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Referendum in Olanda. L’antipasto del Brexit è servito

Oggi in Olanda si vota per un referendum. Una consultazione – seppur non vincolante – sull’accordo di associazione Ue-Ucraina. Sulla scheda, gli olandesi dovranno scegliere se “approvare” o “respingere” l’intesa, che è già entrata in vigore in via provvisoria dal 1° gennaio dopo il via libera del parlamento europeo e di quello ucraino. Non è la prima volta che questo accordo diventa oggetto di qualche protesta, già nel 2014 fu il centro della rivolta ucraina contro Yankovich e l’inizio della crisi con Mosca.

Kiev, Ucraina. Una manifestazione per sostenere l’integrazione europea

Cosa prevede questo accordo? La creazione di un’area di libero scambio tra Unione europea e Ucraina e il rafforzamento dei legami politici. Non si parla ancora, dunque, di un vero e proprio ingresso dell’Ucraina nell’Unione, eppure un sondaggio rivela che nella percezione di metà degli elettori olandesi questo referendum decide se aprire o chiudere le porte dell’Ue a Kiev. Solo il 17% degli elettori olandesi, pensa che sia un accordo innanzitutto commerciale.
L’occasione, però, è stata ghiotta per gli euroscettici che hanno caricato su questo referendum tutti i malumori relativi a un’Europa che impone ai cittadini le sue decisioni, a partire dalle politiche migratorie per finire a quelle fiscali. Il vero obiettivo della consultazione, insomma, sono i rapporti tra l’Olanda e l’Ue. Lo ha ammesso persino il leader del comitato che ha promosso il referendum olandese (Burger Comité Eu), Arjan van Dixhoorn: «In realtà non ci importa nulla dell’Ucraina», ha detto in un’intervista alla tv pubblica NRC, riportata da DutchNews.nl.

Nigel Farage, chairman of the United Kingdom Independence Party (UKIP), speaks during the general Meeting of the Campaign for an Independent and Natural Switzerland (AUNS), in Winterthur, Switzerland, 04 October 2014. ANSA /STEFFEN SCHMIDT
Nigel Farage, leader dell’Ukip

L’euroscetticismo in Olanda si chiama Geert Wilders, leader del Partito della libertà (Pvv), dato in testa nei sondaggi arancioni.
«Questo referendum può forse riguardare l’Ucraina ma è anche un voto per dire se vogliamo più Europa o meno Europa», ha dichiarao il leader del Pvv. E il giorno prima del voto, a organizzare una manifestazione per ricordare agli olandesi di votare No ci ha pensato il Vnl (Voor Nederland), partito euroscettico fondato da due ex membri dell’islamofobo Pvv di Wilders. Ospite d’onore, il leader degli euroscettici britannici dell’Ukip, Nigel Farage. Che non ha certo perso l’occasione per metterci in mezzo il Brexit: «Se gli olandesi si schiereranno decisamente per il ‘no’, avrà un impatto sul referendum per la Brexit», ha detto Farage al Sunday Times.

Il quorum per la validità del referendum, secondo la legge olandese, è del 30% degli aventi diritto. Un obiettivo raggiungibile, secondo i sondaggi, con il “no” all’intesa che viene dato in vantaggio. Se vincesse il No sarebbe un colpo per Mark Rutte, che oltre a essere a capo del governo olandese è attualmente presidente di turno della Ue. Una gatta da pelare per niente facile, per il primo ministro incalzato dagli euroscettici. Che sposta la questione sulla politica estera: «Pensiamo che l’Ucraina dovrebbe avere buone relazioni tanto con la Ue quanto con la Russia. E questo non sarebbe possibile se facesse parte dell’Unione europea». Preoccupato s’è detto pure il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker: «Il no aprirebbe la porta a una grave crisi continentale». L’antipasto del Brexit è servito.

Wisconsin, vittorie per i numeri due della corsa: Sanders e Cruz sorridono

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., waves to the crowd with his wife, Jane Sanders, by his side during a campaign rally Tuesday evening in the Arts and Sciences Auditorium at the University of Wyoming campus on April 5, 2016, in Laramie, Wyo. Sanders won the Democratic presidential primary in Wisconsin Tuesday. (Blaine McCartney/The Wyoming Tribune Eagle via AP) MANDATORY CREDIT

Bernie Sanders ha vinto la sua sesta primaria consecutiva in Wisconsin. Ted Cruz ha stravinto nello stesso Stato, regalando un sospiro di sollievo ai repubblicani, che sperano di riuscire a fermare la marcia trionfale di Donald Trump. Le primarie della scorsa notte sono l’ennesimo passaggio cruciale di un processo di nomina dei candidati presidenziali negli Stati Uniti in cui tutto continua a segnalare una sofferenza dell’elettorato nei confronti dello status quo.

La vittoria di Cruz, che pur essendo meno spaccone e pittoresco di Trump staziona probabilmente alla sua destra, è un segno che l’elettorato ne ha anche abbastanza dello status quo della corsa repubblicana: gli eccessi del miliardario repubblicano, le sue parole dette prima di pensare alle conseguenze, preoccupano quelle persone che – in quanto elettori del Grand Old Party – sentono che se fosse Trump il candidato, la vittoria dei democratici sarebbe assicurata. E così l’ultraconservatore Cruz porta a casa un risultato che lo lascia sperare: «La gente del Wisconsin ha acceso una candela di speranza – ha detto – ora i giovani possono sperare di riportare posti lavoro in America cancellando la riforma sanitaria, approvando un’aliquota unica, cancellando molte regole e abolendo l’Irs (l’agenzia federale per la riscossione delle tasse)». Se qualcuno avesse avuto dubbi su quanto sia di destra Cruz, questo elenco è perfetto. Non solo, il senatore del Texas è il campione dei religiosi evangelici, quindi le sue posizioni in materia di questioni etiche sono ancora più a destra.

Trump il coalizzarsi di tutte le forze del partito che non lo vogliono e una enorme gaffe sull’aborto: prima ha detto che le donne che abortiscono negli Stati dove non si può dovrebbero «subire una qualche forma di punizione». Finito sotto un diluvio di proteste ha specificato che sono  medici che andrebbero puniti. Il dire una cosa e doversela rimangiare non è particolarmente apprezzato, a prescindere da cosa si dice: i candidati stanno correndo per la presidenza, dovrebbero avere delle idee chiare, non sparare la prima cosa che viene loro in mente. Non solo, questa è la millesima controversia e per quanto ci sia un’ampia fetta di pubblico a cui queste cose piacciono, la maggioranza dei repubblicani del Wisconsin ha deciso che no, preferiscono un candidato meno imbarazzante (se così possiamo definire Ted Cruz). Lo scenario di una convention aperta e caotica è sempre più vicino.

Anche Bernie Sanders sorride: un’altra vittoria in uno Stato importante di quelli dove ha mostrato di essere forte e un catalizzatore per una parte di elettorato bianco che può essere difficile da convincere per i democratici. Bernie può senza dubbio sostenere che i suoi voti pesano di più di quelli di Hillary perché vince in posti più importanti per le elezioni presidenziali. Al contempo, Clinton continua ad avere ottenuto più voti in termini asssoluti.  Il problema di Bernie è che a Hillary mancano solo 640 delegati per ottenere la nomination, mentre a lui ne mancano 1327. La ragione è semplice: i superdelegati, che sono gli eletti del partito, sono quasi tutti con Hillary e, se lei arriverà in vantaggio alla convention, confermeranno il loro orientamento (Hillary ha eletto 250 delegati in più di Sanders, fino a oggi). In caso contrario le cose si complicherebbero parecchio anche in campo democratico.

Certo è che Sanders continua ad avere la forza di spostare Clinton a sinistra: la campagna di Hillary sta facendo un enorme lavoro di comunicazione in favore del salario minimo orario a 15 dollari – approvato in questi giorni da New York e California – mettendo l’accento sul fatto che minoranze e donne sono quelli che lavorano nei settori nei quali sono neri, ispanici e donne a lavorare di più. Certo, giovani e lavoratori bianchi restano un enorme problema per quella che doveva essere la candidata predestinata. Clinton può però sorridere guardando agli exit polls repubblicani: un terzo degli elettori di quel partito ha detto che se fosse Trump il candidato repubblicano valuterebbero seriamente se votare lei. I sondaggi delle sfide di Trump, sia contro Clinton che contro Sanders indicano che i democratici hanno molte chance di tornare alla Casa Bianca.

Per i democratici le primarie di New York, che di solito sono meno che cruciali, a questo punto diventano un passaggio fondamentale: Sanders è nato a New York, e la città è molto liberal e giovane. Al contempo, Hillary può forse contare sulle cospicue minoranze e sul fatto di essere stata senatore. Si vota il 16 aprile.

No, grazie, no. Io non lecco la poltrona del figlio di Riina

Notizia del giorno: Salvo Riina ha scritto un libro. Il figlio del boss, trascinato in un vortice ispiratorio ha deciso di regalarci un libro, lui: il figlio di quello che disconosce il congiuntivo. E la notizia viene data con grande giubilo perché in un mercato editoriale che anela alle scoreggine di un qualsiasi presunto omicida per passione o di una ricetta giusta per il cognome, una biografia del capo dei capi, di Riina ‘U Curtu, il capo dei capi di Cosa Nostra scritta dal figlio Salvo potrebbe essere un botto.

Un botto, poi, che brutta parola. Quando hai a che fare con il figlio di un uomo che gocciola sangue ogni virgola che sbagli rischia di essere una coltellata a qualche famigliare vittima di mafia ma lui, Salvo Riina figlio di Totò, ha deciso di dare alle stampe comunque questo conato di quadretto famigliare che sembra la famiglia del Mulino Bianco con un cadavere nascosto nella macina. Racconta di lui e papà sulla poltrona. Ci racconta.

«La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due… Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche… Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Così Salvo Riina ha raccontato il giorno in cui Giovanni Falcone divenne carne morta.

Ti aspetteresti almeno che l’intervistatore, il curatore o l’editore a questo punto siano corsi a prenderlo per il bavero, a scrollargli quella faccia da bullo per costringerlo davvero a dirci che almeno per un secondo l’ha inteso quanto quel suo cognome sia intriso di vigliaccheria e dolore. E invece no.

«Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare» dice Salvo nella sua intervista a Giovanni Bianconi de il Corriere della Sera dimenticando che quella famiglia non è mai esistita. Caro Salvo, quel tuo padre, no, non è mai esistito. È esistito un Riina che fa rima con la merda, sì, ma quel padre che vorresti propinarci come ostia laica per la tua prima confessione è una tua storta, un’invenzione, una perversione.

Io non la lecco quella poltrona dove facevate finta di essere una famiglia sulle tombe delle famiglie degli altri.

Buon mercoledì.

Pena di morte: molto lavoro per i boia nel 2015, cresce il numero di esecuzioni

epa04971824 Human rights activists hold placards during a rally against death penalty, in Peshawar, Pakistan, 10 October 2015. International rights groups and local activists have been pushing the government to reintroduce the moratorium, calling capital punishment a breach of fundamental rights. Government of Pakistan resumed hangings in December after the Taliban stormed a school and killed 150 people, mostly students. Around 240 convicts have been executed since then, the Human Rights Commission of Pakistan said. The country for years had a moratorium on executions, leaving over 8,000 death row prisoners according to the Interior Ministry. EPA/ARSHAD ARBAB

La colpa è probabilmente della geografia, ma l’Italia sembra avere una particolare propensione a fare affari con i Paesi rispettosi dei diritti umani. O almeno questa è l’idea che uno si fa a leggere i dati contenuti nel rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2015. L’anno passato sono state messe a morte 1634 persone, il primo, dopo 25 anni, nel quale il numero di esecuzioni è cresciuto. La buona notizia è che in quattro Paesi la pena capitale è stata abolita per ogni fattispecie di reato e che, con i nuovi arrivi, i Paesi abolizionisti sono 102, più della metà, quelli dove non si manda a morte nessuno, nonostante la pena capitale non sia stata cancellata dal codice, sono ancora di più.

L’aumento del numero di esecuzioni segnala dunque un inasprimento della repressione in alcuni Stati. Che vuol dire? Partiamo dai dati. I Paesi che guidano questa classifica poco onorevole sono stati, nell’ordine, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Stati Uniti d’America. Per la Cina non si conosce il numero, essendo segreto di Stato, ma certo è che le esecuzioni sono state migliaia. Forse in lieve calo.

L’Iran ha messo a morte almeno 977 prigionieri, rispetto ai 743 del 2014, la maggior parte dei quali per reati di droga. L’Iran è rimasto uno degli ultimi paesi al mondo a eseguire condanne a morte inflitte a minorenni al momento del reato, in palese violazione del diritto internazionale: almeno quattro nel 2015. Il Pakistan ha proseguito nella scia di omicidi di Stato iniziata nel dicembre 2014 con la fine della moratoria sulle esecuzioni di civili. Nel 2015 sono stati impiccati oltre 320 prigionieri, il maggior numero mai registrato da Amnesty International. In Arabia Saudita le esecuzioni sono aumentate del 76 per cento rispetto al 2014, con almeno 158 prigionieri messi a morte. La maggior parte delle condanne è stata eseguita mediante decapitazione ma in alcuni casi è stato impiegato anche il plotone d’esecuzione. Talvolta, i cadaveri dei condannati a morte sono stati esibiti in pubblico. Amnesty International ha registrato un considerevole aumento delle esecuzioni anche in altri paesi, tra cui Egitto e Somalia.

Se si esclude l’Iran, dove la mano ferma del boia è anche figlia di una politica aggressiva e “religiosa” – e sbagliata – contro la diffusione e il commercio di droga, il Pakistan, l’Arabia Saudita e l’Egitto sono casi in cui repressione e pena di morte camminano di pari passo: casa Saud usa il reato di apostasia come strumento per mettere a morte (o condannare) oppositori sciiti o persone che si distinguono per pensare ed esprimersi in maniera libera. Come ad esempio il poeta palestinese Ashraf Fayadh, condannato a morire perché un testimone lo avrebbe sentito bestemmiare. Dell’Egitto non c’è neanche da dire: la stessa condanna a morte non eseguita (e ancora passibile di appello) all’ex presidente Morsi è un esempio ottimo di uso politico della pena capitale.

Inutile ricordare come l’Italia sia il primo partner commerciale dell’Egitto – con il quale ha i suoi problemi anche per il caso Regeni – e come venda armi, violando le sue stesse leggi, all’Arabia Saudita. In Pakistan c’è invece un piccolo paradosso illustrato dal caso di Mumtaz Qadri, ex poliziotto ucciso dal boia a fine marzo: questi aveva a sua volta ucciso un governatore che non aveva abolito una legge che cancella la pena di morte in caso di blasfemia. Qadri, insomma, è stato ucciso per essersi opposto con la violenza alla riduzione dell’ambito in cui si applica la pena di morte. La sua esecuzione ha scatenato proteste violente in tutto il Paese da parte delle formazioni politiche più radicalmente islamiste.
In Cina, Iran e Arabia Saudita, si emettono condanne a morte per reati – tra cui traffico di droga, corruzione, adulterio e blasfemia – che non sono considerati tra i “reati più gravi” per i quali il diritto internazionale lascia spazio all’uso di questo strumento estremo.


I Paesi dove la pena di morte è stata abolita sono Figi, Madagascar, Repubblica del Congo e Suriname – mentre in Mongolia è stato adottato un nuovo codice penale abolizionista che entrerà in vigore nel corso di quest’anno. In generale, se si eccettua il ritorno delle esecuzioni in Ciad, dove sono stati fucilati dieci appartenenti a Boko Haram, in Africa si registra un netto calo, opposto il caso del Medio Oriente.

epa04956658 An anti death penalty protester holds a sign outside the Georgia Diagnostic Prison before the scheduled execution by lethal injection of Kelly Gissendaner in Jackson Georgia, USA, 29 September 2015. Gissendaner, convicted of plotting to kill her husband, would be the first woman executed in Georgia in 70 years. EPA/ERIK S. LESSER
Una attivista contro la pena di morte protesta davanti a un carcere della Georgia (Usa) dove verrà eseguita una condanna

[divider] [/divider] L’appello di Amnesty per salvare la vita a un blogger nel braccio della morte in Mauritania

Mohamed Mkhaïtir è un blogger di 32 anni che ha osato criticare coloro che usano la religione per emarginare alcuni gruppi sociali nel suo paese, la Mauritania. Un post pubblicato su Facebook gli è costato una condanna a morte, il 24 dicembre 2014. Il giudice del tribunale di Nouadhibou, nel nord-ovest della Mauritania, ha accusato Mohamed di apostasia per aver “parlato con leggerezza” del profeta Maometto.

Arrestato il 5 gennaio 2014, ha passato i primi sei mesi della sua detenzione in isolamento, senza servizi igienici, neanche una doccia.
Mohamed Mkhaïtir si è pentito due volte del suo atto, sia prima che durante il processo, spiegando che il suo testo era finalizzato a denunciare quelli che usano la religione per sminuire alcune categorie sociali e non destinato a criticare il profeta Mohamed o la religione islamica. Sebbene l’articolo 306 del codice penale preveda misure di clemenza in caso di pentimento, la corte non ha mostrato alcuna indulgenza.
I suoi avvocati hanno presentato l’appello contro la sua condanna a morte nel dicembre 2014. Ad oggi deve ancora essere fissata una data per l’udienza di appello.

Firma qui per salvare la vita di Mohamed Mkhaïtir!

Primarie Usa, cosa dicono le T-shirt pro Sanders, Clinton, Cruz e Trump sullo stato della campagna

epa05172875 Hillary Clinton supporters handout t-shirts as caucus goers arrive to make their presidential candidate preference in the Nevada Democratic Presidential candidates caucus at Rancho High School in Las Vegas, Nevada, USA, 20 February 2016. Former Secretary of State Hillary Clinton and US Senator Bernie Sanders are locked in a tight race for the Nevada Caucus which will be held on 20 February 2016. EPA/MIKE NELSON

Gadget per tutti i gusti, per tutte le tasche e per tutti i gusti. Lo store online della campagna di Hillary Clinton stravince e c’è un motivo. Gli altri inseguono o si differenziano (o non hanno un’offerta dignitosa). Ma le pagine dove i candidati vendono i loro oggetti promozionali sono un buon punto di osservazione per capire a chi parlano, cosa cercano e che idea della campagna hanno in testa, raccontano un sacco di cose su come e quanto le campagne sono state pensate. E gettano anche una luce sinistra sulle primarie repubblicane, nelle quali ci si insulta anche attraverso le magliette.

L’esempio migliore è quello della T-shirt anti-Trump della campagna di Ted Cruz. “Sono andato alla Trump University e tutto quel che ho ottenuto è questa T-shirt “recita la scritta. L’università di Trump è uno dei mille modi che il miliardario star Tv ha avuto per spillare soldi alla gente, una specie di corso per il successo. Ma questa è un’altra storia, il fatto interessante è che il senatore conservatore per finanziarsi venda una maglietta che definisce il miliardario di New York un truffatore. Normalmente questo tipo di cose si fanno fare ad altri: nel 2000 un gruppo che sosteneva Bush mandò in onda uno spot Tv che parlava della figlia adottiva (musulmana, si diceva) dello sfidante John McCain. Bush prese le distanze e raccolse i risultati. Ma nel 2016 i toni all’interno della grande tenda repubblicana sono degenerati.

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Nello store di Cruz c’è anche la categoria “abbigliamento da caccia”, fatta per i fan delle armi (Cruz ama farsi fotografare armato), così come anche la paletta per rivoltare le bistecche del barbecue e il frigorifero portabile. Patria, fucile e famiglia che mangia proteine. E poi c’è l’adesivo da auto: “Questa macchina gira solo a destra”. Spiritoso. Menzione speciale per la felpa natalizia qui sopra. Chi non vorrebbe averne una?

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Non particolarmente accattivante il materiale di Trump: la campagna non è organizzata per creare un brand. Il brand è Trump stesso e sulle magliette c’è scritto il suo nome e, al massimo, c’è un “veterani per Trump” o una bandiera americana. L’unico oggetto di culto è il cappellino rosso con la scritta: Make America Great Again, quello che il buon Donald indossa quasi sempre – Ted Cruz ne vende uno bianco con la scritta “Make Trump Debate Again”, fate partecipare Trump a un dibattito, un riferimento al fatto che Donald ha scelto di non partecipare a un dibattito televisivo.

Lo store di Kasich non è nemmeno da prendere in considerazione, è quello di Trump senza nemmeno uno slogan. Anche questo è un segnale: Kasich non punta a fare di sé una figura seguita e sa bene di non avere dei fan potenziali disposti a spendere soldi per una maglietta. E quindi non ne investe.

Il fronte democratico è diverso. Per due ragioni: la prima è che il partito è più orgoglioso di sé stesso e fatto di molti gruppi organizzati a cui piace potersi identificare (afroamericani per Sanders, ispanici per Hillary, donne, lavoratori sindacalizzati e così via); la seconda è che tra i democratici c’è più voglia di esserci e identificarsi. E di ripetere il successo della campagna Obama, che inondò il pianeta di loghi ed effigi.

A proposito di quella campagna, Hillary Clinton ha fatto di tutto per imitarla fin dall’inizio: colpisce è proprio il tentativo di fare una campagna coinvolgente e cool in laboratorio.
Lo store di Hillary è pieno di materiale da quasi subito, da molto prima che Sanders diventasse una vera minaccia a quella che si era certi sarebbe stata una marcia trionfale. E allora modelli di ogni razza, millennials – che votano per Sanders – barbe e tagli alla moda. E poi T-shirt disegnate da stilisti di grido come Tory Burch e Marc Jacobs, magliette e felpe con il logo della campagna arcobaleno, con l’autografo di Hillary, felpe stile baseball e quelle stato per stato. Il cuscino “Il posto di una donna è la Casa Bianca” è forse il gadget migliore tra tutti, ed è andato esaurito già due volte. Il logo della campagna funziona su T-shirt, come pure lo slogan Make her history (“Fai la storia, facendola entrare nella storia come prima presidente donna” è il concetto). Ma manca l’anima. Quella non si crea mettendo dei creativi bravi attorno a un tavolo.

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L’anima ce l’hanno le magliette di Bernie Sanders. Che riprendono innegabilmente il logo di Obama 2008, semplice, pochi colori (il bianco rosso e blu in qualche forma ci sono sempre) e regalano un paio di perle. La prima è la T-shirt super cool ma un po’ troppo arzigogolata disegnata da Shep Fairey, che otto anni fa disegnò quella di Obama che divenne un’icona mondiale, ripresa in tutte le salse possibili. La seconda perla, esaurita da qualche settimana, è quella (gialla qui sotto) che richiama un manifesto di Roosevelt e del New Deal. Originale e con un bel messaggio. Sul retro di tutte le magliette di Bernie c’è scritto “Join the political revolution, unisciti a una rivoluzione politica”. Il messaggio è chiaro ed è su quello che si punta, i millennials in questo caso arrivano per conto loro, non c’è bisogno di individuare una formula magica e sulle loro foto. E infatti la rete è piena di gadget non ufficiali di Bernie in vendita.

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Le magliette repubblicane sono tutte orgogliosamente Made in America, quelle democratiche sono Made in America, ma anche in fabbriche dove c’è il sindacato. Quelle di Bernie sono di cotone biologico, quelle melange di Hillary sono metà cotone e metà poliestere, le prime sono più di sinistra, le seconde durano più a lungo.

Angelino Alfano e gli sbarchi di siriani che verranno

Il ministro degli Interni Angelino Alfano ha rilasciato un’intervista al Financial Times chiedendo all’Europa di occuparsi degli immigrati che, dopo l’accordo con la Turchia, potrebbero decidere di passare per la Libia o per l’Albania per entrare nel continente. Alfano si preoccupa anche dei siriani «che se non vorranno rimanere in Turchia cercheranno di passare per la Libia». Obbiettivo del ministro? Fare in modo che l’Europa e la Commissione si impegnino a cercare degli accordi simili a quello turco con altri Paesi africani. Tradotto significherebbe deportare le persone direttamente nei Paesi di origine, visto che il Paese terzo dal quale i nuovi flussi migratori dovrebbero (o potrebbero arrivare) non sono sicuri.

Alfano spera, scrive il quotidiano economico globale, che la nascita di un nuovo governo libico possa creare le condizioni per una repressione del traffico di esseri umani e che la Commissione raggiunga un accordo quadro per la riammissione di persone con i Paesi terzi africani: «Con la Turchia c’è stata la volontà politica e le risorse si sono trovate». Il problema è mettersi d’accordo su cosa sia un Paese sicuro. Con l’Albania, intanto, Roma ha già parlato per prevenire l’eventuale apertura di una rotta migratoria che dalla Grecia o dalla Turchia passi per il Paese delle aquile.

Alfano parla di campi di prigionia «dai quali i migranti non possano scappare» e di stazioni lungo le rotte migratorie che spieghino ai migranti che verranno rispediti indietro. Infine, il ministro, e qui ha ragione, critica l’Europa per l’assenza totale di impegno nell’applicare il piano di redistribuzione di rifugiati (non immigrati irregolari) all’interno dei 28 Stati membri: «Per adesso parliamo di numeri da condomino» dice il ministro. Non ha tutti i torti: la ricollocazione doveva riguardare 160mila persone e in 4-5 mesi se ne sono spostate alcune centinaia.

E su tutto il resto? Alfano si preoccupa per il rischio (quello che lui percepisce come tale) di un’apertura di rotta libica per i siriani. Bene. Difficile capire cosa c’entri questa possibilità con le prigioni e gli accordi con la Libia. L’accordo con la Turchia che pure è illegale e sbagliato – è frutto di una situazione precisa: Siria e Turchia condividono un confine, i rifugiati entrano in massa da anni e sono presenti a centinaia di migliaia in quel Paese, è una situazione che si è già determinata e che a sua volta produce l’afflusso verso le isole greche. Se una parte di quelli ammassati in Turchia o Libano provassero a passare per la Libia la cosa sarebbe molto diversa. Pensare – o raccontarsi – che il nuovo governo libico possa riuscire a mettere in atto misure per contenere un eventuale flusso è essere molto fantasiosi. Oppure essere disposti a lasciare i profughi siriani in balia degli eventi.

Del resto Alfano era già parte di una maggioranza di governo che trattava sui migranti con la Libia di Gheddafi – altro che Paese terzo sicuro. Quanto alle prigioni da cui non fuggire, non è granché come idea, specie se si tiene conto del fatto che la discussione sulla sicurezza dei Paesi terzi e di quelli da cui le persone partono è una discussione con fondamento: il Pakistan è un Paese sicuro? E l’Eritrea? L’Etiopia? La Nigeria? Certo, tra le persone che passano il mare, verso Italia e Grecia ci sono anche migranti economici, ma l’emergenza alla quale assistiamo riguarda i rifugiati, se non fossimo in presenza dell’emergenza siriana Alfano non verrebbe intervistato sul tema immigrazione dal Financial Times. Questo il ministro finge di non saperlo. Come finge di non sapere che secondo le leggi internazionali, la questione dei siriani non si pone nemmeno: sono persone in fuga dalla guerra e hanno diritto a chiedere asilo nel continente.

Il ministro ha bene in testa che l’Europa non sarà d’aiuto e che i Paesi confinanti sono pronti a chiudere le loro frontiere come hanno già fatto con quelle greche. Alfano, quindi, un po’ agita lo spettro immigrazione, un po’ lancia proposte non realizzabili e un po’ mette le mani avanti. Quando in estate ci saranno flussi in entrata cospicui dal mare, Roma cercherà probabilmente di contrattare soluzioni sottobanco con quelle che a quel punto saranno le autorità libiche e tuonerà contro l’Europa e Bruxelles come un Salvini qualsiasi.

 

 

Migranti aggrediti a Palermo. Dov’è il limite tra prepotenza e razzismo?

«C’è un clima terribile. È caccia al gambiano», mi scrive Francesco Bellina, un collega di Palermo. Lo scrive da Palermo dove ieri sei italiani hanno aggredito tre ragazzi di nazionalità gambiana. Anche se i giornali, in un primo momento, hanno titolato «rissa» o peggio ancora di «rissa tra extracomunitari».

Ma quella di sabato 2 aprile, a Palermo, «non è stata una rissa tra ‘extracomunitari’», denunciano Forum Antirazzista palermitano, Laici comboniani di Palermo,Arci Palermo,L’altro Diritto Sicilia,Centro Salesiano Santa Chiara,Associazione Diritti e Frontiere (ADIF),Federazione Cobas, Borderline Sicilia,Borderline-europe, Ciss,Osservatorio Discriminazioni Razziali Noureddine Adnane, Emmaus Palermo, Addio Pizzo, Libera Sicilia, Itastra Scuola italiano per stranieri. Anzi, è di un vero e proprio raid che si tratta: contro tre giovani migranti, compiuto dai sei palermitani di Ballarò. E si è concluso con un colpo di pistola, che ha ferito alla testa Yusupha Susso, 21 anni, colpevole di aver reagito agli insulti. Yusupha adesso è in coma farmacologico all’ospedale Civico di Palermo.

«Stavamo camminando tranquillamente, all’improvviso si sono avvicinati in due e senza alcun motivo hanno iniziato ad insultarci. Poi, sono passati alle mani», ha raccontato alla polizia uno degli aggrediti. Agli insulti Susso reagisce con calci e pugni e i due palermitani si allontanano per tornare coi rinforzi. Intorno alle 18 – non lasciano dubbi le immagini di una telecamera – Rubino si aggira per via Maqueda a Palermo, pistola alla mano. Per l’aggressione, gli investigatori della squadra mobile diretta da Rodolfo Ruperti hanno fermato Emanuele Rubino, 28 anni, un pregiudicato palermitano, accusato adesso di tentato omicidio e che secondo gli inquirenti apparterrebbe a un gruppo malavitoso di Ballarò che gestisce vari traffici illeciti, dallo spaccio alla prostituzione.

«Il clima è terribile», ci aveva avvisati il collega Bellina. Questo è l’ennesimo raid contro la comunità del Gambia, e spesso a queste aggressioni non segue una denuncia. Il questore sdrammatizza: «Non c’è nessun movente di tipo razziale dietro il tentato omicidio avvenuto sabato pomeriggio in via Maqueda. C’è solo la volontà da parte di un soggetto di imporre e dimostrare il suo dominio sul territorio», ha detto Guido Longo. «Una sparatoria di sabato pomeriggio, in via Maqueda, non è un fatto normale e dimostra la strafottenza di un certo gruppo di soggetti che pensano di avere il dominio sul territorio ma si sbagliano».

«Yusupha è stato vittima di un’aggressione violenta», è la tesi del suo avvocato Vincenzo Gervasi, legale di parte civile: «Lui e i suoi amici sono stati aggrediti da alcuni ragazzi. Hanno deciso di non fuggire ma di affermare la propria dignità ed hanno messo in fuga gli aggressori. Questi vistisi a mal partito sono andati a chiamare il boss in salita del quartiere che ha sparato a freddo quattro colpi. Questi sono i crudi fatti».

Poche settimane fa, su Left, abbiamo raccontato di un’assemblea spontanea messa in piedi proprio dai ragazzi di nazionalità gambiana sbarcati in Sicilia alla fine della quale hanno redatto un manifesto. Lo ripubblichiamo.

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Palermo, quartiere Ballarò. In un giorno di fine febbraio, ventinove giovani gambiani bussano alla porta di un circolo Arci, il “Porco rosso”, nel cuore della città. Sono sbarcati in Sicilia alla fine di dicembre 2015 e, appena arrivati a Lampedusa, si sono visti consegnare una lettera dalle forze dell’ordine: respingi- mento differito con intimazione a lasciare il territorio italiano entro sette giorni. Un passaggio all’hotspot di Pozzallo e nessuna possibilità di fare richiesta d’asilo. I ventinove si ritrovano abbandonati a loro stessi, per strada. E decidono di andare a Palermo. Dove, tra le varie vicissitudini, incrociano i ragazzi del “Porco rosso” e mettono in piedi un ciclo di assemblee autogestite: «L’assemblea gambiana al Porco rosso – si legge nel manifesto – è un’opportunità per Palermo, per poter ascoltare alcuni di noi che sono preparati a parlare in difesa dei nostri diritti umani. Il Gambia è dominato da un dittatore (Jammeh) dal 1994, è un Paese senza diritti umani, libertà di parola, senza buone cure sanitarie e dove Jammeh sfrutta le risorse del nostro Paese». In bocca al lupo all’assemblea gambiana al Porco rosso.

Circolo Arci Porco Rosso", Ballarò, Palermo. Fausto Melluso, membro dell'esecutivo provinciale Arci Palermo, insieme ad alcuni ragazzi gambiani
Circolo Arci Porco Rosso”, Ballarò, Palermo – le foto sono di Francesco Bellina

Il grande baratto con Erdogan e il tradimento dell’Europa, parla Demirtas, leader della sinistra turca e curda

epa05111315 Selahattin Demirtas (2-L), Leader of the Democratic People's Party (HDP) attends a rally to mark the 9th death anniversary of the Turkish-Armenian journalist Hrant Dink in front of the Agos newspaper in Istanbul, Turkey, 19 January 2016. Dink was shot dead in 2007 outside his Istanbul office. An ultra-nationalist sympathizer Ogun Samast, who was 17 at the time of the killing, was sentenced to 23 years in prison for having committed the murder. EPA/SEDAT SUNA

L’accordo Ue-Turchia? «Una vergogna. Di più: un tradimento di quei principi a cui, almeno a parole, l’Europa dice ancora di ispirarsi». Erdogan? «Non si comporta da presidente, ma da califfo». Lo scorso novembre Salahattin Demirtas è sfuggito a un attentato: «Se sono in vita è solo perché quel giorno viaggiavo su un’auto blindata e i vetri hanno fermato i proiettili. Altri non hanno avuto questa fortuna. In Turchia chi si batte per i diritti delle minoranze e la democrazia, quella vera, rischia la vita». Colpito ma non affondato. Ammaccato ma ancora determinato a proseguire la sua battaglia di libertà. Il Davide curdo contro il Golia di Ankara. Una lotta che sembra impari, ma «se si affrontano solo le battaglie che si ha la certezza di vincere, sarebbe troppo facile. Noi curdi sappiamo che nessuno ci ha mai regalato niente e che ogni conquista è il frutto di un sacrificio individuale e collettivo». L’“Obama curdo” Demirtas, 43 anni, è il leader carismatico del Partito democratico del popolo (Hdp), l’alternativa progressista al “regime” islamista di Recep Tayyp Erdogan: alle elezioni dello scorso novembre l’Hdp ha ottenuto il 10,7% (5,1 milioni di voti), superando per la seconda volta la soglia di sbarramento.

In questa intervista concessa in esclusiva a Left, Demirtas motiva un possente j’accuse contro l’Europa e il «grande tradimento» consumato contro l’«altra Turchia» e, soprattutto, contro «i milioni di profughi siriani che Erdogan continuerà a usare come arma di ricatto nei confronti dell’Europa». Quanto alla frattura in campo curdo, Demirtas annota: «Con la brutale repressione, Erdogan punta alla radicalizzazione della lotta dei curdi. Vorrebbe far passare l’idea che per resistere non esiste altra possibilità che la via militare. Non dobbiamo cadere in questa trappola, dividerci fa il gioco di chi vuole soggiogarci».

Dopo un reiterato braccio di ferro, l’Unione Europea ha raggiunto un accordo con la Turchia. Dal suo punto di vista, cosa rappresenta l’intesa tra Bruxelles e Ankara?
È un colpo pesantissimo inferto a quanti in Turchia si battono per la democrazia, quella vera, alle donne e agli uomini che, a rischio della vita, ogni giorno si oppongono alla dittatura di Erdogan e chiedono il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Perché la democrazia è anzitutto questo: il rispetto delle minoranze e non la dittatura della maggioranza.

E l’Europa?
L’Europa ha chiuso gli occhi di fronte ai crimini commessi dal regime, non solo contro i curdi ma nei confronti dei tanti che si battono per la libertà di stampa, che non si piegano alle “verità” di Stato, che denunciano la strategia della tensione che ha provocato centinaia e centinaia di vittime innocenti. E tutto questo nell’illusione che Erdogan fermi i flussi migratori, diventando il “Gendarme” dei confini dell’Europa. Oltre che un’illusione si tratta di un baratto vergognoso sulla pelle di milioni di persone che verranno deportate in Turchia.

Un baratto che l’Europa ha pagato a caro prezzo: 3 miliardi di euro. Insisto: Lei ha espresso la sua amarezza, ma se dovesse definire in una parola l’atto compiuto dall’Europa, quale userebbe?
Tradimento. Il tradimento di quei valori e principi di libertà che sono stati a fondamento dell’Europa comunitaria. Ogni giorno, in Turchia, va in scena la repressione più brutale: gli arresti di massa, i giornali indipendenti chiusi con la forza, i giornalisti imprigionati con l’accusa di “attività sovversiva” per aver difeso la libertà d’informare e non di spacciare come verità le bugie di Stato. Ecco perché l’Europa non ha voltato le spalle a noi, ma a se stessa.


 

Questo articolo continua sul n. 14 di Left in edicola dal 2 aprile

 

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Se ci fosse la multinazionale dei fragili

Ci si mette poco a capire che il segreto di quelli capaci di stare senza etica sta soprattutto nella capacità di accorparsi. Stanno insieme dilaniati da burroni caratteriali, opposte visioni, discordanti ideali e pure poi si stringono a braccetto come le coppie che non si sono tradite mai. Ho passato degli anni a chiedermi cosa fosse quella colla che alla fine tiene i gretti più o meno negli stessi greggi poiché  frequentano gli stessi pascoli e si conciano tutti simili da signori per gli identici salotti.

Ci dicono, ora, che non dobbiamo temere gli accorpamenti troppo potenti perché creano il lavoro, fanno bella l’economia. Ci dicono insomma che l’1% va tenuto a bada perché ha in mano la fetta più grande della ricchezza del mondo e se si arrabbia finisce che decide di tagliare anche l’ultima razione di riso. Ci dicono insomma che essere tanti ma slegati, incapace di incollarsi, senza questo allenamento a fare muro e accorparsi alla fine rende vano il lamento dei propri bisogni. Così loro, gli accorpati incollati dalla passione dei soldi per i soldi, alla fine riescono pure ad accusarti, di non essere come loro.

Io personalmente non ho nulla contro le multinazionali: adoro il grammelot di centinaia di accenti che ci sono nelle sale operatorie di Emergency, mi sento infinitamente piccolo di fronte a chi riesce restare umano in tutti i continenti del mondo, impazzisco per la nazionale jamaicana di bob, ascolto quelli che ci descrivono come siano tutti a forma di abbracci gli abbracci del mondo, mi indigno di indignazione multinazionale a leggere la marca multinazionale delle pallottole nei cadaveri degli Stati mondo, amo gli amori che sono giusti e sbagliati a nemmeno un’ora di fuso orario di distanza, impazzisco per come Mujica mi ha raccontato il tempo quando mi ha detto che è il vero unico soldo anche se dimenticato e l’ha detto in una lingua che non conoscevo ma sono stato subito d’accordo, ascolto esterrefatto tutti quelli che suonano e senza saperlo hanno imparato l’unica lingua che suona uguale in tutti gli angoli del mondo, mi emozionano i bisogni transnazionali come la paura o la fame e sogno di imparare a non avere peli nel cervello come ci riescono i bambini da qualsiasi parte siano arrivati prima di incontrarsi.

Io non ho niente insomma contro i fili che legano spazi così larghi scavalcando le nazioni. Per niente. Ma mi chiedo dove sia finita ad esempio la multinazionale dei fragili, se non sia il caso di ingaggiare un lobbysta, di trovare qualcuno che si metta tutto bello severo fuori dalle porte delle commissioni parlamentari a ricordare che esistono, se non si debba eleggere un portavoce per dire che davvero non è mica una guerra contro nessuno, che in fondo nemmeno ci si infastidisce più di tanto per i gorghi di persone incollate con gli assegni ma almeno per ricordare che insomma, quelli che hanno in mano il macinino per dosare l’uguaglianza ecco uno si aspetterebbe che guardassero un po’ anche di qui. Mi dico che sarebbe bello domani svegliarsi con tutti i telegiornali che ci dicono che la multinazionale dei fragili è riuscita ad inserire a notte tarda un emendamento per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.

Pensa che scoop, un’intercettazione così.

Buon martedì.

Povero Renzi…

Sfortuna, incapacità di scegliersi i collaboratori, una velocità tale della parola da non tener dietro al pensiero? Fate voi. Certo a Renzi è andata proprio male oggi in direzione. Aveva appena finito di fare il Maramaldo: “quanto a Tempa Rossa i magistrati di Potenza fanno indagini, come le Olimpiadi ogni 4 anni, 2000, 2004, 2008, ma non arrivano mai a sentenza”.

Come dire: loro perdono tempo mentre io (Renzi) sblocco l’Italia. L’aveva appena detto che le agenzie di stampa battono la notizia: tutti condannati per Tempa Rossa, dai due ai 7 anni. Si tratta dell’inchiesta del 2008 coordinata dall’allora pubblico ministero a Potenza Henry John Woodcock. Un’inchiesta, ora confortata dalla condanna di tutti gli imputati, che mostra da quanto tempo Total abbia messo in piedi comitati d’affari per condizionare le scelte degli amministratori e orientare le gare d’appalto, assicurarsi vantaggi e profitti.

Povero Renzi, ma possibile che nessuno l’abbia avvertito? E poi che dire? Proprio mentre parlava alla direzione del suo partito, Maria Elena Boschi veniva sentita dai magistrati per l’ultimo filone dello scandalo Tempa Rossa.  Se fossimo negli Stati Uniti – o nel Canada del giovane, e molto di sinistra, premier Trudeau – Renzi verrebbe preso di mira, sbeffeggiato e tormentato da ogni giornalista, di destra, di sinistra o indipendente che sia. Ma siamo in Italia e qualche TG in prima serata non ha neppure collegato le notizie, quella del premier che parlava delle inchieste su Tempa Rossa e quella della sentenza nel processo a Tempa Rossa. Ma che volete? La direzione Pd è politica, perdio, se ne occupa il cronista parlamentare,  che c’entra con la giudiziaria e i cronisti? Complimenti