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Ttip e Ttp, se fossero gli elettori di Sanders e Trump a farlo saltare?

«Sono qui perché da 30 anni canto della differenza che c’è tra l’American Dream e la vita reale. Quella differenza l’ho vista mentre crescevo con i miei genitori operai del New Jersey e in mille altri posti. A volte la differenza tra ricchi e poveri si riduce. Negli anni 60 è successo. Ma la differenza tra quei momenti alti e la vita di tutti i giorni è grande e voi questo lo sapete, lo sappiamo tutti». A parlare a 3mila persone assiepate nella palestra di una scuola è Bruce Springsteen. Siamo nel 2012 a Parma, in Ohio, e il pubblico accorso ad ascoltare lui e l’ex presidente Clinton che fanno campagna per Obama è composto di omoni vestiti con pesanti felpone grigie con il cappuccio, signore corpulente, cappellini e giacche di pelle, jeans. La folla che ha fatto ore di coda per entrare è la middle class operaia che quando era giovane si innamorava con le ballate del Boss e ascoltava “Born to Run” in macchina con la cassetta di Budweiser nel sedile del passeggero. Le canzoni del boss parlano di loro.
C’era una ragione per cui in Ohio i democratici mandavano Springsteen e Bill Clinton e non Obama: la middle class bianca della Rust Belt, la cintura della ruggine industriale d’America è il tallone d’Achille del partito. E, per parlarci, serve un campione assoluto come Springsteen e l’ultimo presidente che è riuscito a farsi votare in massa dagli operai bianchi.
Quattro anni dopo il mondo è cambiato ed è identico: i candidati alle primarie parlano molto a quella gente che si sente dimenticata. E la working class sembra rispondere. A rivolgersi con le parole giuste a queste persone, in Ohio, Wisconsin, Michigan, Indiana, Minnesota, Pennsylvania sono Bernie Sanders e Donald Trump con i loro strali contro il commercio internazionale. «Ci riprenderemo i nostri posti di lavoro dalla Cina e da tutti gli altri Paesi», è una frase che il miliardario newyorchese ripete in ogni comizio. Quanto a Sanders, ci tiene a ricordare che lui è sempre stato contro i trattati commerciali «pensati per le corporation», non come la Clinton, che su questo insegue.
I due outsider delle primarie di entrambi i partiti hanno vinto in molti Stati della Rust Belt o in quelli con un elettorato simile dal punto di vista demografico: poche minoranze, molti lavoratori ed ex lavoratori industriali – o un passato da Stato industriale che mantiene quella cultura pur in un mondo radicalmente mutato. I temi sono i medesimi, l’esportazione di posti di lavoro verso la Cina e il Messico, la necessità di introdurre regole o dazi, ma la posizione cambia a seconda del pulpito.
Trump fa sfoggio di posizioni isolazioniste e protezioniste, promettendo di mettere in riga la Cina e gli altri Paesi che manipolano le valute; e sa bene che affrontando tali temi tocca un nervo scoperto in quel grande bacino di pubblico che sono i bianchi lavoratori ed ex lavoratori industriali che hanno visto scomparire le fabbriche. Bernie Sanders usa un tono più serio, ma sempre populista, ricordando come gli accordi di commercio internazionale abbiano danneggiato il lavoro e contratto occupazione, produzione e livelli del reddito. Né dimentica di citare i danni prodotti all’ambiente, negli Stati Uniti e nel mondo. Su Trans-Pacific partnership (Tpp) e Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), i trattati commerciali con Asia ed Europa in discussione in questi mesi, anche Hillary Clinton ha preso le distanze dall’amministrazione Obama, ed è stato forse l’unico strappo di una campagna che per il resto tende ad identificarsi con il presidente. Il senatore del Texas Ted Cruz è meno netto, ma anche lui insiste sulla necessità di far tornare posti di lavoro in America. Insomma la verità è che i trattati commerciali non sono popolari.


 

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La politica del governo alla prova le difficoltà dell’alternativa

Quello che sta avvendo in Italia ha un interesse che supera le Alpi, va oltre i confini nazionali. Una sinistra sta provando a governare contro le idee di sinistra, facendo propri i dettami del neo liberismo, ideologia del capitalismo finanziario che domina l’occidente e gran parte del pianeta. Da qui derivano jobs act e Sblocca italia, fastidio per i sindacati e incentivi a pioggia per le imprese, l’emendamento che favorisce Total e la svalutazione dei contratti e del lavoro.Questa “sinistra” pretende di fare gli interessi generali, affermando la priorità della politica. Non, beninteso, con l’ambizione di cambiare l’ordine mondiale o la Costituzione materiale dell’Europa, ma per difendere il sistema Italia. Da ciò discende lo sbattere i pugni sul tavolo chiedendo più flessibilità, il sì all’accordo con la Turchia in cambio di aiuti anche al nostro Paese, il tentativo di concentrare ogni risorsa nelle mani del governo che redistribuirà sotto forma di decontribuzione fiscale e di bonus.

Una tale concezione della politica sottende la riduzione dell’esercizio della democrazia alla semplice scelta del governo. Si voti un premier cui affidare, per cinque anni, il ruolo di sindaco della nazione. Le maggioranze siano espressione di un’unica volontà politica, alle minoranze resti un diritto di tribuna. Il tentativo di non far raggiungere il quorum il 17 aprile, come quello di trasformare il referendum costituzionale d’ottobre in un plebiscito pro o contro Renzi, derivano dalla stessa filosofia.

La narrazione e il controllo dei media diventano decisivi. Per infondere ottimismo, propagandare l’efficacia delle riforme, rappresentare all’opinione pubblica i rischi connessi al populismo, termine dentro cui si fa rientrare ogni critica, di destra o di sinistra, allo stato presente delle cose, alle scelte della comunità internazione e a quelle del governo nazionale. Ottimisti contro gufi. Quanto alla magistratura si occupi di perseguire le “mele marce”, ma senza chiedersi perché il politico o l’amministratore abbiano favorito quel tale interesse. Senza indagare “il sistema”: conta prendere .chi si riesce a prendere. con le mani nel sacco, con i tasca i soldi che ha preso direttamente.

Questa è, in estrema sintesi, la realtà delle cose, questa la “politica” con cui fare i conti. E chiunque voglia criticarla, con qualche ragionevole speranza di incidere, deve rispondere a due domande: se stia funzionando o no e quale sia l’alternativa. Purtroppo non sta funzionando. L’uscita dalla crisi che il capitalismo oggi può promettere è marcata da una forte sperequazione sociale, dalla disoccupazione cronica soprattutto tra i più giovani, dalla scarsa fiducia nel futuro di risparmiatori e investitori. In più, eliminati i corpi intermedi, la solitudine di chi governa si consegna a una burocrazia inefficiente e corrotta e spesso all’intermediazione criminale.

Quanto all’alternativa, i pezzi del puzzle ci sarebbero tutti: cambiare i trattati per costruire un’Europa dei diritti e del welfare. Potenziare ogni forma di consumo collettivo, di fruizione del bene comune. Orientare la politica intustriale: energia alternativa, sostegno alla ricerca e all’innovazione, graduale rinuncia ai settori che sanno produrre plus valore solo deprimendo i salari e truccando le commesse. Poi è indispensabile ricostruire dal basso una forte partecipazione democratica, un vero controllo popolare. Ma ci vuole coraggio, molto coraggio!

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Referendum su acqua, scuola e inceneritori: da domani la raccolta firme

Scuola, trivelle, inceneritori e acqua pubblica. Ci siamo. Domani, 9 aprile, inizia ufficialmente la campagna di raccolta firme per i referendum sociali. Centinaia di banchetti in tutta Italia. Il coordinamento promotore include Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, il movimento per la scuola pubblica, la campagna “Stop devastazioni”, per i diritti sociali ed ambientali e il Comitato Sì Blocca Inceneritori.
Left seguirà l’andamento della campagna segnalando i luoghi e gli eventi della raccolta firme. Intanto, domani a Roma, alle 11, conferenza stampa presso il banchetto di Via del Corso, altezza Largo Goldoni alle ore 11.
Le firme servono per:

QUESITI SCUOLA
Quattro quesiti abrogativi di altrettanti punti della legge 107 Buona scuola.
1 – Abrogazione di norme sul potere discrezionale del dirigente scolastico di scegliere e di confermare i docenti nella sede
2 – Abrogazione di norme sul potere del dirigente di scegliere i docenti da premiare economicamente e sul comitato di valutazione
3 – Abrogazione di norme sull’obbligo di almeno 400-200 ore di alternanza scuola-lavoro
4 – Abrogazione di norme sui finanziamenti privati a singole scuole pubbliche o private

QUESITO INCENERITORI
Il quesito vuole bloccare il piano per nuovi e vecchi inceneritori.

QUESITO TRIVELLE ZERO
Bloccare nuove attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi.

PETIZIONE ACQUA PUBBLICA
Petizione popolare per legiferare in materia di diritto all’acqua e di gestione pubblica e partecipativa del servizio idrico integrato.

Se Federica Guidi avesse conosciuto la “sguattera del Guatemala” Rigoberta Menchu

«Le definizioni qualificano i “definitori”, non i “definiti”» ha detto di recente all’Economist la scrittrice premio Nobel Toni Morrison. La definizione «sguattera del Guatemala» ha richiamato nella mente di molti – ovviamente per contrasto – un altro premio Nobel (per la Pace, nel ’92), Rigoberta Menchu Tum. Migrante, bracciante, domestica, attivista dei diritti umani, Rigoberta ha ricevuto il riconoscimento per il suo operato volto a promuovere «la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene».

La parola “sguattero” (con la “s” iniziale rafforzativa di “guattero”) deriva probabilmente dal longobardo wathari, guardiano, e questo termine ha la stessa radice della parola acqua in inglese, water. Nel senso etimologico del termine, è una sguattera Rigoberta e lo è chiunque agisca prendendosi cura della collettività e delle risorse, tutti i custodi dell’acqua e della terra. Che cos’è e come si qualifica chi utilizza in termine spegiativo questo termine lo spiega bene la stessa attivista guatemalteca nel suo “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, quando racconta chi è «l’eletto» nella sua comunità.

«Forse la maggior parte delle cose che facciamo è basata su quel che facevano i nostri antenati. Per questo abbiamo l’eletto, che è la persona che riunisce in sé tutti i requisiti, ancor validi, che i nostri antenati sapevano riunire. È la persona più importante della comunità, i figli di tutti sono suoi figli, insomma è quello che deve mettere in pratica tutto quanto. E più di tutto, è il rappresentante dell’impegno nei confronti dell’intera comunità. In questo senso, quindi, tutto quel che si fa lo si fa tenendo presenti gli altri».

Peccato che nella vicenda che riguarda Federica Guidi, al di là dei risvolti giudiziari, “gli altri” non coincidano con la collettività e “i figli” sono diversi dai figliastri. Se l’ex ministro e tanti di quelli che hanno governato e governano questo Paese avessero fatto propria la lezione della sguattera del Guatemala Rigoberta Menchu, oggi racconteremmo un’altra storia. E forse avremmo degli eletti (anche nel senso di scelti a seguito di regolari elezioni) per i quali «i figli di tutti sono i propri figli».

Il Tar condanna la Regione Lombardia. La volontà di Eluana andava rispettata

Eluana Englaro

La  Regione Lombardia è stata condannata a versare a Beppino Englaro 142mila euro come risarcimento danni: la Regione guidata da Roberto Formigoni, dicono ora i giudici, non rispettò  le sentenze dei tribunali su Eluana Englaro, morta nel febbraio 2009, dopo essere stata costretta contro la sua volontà a restare attaccata alle macchine per diciotto anni. Ancora una volta sono singoli cittadini che decidono coraggiosamente ad intraprendere battaglie legali  per l’affermazione di importanti diritti civili.

Dopo la battaglia contro l’antiscientifica legge 40 sulla fecondazione assistita condotta da decine di coppie nelle Aule di tribunale ora è Beppino Englaro a  vedere finalmente riconosciuto il diritto di sua figlia Eluana che, dopo un gravissimo incidente, è stata per quasi vent’anni in stato vegetativo permanente, nonostante  anni prima , dopo un incidente accaduto a un suo amico, avesse espresso la volontà di non essere tenuta in vita artificialmente se si fosse trovata in una situazione simile ridotta a una vita meramente biologica.

Impedire che le fosse staccato il sondino naso-gastrico che la alimentava e idratava artificialmente, fu una violazione, dicono oggi i giudici, così come costringere i genitori  di Eluana a intraprendere un viaggio in ambulanza per la clinica La Quiete di Udine, dove l’agonia di Eluana finì il 9 febbraio 2009.  Non fu possibile farlo in Lombardia perché  allora presidente della Regione Roberto Formigoni, nonostante il pronunciamento della Corte di Cassazione, attraverso una nota emanata da  Carlo Lucchina, direttore generale dell’assessorato alla Sanità, fece vietare su tutto il territorio lombardo la sospensione delle terapie e fra queste l’alimentazione artificiale ad Eluana ricoverata nella casa di cura Beato Luigi Talamoni di Lecco.

Il caso d i Eluana scatenò le crociate di Giuliano Ferrara e l’uso politico strumentale del caso da parte del centrodestra con il senatore Quagliariello che in aula si mise a gridare assassini e affermazioni come quella dell’allora premier Berlusconi che ebbe a dire che in stato vegetativo permanente Eluana avrebbe potuto avere figli dal momento che aveva ancora il ciclo. Affermazioni da brivido che si commentano da sole.  Oggi finalmente la decisione del Tribunale amministrativo della Lombardia fa giustizia. Stabilendo così il risarcimento a BeppinoEnglaro: 12.965,78 euro di danno patrimoniale (647,10 per il trasporto della paziente in Friuli, 470 per la degenza e 11.848,68 per il piantonamento fisso), 30mila euro a titolo di «danno iure hereditatis per lesione dei diritti fondamentali della signora Eluana Englaro» e altri 100mila come danno non patrimoniale «da lesione di rapporto parentale».  «Non è possibile – scrive il collegio presieduto da Alberto Di Mario – che lo Stato ammetta che alcuni suoi organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le sue leggi e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in quanto questo comporta una rottura dell’ordinamento costituzionale non altrimenti sanabile».

 

#Franceschiniripensaci, autori e musicisti al ministro: «Stop al monopolio Siae»

Le canzoni di protesta, per protestare, non bastano più. Ad autori e musicisti italiani tocca inventarsi anche gli hastag di protesta: #Franceschiniripensaci è la chiamata al ministro dei Beni culturali che dalle 12,30 di oggi – 8 aprile – impazza sulla rete: «Franceschini ripensaci, dobbiamo dire basta al monopolio della Siae». Cantano in un video alcuni dei musicisti che oggi hanno deciso di metterci la faccia. Tra loro, le voci inconfondibili di Adriano Bono e Kento.

 

Al centro della discussione – ancor una volta – la Società italiana autori ed editori. Ecco cosa ha detto il ministro il 31 marzo, davanti alle commissioni riunite Cultura e Politiche della Camera: «In questo momento di globalizzazione e integrazione europea, uno strumento unico che ci consenta di avere una posizione di forza nel confronto con gli altri Paesi europei e nel mercato globale è una cosa a cui non si può rinunciare. La strada più utile al Paese è la riforma urgente e profonda della Siae». Sulla liberalizzazione, però, il ministro ha ammesso di aver cambiato idea: «Io sono partito dalla propensione verso una logica di liberalizzazione, ma ho cambiato idea perché molti Paesi guardano con attenzione e invidia al fatto che abbiamo un’unica società». Dunque, «l’inadeguatezza e la necessità di una maggiore trasparenza, efficienza e funzionalità della Siae, non è un buon motivo per cambiare il sistema ma per riformarlo», dice Franceschini.

Ma perché i musicisti protestano? La Siae deve quasi un miliardo agli aventi diritto e ha un conto in rosso di circa 26 milioni di euro (al 2014). Altri numeri strabilianti? Il 60% degli artisti riceve meno di quello che versa (dati del 2009, i più aggiornati). Per non parlare poi della trasparenza: l’ultima assemblea risale a più di 3 anni fa e il sistema del voto è ancora quello per «censo», come previsto dallo statuto all’art. 11.

Intanto c’è una direttiva europea, la Direttiva Barnier – che pende sulla testa dell’Italia. Chiede la liberalizzazione delle società che si occupano di tutela del diritto d’autore. Gli Stati membri hanno avuto due anni per recepirla (c’è un Osservatorio a riguardo, fondato da Patamu), a partire dal il 4 febbraio 2014, giorno della sua approvazione definitiva al Parlamento europeo. Due anni di tempo per adeguarsi li ha avuti anche l’Italia e non l’ha fatto. Il tempo scadrà il 10 aprile 2016 – tra due giorni. Non rimane che attendere la risposta del ministro alla chiamata degli 80mila.

L’età dell’innocenza nelle secche del caso Guidi

Il premier Matteo Renzi (S), con la ministra dello Sviluppo Economico Federica Guidi, dopo la firma del Protocollo d'intesa, tra il governo e l'Audi, sullo stabilimento di Sant'Agata Bolognese. La cerimonia si è svolta nella Sala dei Galeoni di Palazzo Chigi a Roma, 27 maggio 2015. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Nel romanzo postumo Petrolio, Pasolini spiega gli eccessi del potere in Italia. Ancora una volta la sua profezia si rivela attuale.

L’ex-ministra Guidi non poteva garantire l’autonomia del mandato, anche ammessa la buona fede, a causa delle relazioni private e professionali. Era chiaro già al momento della nomina, non ci volevano i magistrati per capirlo. Il suo nome fu rivendicato da Berlusconi per un’intesa politica che non riguardava solo le riforme istituzionali e che prosegue nel sostegno di Verdini. Come se non bastasse, la ministra era inadeguata al compito, come sanno perfino gli ambienti confindustriali. È mancata l’iniziativa strategica della politica industriale, l’unica in grado di alimentare la crescita oltre i vincoli macroeconomici, come dimostra Obama. L’immagine “donna giovane” è stata utilizzata per coprire conflitti di interesse, manovre politiche e inefficienza di governo. Non si doveva “cambiare verso” nella classe dirigente?

Nell’intercettazione la ministra usa un gergo molto diffuso: “mettere dentro” alla legge di stabilità quell’emendamento di Tempa Rossa, per blindarlo con il voto di fiducia, costringendo il Parlamento ad approvare la norma che solo qualche settimana prima la Commissione Ambiente aveva rigettato. Non ho alcun dubbio sull’onestà del mio governo, ma preoccupa l’abuso della legislazione d’emergenza. Nei paesi civili le regole per la realizzazione delle infrastrutture energetiche sono decise in un débat public e non si ricorre al blitz parlamentare. A forza di “mettere dentro” la legge diventa un ammasso di norme confuse, eterogenee, e contraddittorie. Non serve a fare presto, agevola le lobbies, aumenta la burocrazia e rallenta l’attuazione di opere ben progettate.

È la prima volta in Italia che si va al referendum su richiesta delle Regioni. Non si è sottolineata la novità nonché l’utilità dell’iniziativa, che ha già costretto il governo alla retromarcia. Ha dovuto infatti ripristinare il divieto di trivellazione nei pressi delle coste e cancellare le pessime procedure dello Sblocca Italia che allentavano i controlli ambientali delle Regioni.

Il 17 aprile si vota per chiudere gli impianti alla fine delle relative concessioni stipulate in seguito a pubbliche gare che avevano già definito i tempi di ammortamento e di ripristino ambientale. Al contrario, prolungare per legge le concessioni è vietato dalle norme europee perché limita la concorrenza e crea rendite di posizione a favore di operatori che avrebbero ampia discrezionalità nei tempi di chiusura dei pozzi. È infondato il ricatto occupazionale perché gli imprenditori firmando la concessione trent’anni fa si erano già impegnati a chiudere fra 5-10 anni e quindi a farsi carico dei lavoratori.

Come spesso accade nei referendum, oltre gli aspetti tecnici si confrontano due indirizzi politici. Il governo ha abbassato a colpi di voti di fiducia l’asticella dei controlli ambientali, centralizzando la politica petrolifera. Votare Sì è un riconoscimento al movimento referendario che ha già salvato la qualità dei nostri mari e sollecita il Paese a fare di più e meglio con le energie rinnovabili.

È triste ascoltare Renzi quando invita a non votare per un referendum proposto dallo stesso Pd nei consigli regionali. Rischia di dimenticare “l’età dell’innocenza” del giovane leader che chiamava alla partecipazione i cittadini contro l’establishment.

*Senatore Pd


 

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Gli Indignados tornano a Puerta del Sol. Per i “fratelli” francesi in lotta

Era il 15 maggio 2011 quando in Spagna cominciò il movimento degli Indignados che poi ha portato alla nascita di Podemos. Il movimento 15 M. Cinque anni dopo, nello stesso luogo della protesta collettiva contro il governo, i manifestanti tornano a Puerta del Sol, a Madrid.
Questa volta è per solidarietà con i nuovi “indignados” francesi, quei giovani disoccupati e studenti che da settimane fanno sentire il loro “Non, merci” e il 31 marzo sono scesi in piazza contro la riforma del lavoro, la “loi du travail” El Khomri che sta mettendo in difficoltà sia il presidente del Consiglio Valls che il presidente Francois Hollande (come ha già raccontato Left).

Dopo il 31 marzo la protesta diventa così #Nuitdebout#40mars (Notte in piedi), nel senso che i giovani, dopo essersi accampati per nove giorni a Place de la République proprio come i loro “fratelli” iberici avevano fatto – per quattro settimane – a Puerta del Sol, lanciano la protesta collettiva il 9 aprile in tutta la Francia, da Tolosa a Lione, da Nantes a Rennes, grandi e piccole città.

Anche in Spagna il 9 aprile sarà # NocheEnPie#40mars. L’appuntamento a Puerta del Sol è alle 18, poù o meno in contemporanea con altre città spagnole interessate: Tarragona, Valencia, Saragozza, Salamanca, Murcia, Barcellona.
Nascerà un movimento come Podemos anche in Francia? Non sembra per il momento: l’accampamento di Place de la République appare meno forte di quello spagnolo del 2011. Che, ricordiamo, nacque subito dopo le primavere arabe in un contesto di grave crisi dello Stato spagnolo. Nel 2016 il disincanto sembra maggiore rispetto a 5 anni fa. Come racconta Le Monde, il popolo degli Indignados francesi è d’accordo sul fatto che “la democrazia non funziona” anche speranze di cambiamento della politica ce ne sono poche. C’è da dire comunque che i ragazzi di Parigi rimangono là in piazza a discutere in assemblea e il 9 aprile ci sarà la grande prova della replica della manifestazione del 31 marzo estesa in tutta la Francia. Si legge su Le Monde il significato di Nuit debout: “La Notte in piedi non è una manifestazione, è una operazione di costruzione. Si continuerà finché non si otterrà qualcosa di concreto”.
In Spagna qualcosa di concreto è stato ottenuto: Podemos, nato a gennaio 2014 è la terza forza del Paese, impegnato in una difficile trattativa per il governo. Un mese fa, secondo i sondaggi, era dato al secondo posto. Come si vede gli Indignados di 5 anni fa hanno portato fortuna.

Panama Papers paradisi fiscali nel mirino

FRANCE, Paris: A man holds a placard reading #PanamaLeaks, People, Enough of extorsions referring to the massive data leak called Panama Papers as hundreds of militants of the Nuit Debout or Standing night movement hold a general assembly to vote about the developments of the movement at the Place de la Republique in Paris on April 4, 2016. It has been five days that hundred of people have occupied the square to show, at first, their opposition to the labour reforms in the wake of the nationwide demonstration which took place on March 31, 2016.

Dopo Svizzera e Lussemburgo, è stata la volta di Panama. Grazie al lavoro del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, i dati di una società legale di intermediazione societaria, la Mossack Fonseca, sono diventati pubblici. In questo modo sono stati svelati gli interessi di politici di primo piano, industriali e persone note del mondo dello sport e dello spettacolo che si celano dietro 215mila società di comodo costituite nel Paese centro-americano.

In realtà alle autorità di mezzo mondo era noto da tempo come Panama fosse un paradiso fiscale fondamentale per il riciclaggio dei proventi del narco-traffico latino-americano e per l’elusione fiscale di molti ricchi e di società multinazionali presenti nelle Americhe. Ma in pochi sanno perché Panama è una meta sempre più ambita per chi cerca di pagare meno tasse o di nascondere con maggior sicurezza i propri patrimoni all’estero. Nonostante gli sforzi per una maggiore cooperazione internazionale in materia fiscale, messi in campo a partire dalla crisi del 2007-2009, molte giurisdizioni ancora resistono all’obbligo di rendere disponibili le informazioni sui patrimoni depositati in banche o società di comodo. Sulla lista nera redatta dall’Unione Europea ci sono ancora 30 paesi (compresa Panama). Per l’OCSE sono numerose le giurisdizioni che stanno facendo progressi nell’ambito delle peer review del Global Forum sulla trasparenza fiscale. Ma Panama deve ancora avviare il secondo stadio della revisione, dopo un annoso tira e molla per riuscire a superare il primo. A oggi sono solo quattro le giurisdizioni al mondo a non aver preso alcun impegno per lo scambio automatico delle informazioni. Oltre a Panama, Vanuatu, Nauru e Bahrein.

Proprio la garanzia della segretezza societaria o bancaria, prima ancora del regime fiscale alquanto agevolato, è il motivo principale del perché tanti ricchi spostano i loro patrimoni in questo Paese. Si badi bene, stiamo parlando solo della ricchezza di singoli soggetti e non dei patrimoni di società multinazionali o di veicoli societari collegati al crimine organizzato.

A Panama non è difficile aprire una società di comodo. Basta utilizzare i servizi di imprese specializzate e trovare dei prestanome che nascondano l’identità dei beneficiari ultimi, ossia i veri proprietari. Una volta garantita la segretezza societaria il gioco è fatto, grazie a uno schermo che rende opaca ogni conoscenza delle varie “scatole” create ad arte. Tecnicamente è lecito tenere patrimoni all’estero purché si dichiarino al fisco, dal momento che beneficiando degli accordi contro la doppia imposizione si calcolerebbe quanto pagare in Italia e nel paese estero. Ma in realtà si sa che chi sposta i patrimoni lo fa proprio per non dichiararli. Secondo l’autorevole Tax Justice Network, nei paradisi fiscali singoli individui – non quindi società private – celerebbero almeno 21mila miliardi di dollari.

Dopo l’ennesimo leak spettacolare, in molti si chiedono che cosa succederà. Nonostante tanti annunci e impegni presi sulla carta da G20 e OCSE, quest’ultimo scandalo ci dimostra che i paradisi fiscali continuano a esistere. Eccome.
È un duro colpo, quello sferzato contro le autorità panamensi, che si troveranno inondate di richieste di informazioni da parte delle autorità inquirenti di tutto il mondo. Si sono già attivati la Francia, il Regno Unito, l’Australia e la Norvegia. Altri seguiranno, inclusa forse l’Italia. Senza un’acquisizione formale di queste informazioni dagli omologhi panamensi, difficilmente le autorità degli altri paesi potranno procedere nei confronti delle varie persone sospettate. Da noi nel 2015 l’elusione fiscale è stata depenalizzata dal governo Renzi con l’introduzione dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito della maxi delega fiscale. La giurisprudenza italiana, poi, non è così netta sulla materia. Si pensi alla sentenza della Cassazione della fine del 2014, che a sorpresa ha prosciolto Dolce e Gabbana dall’accusa di evasione fiscale tramite società di Lussemburgo.

Allora che cosa si può fare per affrontare seriamente il cancro dei paradisi fiscali, che intossica da decenni l’economia globale? La creazione dei registri pubblici delle imprese che indichino chi sono i reali beneficiari è imprescindibile. In Europa lo richiede la nuova legislazione contro il riciclaggio, anche se vari paesi stanno opponendosi alla pubblicizzazione di questi dati. Quindi servono veri accordi per lo scambio automatico delle informazioni tra le varie giurisdizioni. A chi si rifiuta vanno imposte pesanti sanzioni economiche e commerciali. La pubblicizzazione e non il semplice scambio di informazioni tra autorità competenti sarebbe un ottimo deterrente per l’elusione fiscale, visto che ognuno potrebbe a questo punto analizzare i dati e rivelare i suoi leaks. Come prevedono gli accordi internazionali in materia, è centrale che l’elusione fiscale sia considerato un reato, anche perché è prodromica al riciclaggio di denaro. Il governo deve ritornare sui suoi passi e rivedere le norme appena introdotte, che lanciano il segnale sbagliato ai ricchi contribuenti italiani.

Infine, il problema più grande riguarda le società multinazionali, che grazie ai paradisi fiscali eludono sistematicamente la tassazione nei paesi dove producono e vendono di più, come ci insegnano i casi Starbucks, Amazon, Google e Apple. Serve un obbligo di rendicontazione pubblica Paese per Paese che disaggreghi i bilanci nelle varie giurisdizioni mostrando le entrate, i profitti e le tasse pagate. Un atto del genere costituirebbe un enorme deterrente contro l’abuso dei paradisi fiscali. Secondo la nuova legislazione europea quest’anno inizieremo ad avere dati di questo tipo per il settore bancario. Sarà un leak ufficiale, che ognuno dovrà leggere con attenzione per capire che il problema è ben lungi dall’essere risolto, come molti governi ci vorrebbero far credere.

*Re:Common


 

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Trivellare? C’è sempre un’alternativa. Inaffiare la meraviglia, ad esempio

Quando qualcuno vi dice che “non c’è alternativa” sappiate che siete riusciti a stanarlo. Ci nascono così, quelli che dicono che non c’è alternativa, tenendo sempre in tasca la cartuccia per spararla in ogni momento di difficoltà. Quando crolla il consenso, quando si esaurisce la propaganda e quando finisce la spinta propulsiva degli interessi particolari il “non c’è alternativa” è la bandiera bianca che vorrebbe essere nera, l’ultima starnazzata dell’oca travestita da cigno.

Sappiate che quando un governante, uno qualsiasi, vi dice che cambiare è pericoloso e mette a rischio lo status quo (di solito dicono: «i posti di lavoro») significa che ha svuotato il proprio serbatoio di innovazione e ha deciso di lasciarsi portare dalla corrente. I “posti di lavoro” sono figli delle opportunità che abbiamo voglia e talento di costruire: non esiste un lavoro che sopravvive come diritto acquisito nonostante la Storia. Non è esistito, mai. I figli dei figli dei figli dei forgiatori di spade sono ottimi ingegneri, informatici, analisti.

Sappiate che un governo che vi invita a non partecipare ad una consultazione popolare è un vigliacco. Decidere di non decidere è qualcosa che sta nel cassonetto delle azioni inutili alla cittadinanza e la democrazia. E frugare nei cassonetti è uno stadio di disperazione, mai una pratica da statisti.

Sappiate che tutto quello che è sempre stato considerato indispensabile per l’economia è stato superato dal tempo, dagli uomini, dall’evoluzione, dallo sviluppo e dal mondo. Ciò che non riusciamo ad immaginare non è impossibile, è sconosciuto. L’irrealizzato spesso è semplicemente incompiuto. Gli uomini che hanno cambiato il nostro Paese (e tutti i Paesi del mondo) sono quelli che hanno avuto le gambe forti per trovare un angolo d’osservazione mai calpestato, e da lì hanno visto che tutto era già vecchio.

C’è un motivo (tra i tanti che potete leggere qui) per votare sì al referendum del 17 aprile: pretendere di avere una classe dirigente che riesca ad innaffiare meraviglia; che come i giullari possa mostrarci la realtà così com’è ma stropicciata per scoprirla da un angolo di osservazione che non avemmo mai osato. Da lì nasce lo stupore, lo stupore gocciola meraviglia e dalla meraviglia un cambiamento di paradigma.

Altrimenti facciano i cronisti. Mica i ministri o i presidenti del consiglio.

Buon venerdì.