novanta, i filippini son quel che ai tempi d’oggi rispondono perfettamente alla voce “migranti economici”. Domestici, badanti, donne e uomini delle pulizie, camerieri: così li vediamo negli angoli della nostra pregiudizievole memoria. Avvolti in vesti bianche e candide, dietro grembiuli lindi.

Li riuscite a immaginare tutti neri, con la pelle del colore del carbone? Eppure, vicino la capitale Manila, negli slum di Ulingan, centinaia di famiglie si guadagnano da vivere nell’industria del carbone. In queste foto, sotto il fumo nero, i bambini e gli adulti a lavoro. Da generazioni, queste famiglie vivono in queste condizioni. La locale ong Project Pearls cerca di garantire ai bambini che vivono nella baraccopoli almeno due pasti completi a settimana e un minimo di istruzione.

 

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Gallery a cura di Monica Di Brigida

Fat Negga, straniero in casa propria

Essere stranieri non è uno scherzo. Nonostante i Salvini di turno o i lepenismi di ritorno, essere stranieri significa tra le altre cose essere estranei ad un’architettura di diritti e di servizi che garantisce le esistenze e dovrebbe assicurare un livello minimo di dignità. È difficile pensare a uno straniero in un mondo che vorrebbe far finta di essere globale, eppure poi capita di incrociare storie che sembrano uscite da un (brutto) film. La vicenda di Luca Neves mi è stata raccontata su Facebook con un messaggio breve arrivato in posta: «Luca Neves è stato a Capo Verde una sola volta, da bambino, in vacanza con i genitori. Ora l’Italia vorrebbe mandarcelo a tempo indeterminato, per fargli scontare su un’isola nell’Atlantico un ignobile esilio da figlio non riconosciuto» mi hanno scritto e letta così, su due piedi, mi sembrava un cortocircuito da teatro dell’assurdo. Invece Luca me l’ha raccontata, la storia è vera e credo valga la pena raccontarla anche a voi.
È nato in Italia 28 anni fa, ospedale Regina Elena, periferia romana, è cresciuto in Italia. Parla italiano, ovviamente, e mastica l’inglese. Da bambino Trigoria era casa sua perché Luca, come tanti come lui, sognava di giocare nella Roma e nella Roma ci ha giocato per davvero: il padre lavorava in un maneggio proprio a Trigoria e lui indossava la maglia della squadra giallorossa nei pulcini. «Tutti i giorni incrociavo i campioni: Totti, Aldair. È successo anche che De Rossi accompagnasse a casa me e mia madre, quando avevamo troppe borse della spesa». I genitori di David sono di Capo Verde, in Italia da una vita (regolari) hanno sempre lavorato perché quel figlio potesse avere tutto ciò che gli servisse. Luca ha frequentato l’asilo, le scuole fino all’Istituto alberghiero: «Pensa – mi dice – che io a Capoverde ci sono stato una volta nella vita per una vacanza. Conosco la lingua ascoltandola dai miei genitori ma la parlo con un accento italianissimo. Lì sarei un immigrato».


 

Questo articolo continua sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile

 

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Da sabato a sabato. Le notizie dal mondo in foto

A roadside ice-cream vendor waits for customers at a market in New Delhi, India, Thursday, April 7, 2016. The Indian economy is characterized by the existence of a vast majority of informal or unorganized labor employment. (AP Photo/Altaf Qadri)

Immagine in evidenza: venditori a lato di una strada nei pressi del mercato di New Delhi, India. L’economia indiana è caratterizzata da una vasta presenza di lavoro nero. (Foto AP / Altaf Qadri)

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gallery a cura di Monica Di Brigida

Veloce come il vento, oltre il sottile confine del rischio

Noi che non ci siamo mai interessati al mondo dei motori non lo sappiamo, ma «c’era un tempo in cui le macchine, prive delle componenti elettroniche che ora le trasformano in perfetti prototipi d’avanguardia, erano strumenti artigianali estremamente complessi e quelli che avevano la capacità e il coraggio di guidarle potevano essere considerati dei veri e propri eroi». A parlare è Matteo Rovere, il giovane regista di Veloce come il vento dal 7 aprile al cinema, e, se dovessimo usare un aggettivo per raccontare il mondo riportato in vita nel suo ultimo film, sarebbe decisamente: “epico”. Accorsi-CharacterLa trama è questa: Giulia De Martino, una ragazza di 17 anni – interpretata dalla rivelazione Matilda De Angelis – pilota talentuosa, perde all’improvviso il padre che aveva scommesso la casa e tutto ciò che possedeva su di lei sperano vincesse il campionato gran turismo. Al funerale, dopo anni passati lontani da casa fa la sua comparsa il fratello Loris, tossicodipendente ex campione prodigio interpretato da Stefano Accorsi. La storia raccontata in Veloce come il vento inizia, fra i rombi dei motori di Porsche, Ferrari e Lamborghini messe in fila per il corteo funebre, e il dolore per una perdita che rimette in gioco le vite di due fratelli, mescolando in maniera magistrale il film d’azione al dramma familiare.


Qual è stata per te Matteo la leva di forza che ti ha fatto pensare: “questa storia deve assolutamente diventare un film”?
Mi interessava l’idea di girare un vero e proprio action movie. In Italia è un genere che è stato sperimentato molto poco. La leva principale che mi ha spinto a farlo è stata soprattutto dovuta alla voglia di vedere quale sarebbe stato il risultato se al cuore pulsante del mondo delle corse e del motor sport italiano avessimo aggiunto l’idea di mettere alla guida una ragazza che deve vincere una sfida fondamentale per la sua vita e che per farlo si affida al fratello, ex pilota di successo diventato tossicodipendente.

Veloce come il vento è anche in parte un omaggio alla vita del campione di rally Carlo Capone. Nella sua biografia, quando Capone vince a sorpresa nel 1984 il titolo europeo, si legge: potrebbe essere l’inizio di una storia densa di successi e soddisfazioni, ma qualcosa cambia drasticamente e drammatica- mente il destino dello sfortunato pilota. Il risultato è Loris. Un vincente che si trasforma nel suo esatto opposto: un tossico, un emarginato, uno che dalla società è catalogato come perdente.
Racconto personaggi irregolari. Protagonisti che uniscono a un grandissimo talento la difficoltà di gestirlo. L’altra cosa che mi ha colpito di questa vicenda e che ho voluto trasmettere nei miei personaggi è quella volontà, tipica del mondo delle corse d’auto, di portare tutto al limite. Veloce-come-il-vento-variant-cover-Giulia-De-MartinoUn limite che però come nel caso di Loris – e di Carlo Capone nelle cronache sportive – cede all’improvviso, una sorta di ingranaggio emotivo che in un attimo, e d’improvviso, si rompe. È così che quella forza, quella capacità di mantenere l’equilibrio sfrecciando sul crinale, diventa all’improvviso una debolezza. Un vero e proprio tallone d’Achille pronto a trasformare il protagonista nel suo opposto. Il pilota, che per definizione è un atleta dai riflessi velocissimi, a causa della droga si addormenta, perde quello smalto indispensabile per un campione e si riduce ad essere meno di un uomo come tanti. Loris De Martino però non è semplicemente un omaggio a Carlo Capone è anche il pretesto per raccontare un altro pezzo della storia che conosciamo, cosa accade dopo aver subito questa disfatta personale.

Nel film però a Loris è offerta una seconda possibilità, può cercare, come si dice in gergo, di “tagliare la curva”, e guadagnare almeno qualche metro di distanza dal suo destino, tagliando a modo suo un altro traguardo.
La cosa principale di questo personaggio è il suo non cercare una redenzione. Siamo riusciti a raccontare soprattutto un personaggio che ha fatto pace con il suo lato oscuro, con quel che è diventato, ma che, nonostante tutto, decide di combattere la sua battaglia e prendersi coscientemente un’ occasione di riscatto per riconquistare la fiducia della sorella che rappresenta tutto quello che gli rimane di buono al mondo. Potremmo definirla “poetica delle seconde possibilità”.

Nell’immagine in evidenza: Stefano Accorsi e Matilda De Angelis, 
in una scena del film Veloce come il vento, prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema


 

Questo articolo continua sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile

 

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Guarda il trailer del film

Socialista e libertaria, la Barcellona di Ada Colau

epa05077421 Leader of 'En Comu Podem' (In Common We Can) and Mayor of Barcelona, Ada Colau speaks to supporters at their headquarter following the count of votes in the elections, in Barcelona, Spain, 20 December 2015. Spanish voters began casting their ballots in parliamentary elections that will determine the country's next coalition government, with polls indicating that no party is likely to win enough seats to govern alone. Spanish Prime Minister Mariano Rajoy's conservative People's Party is facing off against the Socialist Workers' Party, the liberal Ciudadanos party and left-wing Podemos. EPA/MARTA PEREZ

Diretta, schietta, immediata. Quando parla, ci guarda fissa negli occhi. Non abbassa mai lo sguardo, nemmeno alle domande più scomode. Non sembra conoscere il politichese né linguaggi intellettualoidi. Ada Colau, 42 anni, viene dal popolo: «Sono cresciuta in un quartiere povero e fin da piccola mia madre mi portava alle manifestazioni durante la Transizione. Ho sempre fatto politica in strada, mi sento un’attivista per i diritti sociali». Dai movimenti di lotta per la casa alle istituzioni: sindaca di Barcellona, dal giugno 2015. Il grande salto.
Ci accoglie nell’Ayuntamiento. Il Comune è un palazzo stile barocco. Lo sfarzo. Ci sediamo su un divano in una sala magnifica con affissi vari Mirò. La sua stanza. «Era già così, non c’è niente di mio» quasi si giustifica Colau, la quale ci indica una foto sulla sua scrivania, «è l’unica cosa che ho scelto e voluto». L’immagine ritrae l’anarchica antifranchista Federica Montseny. «Qualche giornalista mi chiede se è mia nonna, figuriamoci!», sorride. Si stempera la tensione. Una capacità innata di creare empatia col prossimo. La pasionaria degli Indignados. Nella conversazione ci impone di utilizzare il tu: «Ho sempre ammirato l’Italia.

Il tuo è un governo di minoranza, con Barcelona en Comù hai ottenuto 11 consiglieri su 40, e la maggioranza è 21. Quanto è complicato mediare, di volta in volta, con gli altri partiti?
Le maggioranze politiche le costruiamo in base agli obiettivi e in questi giorni stiamo negoziando per poter ampliare il governo e approvare i bilanci. Certo, non è facile. L’aspetto peggiore è dialogare con partiti che hanno decenni di esperienza nelle istituzioni e utilizzano “mezzucci” di ogni tipo: in pubblico affermano una cosa, in privato ne fanno un’altra. Fanno i propri interessi non quelli di Barcellona. In questo clima, non è facile resistere e siamo ancora lontani dalla costruzione di una nuova egemonia. Però, Barcelona en Comù, facendo campagne sociali e ora dal governo, ha già cambiato l’ordine del giorno e la storia della città: il contrasto alle ingiustizie sociali e alle asimmetrie di potere si collocano come dorsali dell’agenda politica. E ancora, il governo della città ha incoraggiato il dibattito e l’azione contro la riapertura dei Cie; Barcellona si è dichiarata città ospitante e una base logistica di accoglienza e sostegno per i rifugiati.
Da un punto di vista economico i municipi sono stritolati dal Patto di Stabilità. Stai pensando a delle formule per resistere ai diktat dell’Europa e ai paradigmi dell’austerity?
Devono esistere, per forza, ne va della vita della democrazia. Se questa è l’Europa, l’Europa è finita, non serve più. È stata fondata per uscire dall’orrore del nazismo e della Seconda guerra mondiale, per dire: “mai più”. E adesso abbiamo milioni di persone alle nostre frontiere che muoiono perché si bunkerizza. Questo ha a che fare con il tema del debito: l’Europa dei mercati si è imposta sull’Europa delle persone e sta portando a una sofferenza ingiustificabile perché le risorse, in realtà, ci sono, ma sono gestite in modo diseguale. Stiamo parlando di una crisi globale dove c’è un vulnus di democrazia, non è un discorso che riguarda solo Barcellona, la Spagna o l’Europa.


 

L’intervista continua sul n. 15 di Left in edicola dal 9 aprile

 

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Referendum trivelle, è anche una questione di sovranità popolare

Il referendum sulle trivelle in mare del 17 aprile ha molto da raccontare sulla crisi democratica che travolge il nostro paese.
In linea generale, come è noto, in Italia gli istituti di democrazia diretta sono soltanto due. Il primo è l’iniziativa legislativa popolare, più volte utilizzata dalla società civile nella storia repubblicana ma sistematicamente disconosciuta dagli organi legislativi ed esecutivi, al punto che nessun disegno di legge così proposto è mai arrivato neppure alla discussione in aula.
Il secondo è il referendum abrogativo, per il quale è previsto dalla Costituzione un quorum di validità. Tale quorum, anziché essere declinato in uno sforzo bipartisan per la riuscita delle consultazioni focalizzando la competizione sul confronto nel merito, si è tradotto nei decenni in una odiosa prassi consolidata: quella per cui i sostenitori di turno del No fanno sistematicamente campagna per l’astensione con l’obiettivo di boicottare la partecipazione e quindi lo strumento stesso.
L’ultima di una lunga serie di pronunciamenti in tal senso arriva da quello stesso PD che nel 2011 si stracciava le vesti tacciando di anti democraticità la propaganda astensionista dell’allora governo Berlusconi. Una giravolta di 180 gradi in un solo lustro, a conferma che la nomenclatura del partito che si definisce “democratico” è di fatto priva di significante.
Per sottolineare la stridente contraddizione tra slogan e pratiche del partito di governo, durante la Segreteria Nazionale PD tenutasi lunedì scorso 4 aprile, le oltre 200 associazioni che integrano il Comitato Nazionale Vota Sì per Fermare le Trivelle hanno recapitato al segretario del PD Renzi una lettera che invita caldamente a ritrattare la posizione a favore dell’astensione – osteggiata peraltro da diverse nelle anime che si muovono nel PD – e ad accettare un confronto pubblico che verta per una volta sul merito del quesito referendario.
La stessa genesi della consultazione alle porte segna il passo di un progressivo e discutibile processo di accentramento di poteri in capo ai ministeri, a scapito degli enti locali e dunque delle comunità che subiscono sulla propria pelle gli impatti di progetti estrattivi, produttivi, di smaltimento.
Non è un caso che – spinte dall’azione infaticabile di centinaia di comitati e realtà sociali attive lungo tutto lo stivale – siano state 9 regioni italiane, di cui 7 governate dallo stesso PD, a proporre formalmente il referendum, in rotta di collisione con il governo a causa della continua erosione di poteri e facoltà in materia di valutazioni di impatto e di rilascio di concessioni. Tentativi a volte sventati, ma che segnano nel complesso una chiaro disegno ispirato ad un neo-centralismo molto pericoloso per la tenuta democratica del paese.
Nell’epoca della post-democrazia, restituire facoltà di parola e decisione ad enti di prossimità e cittadinanza è unico argine possibile a questa erosione degli spazi di partecipazione. Un solo esempio, legato all’attualità: l’ascolto delle reiterate denunce dei comitati della Val D’Agri, prese in carico per tempo dagli enti preposti, avrebbe squarciato molto prima dell’azione della magistratura il velo sulle pratiche illecite adesso contestate dall’ordinanza della Procura di Potenza.
Per queste ragioni – e per molte altre che attengono all’urgenza di costruire una visione alternativa del bel paese, basata non sulle fonti fossili ma sul patrimonio artistico-culturale, sulle vocazioni economiche territoriali e orientato a un orizzonte di decarbonizzazione dell’economia – andare a votare il 17 aprile vuol dire anche e prima di tutto difendere e rivendicare l’esercizio di una sovranità che, almeno finchè non proporranno di modificare anche l’articolo 1 della nostra bistrattata Costituzione, appartiene ancora al popolo e non agli apparati di potere.