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Referendum trivelle: lo sai che si vota?

Abbiamo chiesto ai romani se sapessero come, quando e perché si vota il 17 aprile. Molti lo sanno e molti votano Sì. Molti non ne sanno nulla. E anche per questo abbiamo pensato a questo video. Altri hanno espresso l’esigenza di saperne di più e di avere maggiore chiarezza. Qui abbiamo provato a rispondere alle domande che ci sono venute in mente. 

Servizio di Giorgia Furlan

Riprese e montaggio Felice V. Bagnato

Kentridge affresca il Lungotevere usando, ad arte, anche lo smog

Una immagine dell'opera corale site-specific a mano dell?artista sudafricano William Kentridge, denominata 'Triumphs and laments', riguardante la 'ripulitura' del tratto delle banchine del Tevere fra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, in una foto scattata il 2 aprile 2016, nella fase finale dei lavori. Verrà inaugurata il prossimo 21 aprile, in occasione del Natale di Roma. Attraverso l'idropulitura della patina biologica accumulatasi sui muraglioni di travertino, l'artista sudafricano ha realizzato più di 80 figure alte 10 metri per una lunghezza di 550 metri con cui ha ricostruito le grandi tensioni che hanno animato la storia sociale della Città Eterna dalle origini ad oggi. ANSA / ALESSANDRA CHINI

È un monumentale affresco della storia di Roma quello che l‘artista sudafricano William Kentridge sta realizzando sul lungotevere. Sul muraglione destro del Tevere tra Ponte Mazzini e Ponte Sisto sta prendendo forma una narrazione per immagini popolata da figure e simboli mutuati dalla colonna Traiana, dai trionfi di Mantegna, ma anche dalle pitture nere di Goya. Con il titolo Triumphs and Laments, quest’opera site specific che sarà inaugurata il 21 aprile per il Natale di Roma, è dedicata non solo a personaggi famosi ma anche e soprattutto alle tante persone comuni che nella Storia spesso non hanno voce.

«Ogni trionfo ha sempre portato con sé anche dolore, perdite, lesioni», dice l’artista che nel suo Paese ha lottato contro l’apartheid anche utilizzando il linguaggio delle arti visive. Arriva così a compimento l’intervento di street art promosso da Tevereterno Onlus (fondata dall’architetto Luca Zevi) di cui si parla da lungo tempo ma che ha avuto continui stop and go negli ultimi dieci anni. Colpisce l’aspetto grandioso e insieme effimero dell’opera che, secondo i calcoli del suo autore sparirà nell’arco di sei o sette anni, il tempo che ci metterà lo smog a ricoprire le figure realizzate con la tecnica dello stencil ma senza senza usare vernici, con il solo uso di una idropulitrice con cui Kentridge fa emergere le sue figure dalla patina accumulatasi negli anni sul travertino bianco. Sono figure – in tutto circa ottanta – in larga parte recuperate dalla storia del Novecento evocando pagine leggere di storia romana come la stagione della Dolce vita, ma anche pagine buie come la morte della studentessa Giorgiana Masi che nel 1977 fu uccisa durante una pacifica manifestazione dei Radicali proprio a Ponte Sisto e l’assassinio di Aldo Moro compiuto dalle Brigate Rosse.

Una immagine dell'opera corale site-specific a mano dell?artista sudafricano William Kentridge, denominata 'Triumphs and laments', riguardante la 'ripulitura' del tratto delle banchine del Tevere fra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, in una foto scattata il 2 aprile 2016, nella fase finale dei lavori. Verrà inaugurata il prossimo 21 aprile, in occasione del Natale di Roma. Attraverso l'idropulitura della patina biologica accumulatasi sui muraglioni di travertino, l'artista sudafricano ha realizzato più di 80 figure alte 10 metri per una lunghezza di 550 metri con cui ha ricostruito le grandi tensioni che hanno animato la storia sociale della Città Eterna dalle origini ad oggi. ANSA / ALESSANDRA CHINI

In a photo of 02 April 2016, an image of 'Triumphs and Laments', a project for Roma of South African artist William Kentridge. 'Triumphs and Laments' tells the millenary story of Rome with some murals, all concentrated along Tiber River, in the part between Ponte Sisto and Ponte Mazzini. The official opening of the exhibition is scheduled on 21 April 2016, the day of Rome's birthday. ANSA / ALESSANDRA CHINI

Quando da giovane allievo della scuola d’arte a Johannesburg, William Kentridge si trovò alle prese con pennelli, colori ad olio e cavalletto, pensò che fare il pittore non faceva per lui. Ma poi scoprì il disegno come modo originario e immediato di espressione. «Il disegno è pre verbale, istantaneo, irriflesso» dice lui stesso, spiegando che «l’immediatezza di pensare per disegni è fondamentale per me». Così come è centrale nella sua arte il legame con la cultura sudafricana. Anche per la sua economicità, il disegno ha sempre conosciuto una lunga tradizione artistica e popolare anche nei quartieri più poveri, usato come contro canto alla storia ufficiale analogamente a come i neri americani hanno sempre utilizzato la musica rap e il suo fiume di parole. Kentridge sperimenta a tutto raggio le potenzialità e la flessibilità del disegno : dalla puntasecca al carboncino a cui ricorre per portare lo spettatore in un universo sfumato ed evocativo di storie sognate. Usando la pratica della cancellatura, come modo per rigenerare continuamente l’opera. Strumento agile, cangiante, monocromatico (come esigeva fin dagli esordi la sua raffinata estetica) il disegno è alla base dell’affascinante serie di opere grafiche con cui da anni racconta la storia mai scritta dei neri. Un metodo di lavoro che in qualche modo riguarda anche questo intervento di Street art nella Capitale, la città che un paio di anni fa ha ospitato, al MAXXI, una retrospettiva del suo più che trentennale lavoro nel mondo dell’arte.

Una immagine dell'opera corale site-specific a mano dell?artista sudafricano William Kentridge, denominata 'Triumphs and laments', riguardante la 'ripulitura' del tratto delle banchine del Tevere fra Ponte Mazzini e Ponte Sisto, in una foto scattata il 2 aprile 2016, nella fase finale dei lavori. Verrà inaugurata il prossimo 21 aprile, in occasione del Natale di Roma. Attraverso l'idropulitura della patina biologica accumulatasi sui muraglioni di travertino, l'artista sudafricano ha realizzato più di 80 figure alte 10 metri per una lunghezza di 550 metri con cui ha ricostruito le grandi tensioni che hanno animato la storia sociale della Città Eterna dalle origini ad oggi. ANSA / ALESSANDRA CHINI

Il caso Guidi non è solo trivelle. Per “fortuna” di Renzi

Bisogna limitare i danni dell’affaire Federica Guidi. Questa è la priorità di palazzo Chigi: evitare che altra benzina finisca nel motore del comitato per il Sì al referendum contro le trivelle. Non che si tema veramente che possa raggiungere il quorum, figurarsi, ma insomma è sempre meglio stare tranquilli. Tra le mosse previste c’è il rinvio della discussione delle mozioni di sfiducia a dopo il 17 aprile, giorno del voto. Si voteranno, infatti, il 19 le mozioni presentate da Forza Italia e dal Movimento 5 stelle: ha preferito evitare di fornire un palcoscenico, il Pd, imponendosi in capigruppo al Senato, pur sapendo di avere i numeri.

Del malcontento delle opposizioni, d’altronde, sanno bene a palazzo Chigi, si scriverà poco, anche perché i 5 stelle evocano la «dittatura» (questa volta lo fa Di Maio) ogni volta, e, come insegna la più banale storia, finisce che l’allarme perde di efficacia. Certo è – come nota Loredana De Petris, di Sinistra Italiana – che «dopo aver fatto il gradasso in televisione dicendo di non temere nulla, Renzi fugge per evitare che lo scandalo sul petrolio sia discusso dal Parlamento», ma alla prova muscolare che avrebbe peraltro vinto Renzi ha preferito non offrire una tribuna.

Anche perché del referendum e del caso Guidi si parlerà ancora. Lo si fa oggi con le tre ore di colloquio dell’ex ministro con i Pm di Potenza, con il ministro che conferma di essere persona offesa nell’inchiesta, e lo si farà il 13 quando il Tar si esprimerà sul ricorso presentato dai Radicali che hanno messo nero su bianco l’accusa mossa solo sul piano politico anche da altri al governo Renzi: i pubblici ufficiali non possono fare campagna per l’astensione ai referendum. Lo dice la legge, e i Radicali chiedono sia rispettata. Difficile si arrivi al rinvio della consultazione e all’accorpamento con le amministrative, come chiesto dai ricorrenti, ma tra Tar e Consiglio di Stato il ricorso farà discutere e offrirà sicure ragioni al comitato del sì. Altra benzina.

Si parlerà del referendum ma fortunatamente per Chigi il caso Guidi sta assumendo una dimensione più larga della sola partita sulle trivelle, anche per via del consueto uso allegro delle intercettazioni contenute nei faldoni. La pubblicazione dello sfogo tra Guidi e il compagno con l’ormai celebre sguattera Guatamalteca, i commenti di Guidi su Padoan e su il sottosegretario De Vincenti. «Sembra Dynasty e invece è l’esecutivo che governa questo Paese», dice Arturo Scotto, di Sì, e c’è in effetti molto dei rapporti umani nei palazzi del potere, nelle parole di Guidi, e in quelle dei magistrati, invece, ci sono altri affari, come quelli all’aeroporto di Firenze o per il rinnovo della flotta della Marina. A seguire le accuse dei cinque stelle per il governo è anche peggio. Ma anche lì, come per la «democrazia», il Pd pensa che chi crede al racconto delle cricche, lo crede a prescindere da questo caso. E quindi, tutto sommato, è meglio così. Meno benzina per le trivelle.

Palermo scende in piazza dopo l’aggressione ai migranti

Youssupha è fuori pericolo. E sabato Palermo scenderà in piazza per schierarsi dalla sua parte. Pochi giorni fa vi abbiamo raccontato di un’aggressione a Ballarò e di Youssupha, uno dei sei ragazzi aggrediti, quello che ha preso una pallottola in testa. Di cosa è successo a Ballarò il 2 aprile potete rileggere cliccando su queste parole. Adesso Youssupha Susso è fuori pericolo, anche se le sue condizioni rimangono critiche. È ancora ricoverato in prognosi riservata presso il reparto di terapia intensiva dell’ospedale civico di Palermo: «Le condizioni del giovane sono in miglioramento. Il proiettile non ha creato gravi danni cerebrali. Il giovane resta in coma farmacologico. Possiamo dire che non è in pericolo di vita», hanno detto i medici.

Il sindaco Leoluca Orlando ha già dato disposizione all’Avvocatura comunale per costituirsi parte civile nel procedimento che vedrà imputati i giovani palermitani individuati dalle forze dell’ordine. Per il tentato omicidio – ricordiamo – è stato fermato Emanuele Rubino, 28 anni, pregiudicato palermitano che secondo gli inquirenti apparterrebbe a un gruppo malavitoso di Ballarò che gestisce vari traffici illeciti, dallo spaccio alla prostituzione. «La nostra città e la sua amministrazione non tollerano e mai tollereranno atti di violenza da parte di chiunque a danno di chiunque e ancor di più quando questi hanno uno sfondo razzista e mafioso», ha detto Orlando. Solidarietà per Youssupha è arrivata pure dall’Alto commissariato dell’Onu per richiedenti asilo e rifugiati. Attraverso Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa, Unhcr si è unito all’appello dei palermitani affinché vengano assicurati alla giustizia i colpevoli della sparatoria.

Intanto Palermo si è data appuntamento a piazza Bologni, alle 10,30 di sabato 9 aprile, per dar vita a un corteo che attraverserà via Maqueda per entrare in via delle Pergole e dopo il mercato di Ballarò raggiungere il campo di bocce. Un percorso simbolico, che ripercorre a ritroso i passi che hanno portato il 21enne gambiano verso il luogo dell’aggressione. Lì, nel campo, Susso era di ritorno dall’incontro con i Baddarhome, un gruppo che lavora alla riqualificazione di quell’area del mercato. A indire la manifestazione «contro ogni forma di violenza», sono in molti: studenti e insegnanti, immigrati che vivono a Ballarò, rappresentanti della consulta delle culture, associazioni, circoli, movimenti, il Palermo Pride, sociologi, assistenti sociali, il forum antirazzista e l’assemblea cittadina Sos Ballarò. «C’è un clima di violenza diffusa», ha detto Adham Darwasha, presidente della Consulta delle culture. «Non può passare il messaggio che tutta Ballarò è quel ragazzo che ha sparato. Non dobbiamo criminalizzare il quartiere e preservare la convivenza, questo è il centro cittadino della convivenza tra le culture. Tutti abbiamo paura, ma non possiamo vivere nella paura e non dobbiamo permettere che ci sia una faida tra italiani e immigrati».‎

Referendum trivelle, 10 domande e 10 risposte per chiarirsi le idee

Quali sono le piattaforme interessate?
Sono 35 concessioni di coltivazione di idrocarburi presenti entro le 12 miglia, ma solo 26 sono produttive, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi. Nel 2015 è stato estratto da questi impianti circa il 2,7% del gas e lo 0,9% del petrolio consumato in Italia. Il 40% di queste piattaforme resta in mezzo al mare solo per fare ruggine.

A quanti idrocarburi rinunciamo se vince il sì?
L’esito del referendum riguarda 17 concessioni per un totale di 41 piattaforme. Se si raggiunge il quorum e vince il sì, meno del 26% della produzione di gas naturale e il 9% di quella petrolifera saranno chiuse progressivamente tra il 2017 e il 2027.

Guadagniamo con le royalties?
Le royalties in Italia sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono inoltre esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20mila tonnellate di petrolio in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti a terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare. Il risultato? Nel 2015, su un totale di 26 concessioni produttive, solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio hanno pagato le royalties. Le royalties si possono poi dedurre dalle tasse: altro regalo sostanzioso a beneficio delle sole imprese.

Quanto fruttano i canoni di coltivazione?
I canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: dai 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione. Si dovrebbero prevedere cifre analoghe a quelle adottate da altri Stati europei: almeno 1.000 euro/kmq per la prospezione, 2.000 per le attività di ricerca fino a 16mila per la coltivazione. Così lo Stato ricaverebbe oltre 300 milioni di euro rispetto all’attuale milione.

Alle compagnie vanno sussidi?
Secondo Legambiente ammontano a 246 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici (The fossil fuel bailout, ODI): si tratta di aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa depositi e prestiti e Servizi assicurativi del commercio estero (Sace). Poi c’è la riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300 mila euro nel 2015.

Quanti sono gli occupati?
La Fondazione Eni Enrico Mattei, stima in circa 4.200 unità l’occupazione diretta e indiretta in Val d’Agri, dove si estrae circa il 65% del petrolio nazionale. A livello nazionale la stima oscilla tra le 9 e le 13mila unità, meno della metà (tra le 3.500 e le 5.000 unità) riguardano l’off-shore. L’aumento locale dell’occupazione si registra solo nelle fasi iniziali dei progetti estrattivi. Nella produzione di energia elettrica rinnovabili ed efficienza energetica si creano dieci volte più posti di lavoro di quelli generati dalle fonti fossili.

Le piattaforme rilasciano inquinanti in mare?
Le piattaforme possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti come olii, greggio e metalli pesanti o altri contaminanti. Gli esiti del monitoraggio delle piattaforme che scaricano in Adriatico direttamente in mare, o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione sono chiari. Nel 2012, 2013 e 2014, i dati Ispra pubblicati da Greenpeace mostrano che il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014.

Chi controlla le piattaforme italiane?
Greenpeace ha ottenuto dal ministero dell’Ambiente i dati sul monitoraggio di 34 piattaforme delle 135 censite dal ministero dello Sviluppo economico. Sulle circa 100 mancanti, Eni ha fatto sapere che i propri impianti «non emettono scarichi a mare, né effettuano re-iniezione di acque di produzione in giacimento, pertanto non ci sono piani di monitoraggio prescritti e nessun dato da fornire». In pratica, denunciano gli ecoattivisti, sulla gran parte delle piattaforme italiane non c’è nessuna attività di controllo. Eppure è recente la denuncia di un presunto scarico illegale nel pozzo Vega 6 del campo oli Vega della Edison, la più grande piattaforma petrolifera fissa offshore d’Italia al largo di Pozzallo (Ragusa). Qui sarebbe stata creata una sorta di discarica sottomarina con 500mila metri cubi di acque usate nella lavorazione, di lavaggio e di sentina iniettate illegalmente nel pozzo.

Qual è il danno economico in caso di chiusura?
Il danno economico derivante dalla chiusura graduale dei pozzi allo scadere dei permessi non sarebbe enorme, anche perché in molti casi si tratta di impianti che hanno già avuto il loro picco produttivo e che vanno a graduale esaurimento. Secondo il centro studi Nomisma, partecipato da banche e industrie italiane, il vantaggio economico complessivo dal settore sarebbe di circa un miliardo di euro l’anno nel periodo 2000­-2010. Un sì al referendum si tradurrebbe quindi in una perdita sicuramente inferiore a 170 milioni di euro l’anno a regime e via via in diminuzione.

Che cosa avverrebbe in caso di incidente?
In un sistema chiuso come il mar Mediterraneo un eventuale incidente (il rischio è contenuto ma non si può escludere) sarebbe disastroso.

Non vi basta? Volete più dati e particolari? Una versione più lunga e dettagliata di queste risposte sulle trivelle la trovate qui

 

Q&A sul referendum: il quesito e dieci risposte per votare informati

Referendum Trivelle: il quesito
“Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ‘Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 ‘Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)’, limitatamente alle seguenti parole: ‘per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale’?”

1. Qual è l’oggetto del referendum?
Gli elettori dovranno decidere se, l’estrazione degli idrocarburi nelle piattaforme offshore entro le 12 miglia marine dovrà cessare alla scadenza della concessione (votando Sì) o potrà protrarsi fino all’esaurimento del giacimento (votando No o nel caso non si raggiunga il quorum), lasciando inalterata la norma attualmente in vigore. Va ricordato che la norma oggetto del referendum, che prevede la possibilità di prorogare l’attività estrattiva «per la durata di vita utile del giacimento», è stata introdotta dal governo Renzi soltanto nel dicembre scorso con la legge di Stabilità. Questa previsione rischia di far incorrere l’Italia in una procedura d’infrazione perché la direttiva europea 94/22/CE sulle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi stabilisce che la durata e l’estensione delle concessioni devono tener conto della necessità di garantire la possibilità di esercizio dell’attività estrattiva a diversi soggetti. Va tenuto presente, poi, che una concessione dura inizialmente 30 anni ed è poi prorogabile fino ai 40-45 anni di quinquennio in quinquennio.
Oggetto del referendum del 17 aprile sono le piattaforme estrattive di gas e petrolio entro le 12 miglia marine (circa venti chilometri) dalla linea costiera. Sono 35 le concessioni di coltivazione di idrocarburi presenti in questa fascia di mare attorno allo Stivale, ma soltanto 26 sono produttive, per un totale di 79 piattaforme e 463 pozzi. In prevalenza si estrae gas metano, il petrolio viene estratto solo in 4 concessioni dislocate di fronte a Marche e Abruzzo e nel Canale di Sicilia. Nel 2015 è stato estratto da questi impianti circa il 2,7% del gas e lo 0,9% del petrolio consumato in Italia.
Delle 88 piattaforme operanti entro le 12 miglia, 35 non sono di fatto in funzione: 6 risultano “non operative”, 28 sono classificate come “non eroganti”, mentre un’altra risulta di supporto a piattaforme “non eroganti”. Dunque, il 40% di queste piattaforme resta in mezzo al mare senza avere una funzione produttiva. Altre 29 piattaforme, poi, sono considerate “eroganti” ma in realtà da anni producono così poco da rimanere costantemente sotto la franchigia, cioè sotto la soglia di produzione (pari a 50 mila tonnellate per il petrolio, 80 milioni di metri cubi standard per il gas) che esenta i petrolieri dal pagamento delle royalties.

2. A quanti idrocarburi rinunciamo se vince il sì?
Tutte le produzioni nazionali di idrocarburi, e in particolare quelle legate alle piattaforme che potrebbero chiudere gradualmente se vincesse il sì, hanno già superato il picco di produzione prima del 2000. Delle 26 concessioni entro le 12 miglia, 9 (con 38 piattaforme) sono scadute o in scadenza, ma anche con la vittoria del sì non saranno chiuse subito, perché hanno già richiesto una estensione. Alcune non hanno richiesto proroghe perché comunque destinate alla chiusura delle attività. L’esito del referendum riguarda insomma 17 concessioni per un totale di 41 piattaforme. Se si raggiunge il quorum e vince il sì, rinunceremo progressivamente tra il 2017 e il 2027 a meno del 26% della produzione di gas naturale e al 9% di quella petrolifera. Va poi considerato che le compagnie hanno tutto l’interesse a protrarre lo sfruttamento “a tempo indeterminato”, da un lato perché per quantitativi così ridotti non pagano royalties, dall’altro perché in questo modo possono procrastinare i costi dello smantellamento degli impianti.

3. A quanto ammontano le royalties versate dall’industria estrattiva?
Le royalties (il corrispettivo da versare allo Stato per lo sfruttamento dei pozzi) in Italia sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Sono inoltre esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti sulla terraferma e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare: cioè, entro quei limiti è tutto gratis.
Le 8 compagnie di petrolio e gas effettivamente operanti in Italia – tra cui Eni, Shell ed Edison – hanno prodotto un gettito di oltre 340 milioni di euro relativo alla produzione 2014 e in parte 2013. Nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare il pagamento a Stato, Regioni e Comuni (questi ultimi ricevono royalties solo per i pozzi a terra). Molto conveniente anche per le imprese straniere, che altrove trovano ben altre condizioni.
Le royalties si possono poi dedurre dalle tasse: altro regalo sostanzioso a beneficio delle imprese, ma gas e petrolio sono beni di tutti e per questo dovrebbero essere sottoposti a tassazioni giuste e trasparenti.

4. A quanto ammontano i canoni per la coltivazione degli idrocarburi?
I canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono molto bassi: dai 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione. Serve un aggiornamento che introduca cifre adeguate, come quelle adottate da altri Stati europei: almeno 1.000 euro/kmq per la prospezione, 2 mila per le attività di ricerca fino a 16 mila per la coltivazione. In questo modo le compagnie petrolifere potrebbero versare alle casse dello Stato oltre 300 milioni di euro rispetto all’attuale milione.

5. Le fonti di energia fossile ricevono sussidi pubblici?
In generale, il sussidio alle fossili vale a livello globale sei volte di più di quello alle fonti pulite. In Italia la produzione di combusti- bili fossili viene sostenuta con 2,7 miliardi di euro ogni anno, che diventano 17,5 se si guarda agli incentivi lungo tutta la filiera, consumo incluso. Secondo Legambiente ammontano a 246 milioni di euro gli “aiuti” provenienti dallo Stato (The fossil fuel bailout: G20 subsidies for oil, gas and coal exploration di ODI): si tratta di fondi erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (Sace). A questi aiuti indiretti vanno aggiunti quelli più diretti legati alla riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300mila euro nel 2015 e previsti in egual misura fino al 2018.

6. Se vince il sì si perdono posti di lavoro?
Premessa: la norma oggetto del referendum è stata introdotta lo scorso dicembre ed è entrata in vigore a inizio 2016. Questo vuol dire che sia la proroga delle concessioni “ad libitum” di recente introduzione sia la sua eventuale abolizione non creerebbero alle aziende del settore particolari shock nella gestione delle dinamiche occupazionali.
A ciò va aggiunto che la crisi del settore fa registrare da tempo una flessione di fatturato e occupati sia a livello internazionale sia in Italia e che le attività di estrazione degli idrocarburi sono fra quelle a maggior intensità di capitale, pertanto a più bassa intensità di lavoro. La Fondazione Eni Enrico Mattei, per fare un esempio, stima in circa 4.200 unità l’occupazione diretta e indiretta in Val d’Agri, dove si estrae circa il 65% del petrolio nazionale. Le stime degli occupati del settore a livello nazionale oscillano tra le 9.000 e le 13mila unità, meno della metà (tra le 3.500 e le 5.000 unità) riguardano l’off-shore. Sulle piattaforme oggetto del quesito, poi, lavorano stabilmente circa cento persone; il personale restante lavora a distanza o le raggiunge per previ periodi.
Alla limitatezza quantitativa dei vantaggi occupazionali delle attività estrattive, va aggiunta poi la loro limitatezza temporale. È noto infatti che solo nelle fasi iniziali c’è un aumento locale dell’occupazione e quando gli impianti sono a regime si riduce fino a scomparire al termine del ciclo di vita del giacimento. Anche da questo punto di vista gli idrocarburi non sono rinnovabili: in particolare, nella produzione di energia elettrica rinnovabili ed efficienza energetica creano dieci volte più posti di lavoro di quelli generati dalle fonti fossili. Dirottando dunque sulle prime (da cui dipende più del 40% della nostra energia elettrica e che danno già lavoro a 60mila addetti con una ricaduta di 6 miliardi di euro) gli incentivi rivolti a queste ultime si avrebbero vantaggi considerevoli in termini occupazionali.

7. Le piattaforme rilasciano inquinanti in mare?
Le attività di routine delle piattaforme possono rilasciare sostanze chimiche inquinanti e pericolose nell’ecosistema marino, come olii, greggio e metalli pesanti o altre sostanze contaminanti. I dati relativi ai piani di monitoraggio delle piattaforme attive in Adriatico che scaricano direttamente in mare, o iniettano/re-iniettano in profondità, le acque di produzione sono eloquenti. I dati che si riferiscono agli anni 2012, 2013 e 2014, monitorati dall’ ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) sono stati pubblicati da Greenpeace 9 e mostrano che, a seconda degli anni considerati, il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014.
A questo va aggiunto che l’estrazione di gas può determinare un’accelerazione dei fenomeni di subsidenza, vale a dire il progressivo abbassamento dell’area continentale adiacente alla costa.

8. Chi controlla le piattaforme italiane?
Greenpeace ha ottenuto dal ministero dell’Ambiente i dati sul monitoraggio di 34 piattaforme delle 135 censite dal ministero dello Sviluppo economico, Sulle circa 100 mancanti, ha fatto sapere Eni, quelle di pertinenza del Cane a sei zampe «non emettono scarichi a mare, né effettuano re-iniezione di acque di produzione in giacimento, pertanto non ci sono piani di monitoraggio prescritti e nessun dato da fornire». In pratica, denunciano gli ecoattivisti, sulla gran parte delle piattaforme italiane non c’è nessuna attività di controllo, eppure è recente la denuncia di un presunto abuso nel pozzo Vega 6 del campo oli Vega della Edison , la più grande piattaforma petrolifera fissa offshore d’Italia al largo di Pozzallo (Ragusa). Qui sarebbe stata creata una sorta di discarica sottomarina con 500mila metri cubi di acque di strato, di lavaggio e di sentina iniettate illegalmente nel pozzo.

9. È vero che se vince il sì il danno per la nostra economia sarà enorme?
Il danno economico derivante dalla chiusura graduale dei pozzi allo scadere dei permessi non sarebbe enorme, anche perché in molti casi si tratta di impianti che hanno già avuto il loro picco produttivo e che vanno a graduale esaurimento.
Non è facile fare una stima dei minori introiti per la collettività (tassazione sulle attività petrolifere, royalties, canoni concessori), ma Aspo Italia ha fatto una stima per eccesso. Il centro studi Nomisma, partecipato da banche e industrie italiane, ha calcolato un vantaggio economico complessivo dal settore dell’estrazione degli idrocarburi di circa un miliardo di euro l’anno nel periodo 2000-2010. Un sì al referendum si tradurrebbe quindi in una perdita sicuramente inferiore a 170 milioni di euro all’anno a regime e via via in diminuzione.

10. Che cosa avverrebbe in caso di incidente?
In un sistema chiuso come il mar Mediterraneo un eventuale incidente (il rischio è contenuto ma non si può escludere) sarebbe disastroso per l’economia (in particolare turismo e pesca), per l’ecosistema marino e per la sua biodiversità. In questi casi l’intervento umano è pressoché inutile, come dimostra l’incidente, nel quale morirono 11 operai, avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico alla piattaforma Deepwater Horizon, che ha provocato il più grave inquinamento da petrolio e il peggior disastro ambientale mai registrato nelle acque degli Stati Uniti. Sono cinque gli Stati Usa danneggiati dalla marea nera che per tre mesi continuò a riversarsi nelle acque e lungo le coste del Golfo.


 

Tutto quello che volete sapere sul referendum del 17 aprile, ve lo raccontiamo su Left da sabato in edicola

 

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Amico terrorista vuoi comprare un kalashnikov? Iscriviti al social network più grande che c’è. Da quando, un anno fa Facebook ha introdotto una modalità di pagamento nel suo servizio Messenger e altre funzioni che consentono di effettuare acquisti direttamente dalle pagine del social capita infatti che persone interessate a vendere e comprare armi da guerra lo facciano tramite le pagine del social network.

Questo è quanto verificato da uno studio di Armed research Service sul commercio di armi online in Libia e ulteriormente provato dal New York Times, che dopo aver visionato la ricerca ha condotto indagini ulteriori, passando a Facebook gli indirizzi di sette pagine dove era possibile comprare armi. Si tratta di armi che nella maggior parte dei casi sono quelle tipicamente usate da gruppi di terroristi e guerriglia e, pagine così, ne esistono per altri Paesi dove si combatte e sono attivi gruppi armati non regolari. Le pagine sono state rimosse dal social network, ma il paradosso rimane: La ricerca di Ares ha documentato tra i 250 e i 300 post al mese su pagine e siti libici e gli scambi avvenuti che i ricercatori sono riusciti a documentare sono 6mila. Tra le armi vendute anche quelle finite nelle mani di signori della guerra o gruppi islamisti in occasione della presa di qualche deposito e, scrive il New York Times, anche armi fornite dal Pentagono all’esercito iracheno.

Il costo delle armi è tra i 2200 e i 7mila dollari, segno, dicono i ricercatori, che c’è una domanda piuttosto alta.

Non tutte le armi finiscono nelle mani di gruppi armati: la Libia è un posto pericoloso e molte persone normali – dicono i ricercatori – comprano pistole per difendersi da furti d’auto e altro. Il paradosso è che possano farlo su Facebook.

Christine Chen, portavoce di Facebook, ha detto al quotidiano di New York che la società conta sui quasi 1,6 miliardi di persone che visitano il sito ogni mese perché segnalino casi come questo. «Esortiamo chiunque vede le violazioni a segnalarcele». Un po’ debole come risposta: le ricerche segnalano che le pagine-mercato sono state in piedi per mesi ed hanno raccolto migliaia di aderenti.

Dove sta il paradosso? Probabilmente nel fatto che il social network nasce in un Paese dove la vendita di armi e la discussione sulle armi è una cosa normale. Per questo, oltre alla colossale difficoltà di controllare miliardi di post ogni giorno – difficoltà che vale anche per altri network e siti di compra vendita come ebay – Facebook non banna e non censura pagine relative alle armi.

Le discussioni sulle armi, gli amanti della caccia o i deliri degli iscritti alla National rifle association, la lobby delle armi Usa, sono ammesse. Il che lascia spazio a enormi ambiguità. Non ammetterle significherebbe però un guaio per il social network che rischierebbe di perdere una fetta di pubblico e molto traffico – almeno quello americano. La pagina NRA ha più di 4 milioni di like, ma cercando fire arms su FB ci si trova davanti a centinaia di pagine, dalle armerie che promuovono i loro prodotti, a pagnie di discussione. Insomma, la vendita di armi da fuoco e ordigni da guerra è un frammento di quanto succede attorno al mondo di mira e fucili sul network di Zuckerberg. E nessuno sembra intenzionato a cambiare questa policy. Se poi qui e la c’è un terrorista che compra un mitra, ce ne faremo una ragione.

La passerella del premier e l’accoglienza di Napoli

Il corteo di protesta contro il premier Matteo Renzi, atteso nel pomeriggio in città per partecipare alla cabina di regia su Bagnoli, Napoli, 6 aprile 2016. ANSA/CESARE ABBATE

“Napoli sfiducia il governo Renzi” e un grande Pinocchio con su scritto Pd. Questa l’accoglienza in piazza che Napoli ha riservato all’uomo che la promesso di liberare l’Italia da lacci e laccioli. I giornali stigmatizzeranno i disordini: manifestazioni che cambiamo percorso, dunque non autorizzate, tafferugli, studenti feriti, anche qualche poliziotto. E se la prenderanno con il sindaco per aver disertato la cerimonia ufficiale dopo che il presidente del consiglio non aveva trovato tempo per ascoltare in un faccia a faccia le ragioni della città. De Magistris ha usato anche lo scherno, rispondendo “ho già comprato il costume, così ci faremo tutti un bagno” alla battuta del premier secondo cui a luglio si potrà fare il bagno nelle acque di Bagnoli.

Lo scontro verte sulle operazioni di risanamento che il governo appoggia, e che secondo gli oppositori favorirebbero i soliti pescecani, Fintecna, Caltagirone. Non un risanamento, ma un via libera alla speculazione, dicono.

Intanto però registriamo che il presidente del consiglio di un governo che si pretende “di sinistra” è andato in una città popolare in stato d’assedio, protetto dalla forza pubblica. É normale che così sia? No, non è normale. Segnala una deriva, l’incapacità del premier di far intendere le sue ragioni. Come ha detto Cuperlo: gli manca “lo statuto del leader, ma spesso ha l’arroganza del potere”.

La mafia è una montagna di merda. Su Rai Uno. Spiaccicata sulla poltrona di Vespa.

Il conduttore di "Porta a porta", Bruno Vespa, durante il lancio della puntata dove andr‡ in onda l'intervista a Salvo Riina, figlio del boss della mafia siciliana TotÚ Riina, Roma, 06 aprile 2016. ANSA/CLAUDIO PERI

La mafia cos’è? “Non me lo sono mai chiesto, non so cosa sia. Oggi la mafia può essere tutto e nulla. Omicidi e traffico di droga non sono soltanto della mafia”. Parole, opere e omissioni di Giuseppe Riina detto Salvo, figlio di Totò. Non ci voleva molto a immaginare che sarebbe stata la polemica del giorno (ne ho scritto qui, ieri, ricordate?) eppure da noi l’indignazione arriva solo un centimetro prima dell’odore della vergogna.

Comunque: la trasmissione c’è stata e il mafioso Riina (eh, sì, condannato per mafia, come suo padre Totò) ha avuto la possibilità di darci la sua pervertita visione del mondo.  “Un figlio può giudicare suo padre, ma se lo deve tenere per sé, non può andare in giro a dirlo in pubblico, – dice a Bruno Vespa – Per me lo Stato è l’entità in cui vivo, questo per me è lo Stato. Io rispetto lo Stato, l’ho sempre rispettato, magari non condivido determinate leggi o sentenze. Se condivido l’arresto di mio padre? No, perché è mio padre. A me hanno tolto mio padre.” Falso, caro Salvo: tuo padre ha tolto a noi un pezzo di Stato. E se non rispetti le leggi e le sentenze sei un vigliacco.

“Io non giudico Falcone e Borsellino.- ha dichiarato sulla prima rete nazionale – Qualsiasi cosa io dico sarebbe strumentalizzata. Se io esterno un parere su queste persone viene strumentalizzato, io ho sempre rispetto per i morti, per tutti”. Falso: qualsiasi cosa dica sarebbe solo un rivolo di sangue che gocciola dai denti di tuo padre. Io non ho rispetto per i morti: i mafiosi morti sono mafiosi e morti, uno stronzo è un morto che è stato stronzo, tuo padre ad esempio non lo si rispetta nemmeno da vivo, per dire. E il problema che la famiglia Riina ha con l’Italia non sono i morti: sono i vivi che ha fatto ammazzare.

“Noi solitamente – continua – uscivamo con la nostra compagnia e sentimmo un sacco di ambulanze, spesso se ne sentivano, ma questa volta c’era un viavai di ambulanze e auto della polizia che andavano verso Capaci. Ci dissero che avevano ucciso Giovanni Falcone. Restammo tutti ammutoliti, poi tornammo a casa e c’era mio padre che guardava il tg. Non mi venne mai il sospetto che mio padre era dietro gli attentati”. Bene: e invece è stato lui. Niente da dire?

“Solo in Italia succede ciò. In tanti altri Paesi democratici non succede che un pentito che dice di aver commesso centinaia di omicidi non fa neanche un giorno di carcere. Poi accusano le persone, le mandano in carcere poi tornano a fare quello che facevano prima. Si poteva scegliere di fa scontare un minimo delle cose che avevano fatto”. Falso: il problema di questo Paese sono gli omertosi e tu sei della peggior specie: di quelli che parlano d’altro per omettere.

“Per noi non era normale ma non ci siamo mai chiesti perché non ce le facevano queste domande, eravamo una sorta di famiglia diversa, abbiamo sempre vissuto un po questa vita diversa dagli altri. L’arresto mio padre è stato uno spartito. C’era –  ci ha raccontato con voce da Mulino Bianco – una sorta di tacito accordo familiare, noi eravamo bambini particolari, il nostro contesto era diverso, abbiamo vissuto anche in maniera piacevole, nella sua complessità è stato come dire un gioco”. Siete bambini particolari, vero: siete figli di quella che Peppino Impastato chiamava “montagna di merda”. Della stessa pasta.

Fine puntata. Vespa ha leccato di tutto, digerirà anche questa.

Buon giovedì.

Affinità e (tante) divergenze, tra il calcio inglese e la Serie A

Tottenham's goalkeeper Hugo Lloris, centre in yellow, makes a save during the English Premier League soccer match between Liverpool and Tottenham Hotspur at Anfield Stadium, Liverpool, England, Saturday, April 2, 2016. (AP Photo/Jon Super)

“Money makes the world go round”. I soldi fanno girare il mondo, cantava Liza Minelli. Lo sanno bene gli spin doctor della Premier League, che ormai a cadenza triennale portano a casa contratti televisivi sempre più ricchi. L’ultimo, valido per il periodo 2016-2019 e che entrerà in vigore a giugno, ammonta a 5,13 miliardi di sterline (oltre 7 miliardi di euro), circa 2 miliardi in più rispetto al precedente. E stiamo parlando solo dei diritti per trasmettere in esclusiva 168 partite nel territorio del Regno Unito acquistati da Sky e BT – la piattaforma di Rupert Murdoch pagherà 4,2 miliardi di pounds per 126 match, la British Telecom 960 milioni per i rimanenti 42 incontri. Poi ci sono gli introiti che ogni squadra incassa per la vendita dei diritti all’estero, circa 3,2 miliardi di sterline. Totale, tra Inghilterra e resto del mondo, oltre 8 miliardi di sterline. Un fiume di quattrini che ha contribuito a rendere la massima divisione inglese se non il campionato più bello del Pianeta, sicuramente quello più seguito.

In Premier i (tantissimi) denari pagati da Sky e dalle altre emittente satellitari avvicendatesi negli ultimi anni vanno divisi per il 50% in parti uguali, per il 25% in base alle apparizioni televisive (da scegliere secondo l’andamento del campionato), mentre il restante 25% dipende dal piazzamento finale in classifica. Un buon incentivo per giocarsi anche un’apparentemente inutile ultima di campionato per decidere un decimo o un undicesimo posto, verrebbe da dire. Forse si eviterebbero partite sospette – o truccate – come sembra sia accaduto dalle nostre parti. Per i diritti venduti all’estero la torta viene divisa in parti uguali tra tutte e 20 le squadre che partecipano al campionato.

Non a caso guardando la classifica dei guadagni legati agli introiti televisivi, si nota che tra il team che si laurea campione d’Inghilterra e quelli che retrocedono il divario non è amplissimo. Nel 2013-14 il Manchester City ha incassato 96 milioni di sterline, il Cardiff (ultimo in classifica) 65. Da noi è stato calcolato che, nel 2012-13, alla Juventus spettavano quasi 100 milioni di euro, al Pescara circa 20, ma soprattutto che 13 club non superavano i 35 milioni.

Un altra differenza tra l’Italia e l’Inghilterra sta nel numero di partite trasmesse. Così come nel resto d’Europa, anche oltre Manica i frequentatori di stadi si sono abituati a dover rinunciare all’orario canonico d’inizio match, il tutto per soddisfare l’appetito degli spettatori televisivi, che di solito cominciano l’abbuffata del week end all’ora di pranzo del sabato. Poi il turno si completa con altri posticipi rarefatti tra il tardo pomeriggio del sabato stesso, la domenica e la sera del lunedì – anche se il Monday Night non è una regola fissa. Con il nuovo contratto si parla anche di gara da disputarsi il venerdì sera, una novità assoluta per la Premier. Eppure c’è un dettaglio che forse troppo spesso viene ignorato, sottovalutato o semplicemente omesso: a fronte di quattro, massimo cinque partite della Premier trasmesse in diretta televisiva, per vedere tutte le altre non rimane che munirsi di biglietto di ingresso allo stadio. Alle 15 di sabato pomeriggio Sky e le altre televisioni britanniche non mandano in onda alcun match di nessuna divisione professionistica inglese. Un’altra buona ragione per cui gli impianti di provincia o delle grandi città sono tutti o quasi pieni, in Premier ma anche nei campionati minori, mentre da noi in tanti appassionati preferiscono dotarsi di schede e decoder.

Quanto è diverso il calcio inglese da quello italiano, cosa è diventata la Premier e le altre leghe e quanto è cambiata? In questi giorni in libreria il volume di  Luca Manes “Football is coming home, appunti di viaggio nella patria del calcio” (Bradipo Libri). Gli undici capitoli sono altrettante tappe nelle principali città del football d’oltre Manica, tra aneddoti, riflessioni personali e pareri illustri. E forse aiutano anche a capire come mai, nonostante i miliardari russi, arabi e tailandesi che comprano squadre e pompano soldi, nel campionato più ricco del pianeta si producano sorprese e novità come quella del Leicester di Claudio Ranieri.