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Se la Costituzione è un lecca lecca

No, mi spiace, no, non c’entra nulla il tifo, la posizione politica, l’essere turboinnovatori spinti o conservatori e non c’entra nemmeno l’essere poco inclini ad apprezzare questo cumulo che vorrebbe essere un governo. Si tratta di politica, in senso stretto (che poi è larghissimo) dell’avere cura dell’impianto costituzionale di un Paese, il nostro, che non ha ceduto in decenni di sotterfugi e tentativi di golpe ma che porta le ferite di una democrazia stressata da affaristi, puttanieri e combriccole assortite.

Partiamo dall’inizio: “la riforma che tutti aspettano” è la frase con cui Renzi, sorci e Verdini ci dicono che questa “è la volta buona” e già così lo slogan rimbomba di tutto il vuoto che contiene. Eppure non è vero che nessuno ha voluto cambiarla la Costituzione, anzi: sono in molti ad avere desiderato uno spostamento di poteri dal Parlamento al Governo o peggio ancora al leader e forse ci si ricorda che già una volta un referendum ha sventato un assalto.

Ci dicono che la riforma è necessaria per la governabilità e anche in questo caso sopraggiungono i ricordi peggiori: governabilità non significa “facilità di governare” ma “capacità di governare” e in un Paese frantumato in diverse posizioni (stiamo parlando di un’Italia in cui il partito di maggioranza è l’astensionismo, per chiarirsi) la varietà di sensibilità di cui tenere conto non sono nient’altro che le regole imposte dalla democrazia. Se avessimo adorato il feticcio della governabilità non ci sarebbe stata la Resistenza, ad esempio.

Dicono che il “bicameralismo perfetto” doveva essere superato già nelle intenzioni dei padri costituenti e ci dicono una cazzata di proporzioni mastodontiche: l’idea di semplificare la struttura parlamentare era sostenuta dall’esigenza di mantenere la centralità del Parlamento (Ingrao diceva “democrazia di massa”) e quel progetto non ha nulla a che vedere con una riforma che accentra i poteri locali e per di più conferisce più poteri al Governo. I padri costituenti li prenderebbero a calci, questi.

Ci dicono che questa riforma prevede finalmente “il taglio dei costi” e che chi si oppone vuole mantenere i privilegi della classe politica. E usano la carota come cerotto di una riforma immonda pensando di usare il populismo (loro, che gridano “populisti” agli altri) per giustificare un progetto di indebolimento della democrazia. Sappia Renzi (e i suoi) che gli basterebbe confezionare una legge ad hoc sul taglio degli stipendi, senza incollarla ad altre nefandezze, per avere tutto il nostro supporto, tutta la nostra energia e, in questo caso sì, la stragrande maggioranza degli elettori.

Dice Renzi che chi è contro la riforma in realtà lo fa contro di lui. Ed è lo stesso Renzi che ha personalizzato un referendum (costituzionale, per intendersi) come medaglia d’onore da appuntarsi al petto contro i suoi avversari gufi. Renzi, insomma, lamenta una dinamica che lui stesso ha creato e interviene al Parlamento con la solita arroganza paninara di chi vive la politica come viatico dell’affermazione personale. Gioca a carte con la Costituzione, ne fa il lecca lecca da esibire davanti ai compagnetti più sfigati e poi se ne lamenta. Il bue che dice cornuto all’asino.

Buon mercoledì.

«Rifugiati in Italia abbandonati a loro stessi in decine di campi informali»

Foggia, Italia, Dicembre 22, 2015. Soulayman, Mali, 21 anni nel ghetto di Rignano Scalo, dove vive.

Ex fabbriche, palazzine abbandonate, parchi, stazioni ferroviarie. Li vedete dai treni, passando in auto, o da lontano, sulla sponda di un fiume. E magari non vi viene in mente che quel campo informale è il frutto della mancanza di accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo da parte delle istituzioni italiane. Medici Senza Frontiere ha provato a capire come sia messo il sistema mettendo al lavoro un equipe di ricercatori propri e dell’università di Palermo

Risultato? Un rapporto che potete leggere qui e una conclusione: il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo che sbarcano in Italia non funziona. Non è una novità: il nostro Paese non ha una legge specifica sull’asilo e, tradizionalmente, non esiste un sistema capace di coordinare le necessità delle decine di migliaia di persone che arrivano da noi in fuga dalla guerra o da persecuzioni politiche da parte delle autorità. La crisi siriana non ha fatto che aggravare una situazione già pessima – momenti simili l’Italia li aveva vissuti negli anni della guerra nella ex Jugoslavia. Oggi? C’è un piano, ora che il governo di Vienna sceglie di chiudere le frontiere e si rischia un nuovo affollamento di persone? E che fine faranno le persone a cui negli hotspot viene negato sbrigativamente l’accesso alle procedure di richiesta di asilo?

Bari, Italia, Dicembre 2015. All'interno del Ex Set.
Bari, Italia, Dicembre 2015. All’interno del Ex Set.

Roma, Italia, Dicembre 17, 2015. Rifugiato del Eritrea stende i panni sul tetto dell'occupazione di via Tiburtina.
Roma, Italia, Dicembre 17, 2015. Rifugiato del Eritrea stende i panni sul tetto dell’occupazione di via Tiburtina.

Medici Senza Frontiere ha provato a monitorare la situazione, scoprendo – o meglio, verificando – quanto rifugiati e richiedenti asilo vivano in condizioni difficili, fuori dal sistema di accoglienza o gestiti da organizzazioni che non hanno esperienza.

Msf ha individuato 27 siti dove vivono dove vivono almeno 50 persone, una parte importante grandi. Qui la maggior parte delle persone che vivono sono soprattutto africane: Somalia, Ghana, Eritrea e poi Pakistan e Afghanistan.

2014-2015 sbarcati circa 220mila persone, tra quesiti più di 150mila hanno fatto domanda di asilo, quasi tutti fuori dall’Italia.

Il sistema di accoglienza ordinario dispone di 30mila posti e questo ha determinato la apertura di decine di luoghi di ospitalità per 80mila posti gestiti da enti che non hanno alcuna esperienza nella gestione dei rifugiati. A giudizio di Msf è proprio il sistema straordinario che determina una espulsione dal sistema di accoglienza, generando situazioni informali e difficili.

distribuzione rifugiati

Ancora numeri: 30mila son i transitanti che vogliono aggirare Dublino e chiedere asilo in altri Paesi europei, poi ci sono i richiedenti asilo in Italia, che hanno diritto ad avere l’accoglienza mentre aspettano che il loro status venga verificato. A volte fino a tre mesi, ad esempio a Udine, nei sottopassaggi della stazione, davanti al cimitero o sulle rive dell’Isonzo di Gorizia – un ragazzo pakistano è morto nelle acque del fiume. A Torino nei giardini dietro a Palazzo Reale o alla stazione di Crotone.

Il gruppo più grande di persone incontrate in questi insediamenti è quello dei rifugiati riconosciuti che scaduti i termini di accoglienza vengono messi in strada senza paracadute. Tra le persone con queste caratteristiche monitorate da Msf uno su quattro non ha mai avuto posto in accoglienza, mentre 3 su 4 sono fuori. A Foggia si vive in un vecchio areoporto a pochi metri dal centro di accoglienza del Ministero dell’Interno, 350 rifugiati vivono in uno scambio continuo tra il centro ufficiale e il campo fuori. A Torino in 1200 vivono in palazzine dell’ex villaggio olimpico.

In metà dei siti monitorati mancano acqua e luce, molti dei rifugiati riconosciuti non sono iscritti al Sistema sanitario nazionale pur avendone diritto e due terzi non hanno un medico di base o al pediatra – per questo Msf chiede che si svincoli, per i rifugiati, l’assegnazione del medico di base dalla residenza, visto che queste persone si spostano spesso per lavoro o per insediarsi in pezzi delal loro comunità.

Foggia, Italia, Dicembre 22, 2015.
Foggia, Italia, Dicembre 22, 2015.

SILOS_TRIESTE Ahmad Siraq

Bari, Italia, Dicembre 19,  2015. Nsia, Sud Sudan, 32 anni, taglia i capelli ad un suo amico all'interno del Ex Set dove vive.
Bari, Italia, Dicembre 19, 2015. Nsia, Sud Sudan, 32 anni, taglia i capelli ad un suo amico all’interno del Ex Set dove vive.

Perché l’accoglienza viene fatta male? Perché le organizzazioni che gestiscono i siti di accoglienza straordinaria non hanno esperienza, non fanno corsi, non lavorano all’integrazione, non sanno spiegare i diritti e i doveri alle persone. Insomma, offrono un letto e poi ciao. E così persone che se avviate alla nuova vita potrebbero adattarsi, trovare lavoro, integrarsi, passano mesi in un limbo di marginalità. C’è il rischio che i centomila giunti quest’anno che oggi vivono all’interno del sistema di accoglienza, finiscano, uscendo dai centri, in questi insediamenti informali. Specie, come si diceva, ora che arriva l’estate, la rotta balcanica è chiusa e alcuni Paesi chiudono le frontiere.

Serve, assolutamente, che l’Italia garantisca e ampli il sistema di accoglienza strutturato e che si garantisca l’assistenza sanitaria a tutti e allargare l’assistenza ai siti informali: «se ne conosce l’esistenza, continueranno ad esistere, tanto vale lavorare anche in questi» Loris de Filippi, direttore di Msf Italia. Oppure, aspettiamoci qualche grande e piccola Idomeni sparsa per l’Italia, come del resto capitò in piccolo a Ventimiglia lo scorso anno. Con le organizzazioni umanitarie a svolgere il lavoro delle istituzioni. Non sarebbe sussidiarietà, ma lavarsene le mani.

Localizzazione siti informali

Questa sera il rapporto verrà discusso in un evento presso l’ex fabbrica occupata “Metropoliz” a Roma (via Prenestina 913 alle 20.00)

 

Morto Casaleggio, qual è il futuro del Movimento 5 stelle?

Non è, non è stata, una persona banale. Studioso dell’innovazione ha provato a innovare. Sia come imprenditore che come politico. Del blog di Beppe Grillo -il sacro blog, come lo chiama Crozza- se ne occupa, insieme al figlio Davide, dal 2005. Lo ha trasformato in una macchina da guerra: capace di far soldi proponendo contenuti gratuiti, capace di tenere insieme, di orientare, di animare un partito di massa quale è il Movimento 5 Stelle.

Scorrendo l’intervento che svolse, il 6 settembre del 2014 a Cernobbio, si trovano tutti, i temi della sua riflessione: disintermediazione, free economy, globalizzazione, educazione in rete. Era convinto che internet offrisse straordinarie possibilità di partecipazione a grandi masse e, al tempo stesso, segnasse una sorta di reductio ad unum. Il movimento è stato costruito così. Tentando di porre questioni semplici, alle quali non fosse difficile dare una risposta e dunque scegliere; ma una volta scelto, l’obbligo di seguire, senza remore né dubbi, come si trattasse di un individuo collettivo.

Una critica, quella di Casaleggio, più radicale di quella di Lenin alla democrazia rappresentativa: i parlamentari si definiscono portavoce, portavoce dei cittadini in parlamento senza autonomia del mandato. Ma qual è il punto di vista dei “cittadini” cui i portavoce dovranno attenersi? Semplice: quello espresso, grazie alle tecnologie messe a disposizione dalla Casaleggio Associati, dagli iscritti certificati al Movimento. Altro che teoria dell’avanguardia o centralismo democratico!

Con Casaleggio il Movimento non è avanguardia, è il Paese, stesso, perché ne raccoglie malessere, idee, speranze e le trasferisce nella rete. Qui si forma, di volta in volta, la decisione politica: la procedura diventa garanzia della autenticità e, dunque, di inappellabilità della scelta. Chi non ci sta, è fuori.

E ora? Beppe Grillo l’altro fondatore, l’altro console del Movimento 5 Stelle, è tornato al teatro. Forse perché deluso dall’aver trovato tra i cittadini in rete meno eccellenze di quante non ne immaginasse, e più donne e uomini assai normali, talvolta banali. Forse anche perché Grillo sapeva della malattia dell’amico ed era per lui fuori discussione di poter proseguire in politica senza di lui.

Per i parlamentari dei 5 stelle, i quali, sì, va bene, sono solo portavoce, ma sono loro dopotutto che formano il “direttorio”, è arrivato il momento, obbligato e doloroso, di fare il salto nell’età adulta. Proprio quando potrebbero doversi misurare con responsabilità di governo, se non dell’Italia, almeno di Roma. Compito non sarà facile, gli mancherà il consiglio di Gianroberto, quello di Davide, il figlio, non avrà lo stesso carisma.

Chi è questo premier?

Ma chi è questo premier? Che a un referendum, quello sulle trivelle, dice che non si deve votare – e si prende perciò la reprimenda del presidente della Consulta – mentre su un altro – quello costituzionale – annuncia che se non lo vincerà smetterà di far politica. Chi è questo premier che si è rifiutato di discutere – quando sarebbe servito discutere – del suo progetto di riforma, affidandone la scrittura a trattative riservate – fra “decisori” come Finocchiaro e Boschi, forse con lobbisti ad assistere – imponendo in aula emendamenti canguro, che cancellavano tutti gli altri, e invece vorrebbe discutere, ora che emendare più non si può, alla camera dove la maggioranza è scontata grazie a un premio ottenuto da un altro che egli pur pretende di avere “spianato”, e grazie a una legge dichiarata, dalla Corte, incostituzionale? Le opposizioni lo hanno lasciato solo in aula. Non per sottrarsi al confronto – come egli dice – ma per ricordare come ormai si sappia cosa siano le sue riforme. Un uomo solo al comando. Meno controlli democratici e più trattative riservate con i gruppi d’interesse. Una democrazia semplificata che funziona addirittura meglio se la maggioranza degli elettori non va a votare.

Con educazione, forse con dispiacere, i commentatori gli voltano le spalle. Ezio Mauro sulle trivelle: “l’astensionismo invocato rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste appagate dalla loro vacuità”. Federico Geremicca sulla Stampa: il tempo passa, le cose cambiano e non è quasi mai vero che il potere logora chi non ce l’ha. Anche il potere logora: soprattutto se accentrato e gestito in maniera spiccia, diciamo alla fiorentina”. Michele Ainis entra, per i lettori del Corriere, nel merito della riforma costituzionale: “La Costituzione: 47 articoli cambiati da un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum) annullata poi dalla Consulta”. “Il potere: la riforma lo concentra, lo riunifica, una sola camera politica, un Governo più stabile e più forte e uno Stato solitario al centro della scena”. L’efficienza: una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente”. “Le garanzie: con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta. Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura. E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi”. “Partecipazione: aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum”. Insomma, votate meno, votate in pochi!

Il voto un dovere, sul referendum l’effetto Consulta, scrive Repubblica. Ma il Fatto fa i conti e avverte che l’astensione rischia di vincere domenica. Gli italiani si faranno fare. Il presidente della Repubblica no. Rifiuta di correggere Renzi ma fa sommessamente sapere che eserciterà quel diritto, che fonda la cittadinanza, e il 17 aprile e andrà alle urne. Secondo Giannelli, “Renzi è preoccupato e la Boschi lo consola”. Sapete come? Gli dice “stai sereno”! Intanto un dossier accusa di “spese folli” il capo di stato maggiore della marina, indagato dai giudici di Potenza nel contesto dell’affare Tempa Rossa. Intanto gli austriaci avvertono che costruiranno un muro (anti migranti) al Brennero. Intanto gli economisti – anche quelli di corte – cominciano a temere che la ripresa resterà dello zero-virgola anche nel 2016. Intanto l’amico al Sisi ci sta regalando solo bugie sulla tortura e l’assassinio di Giulio Regeni. E l’amico Erdogan, guardia carceraria dei profughi che non vorremmo, presenta il prezzo dei suoi servigi e pretende che in Germania censurino la satira che lo offende. Intanto servono altri soldi – sei miliardi – per salvare le banche italiane che – si diceva – scoppiassero di salute. Intanto le pensioni rischiano di venire usate come bancomat: ieri era il contributo di solidarietà, domani il DEFinanza potrebbe prevedere il taglio di quelle di reversibilità.

Ma chi è questo premier? Finora votato soltanto da un milione 895mila elettori del Pd, e affinché facesse il segretario non il Presidente del Consiglio. E un uomo che quando si trova in difficoltà, invece di provare a capire, sceglie di asfaltare il primo che gli capita a tiro, meglio se sindacalista o “gufo”. É un uomo fragile, che non accetta le sconfitte e perciò è costretto sempre a sfidare: sotto un altro. Ha una grande dote: nessuno come lui è abile nella politica come tattica, nessuno vede meglio le debolezze dell’altro, nessuno intuisce tanto bene la linea di minor resistenza nella quale passare. Ma ha pure un grande limite: gli manca una visione del futuro, vive alla giornata. Quando non sa che dire mormora che è “70 anni che se ne parla”. E che ora basta: tocca a lui decidere. Come non si sa, in quale direzione non lo sa.

Renzi parla da solo e conferma: vuole un plebiscito

Una veduta dell'Aula della Camera durante la replica del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per la discussione sulle linee generali del disegno di legge sulle Riforme Costituzionali, Roma, 11 aprile 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Matteo Renzi non ha seguito il dibattito parlamentare, offendendo così le opposizioni che – tutte, anche se pure loro a ranghi ridotti – hanno abbandonato l’aula quando è toccato al premier intervenire, alla fine di una lunga giornata di dibattito francamente stanco e prevedibile, con i deputati del Pd a sottolineare «la svolta storica» e le opposizioni, dai 5 stelle a Sinistra italiana, dalla Lega a Forza Italia, ad elencare i limiti ormai stranoti della riforma, soprattutto se combinata con l’Italicum e il suo premio di maggioranza. È così che la riforma costituzionale si avvicina al suo sesto sì, al quarto voto conforme, senza modifiche, e quindi poi al referendum.

Non ha seguito il dibattito, Renzi, ma poi si è presentato con un discorso – scritto – «nel merito», dai toni che ha evidentemente immaginato istituzionali, «per rispondere alle venticinque osservazioni dei deputati». L’effetto è comunque polemico, però, perché non rinuncia alle stoccate, Renzi, come quando dice che «c’è qualcuno più a suo agio fuori dal parlamento, evidentemente» e aggiunge che è un bene visto che «ci si ritroverà dopo le prossime elezioni».

Teatrino a parte, comunque, (buona la scena di Renzi che alla buvette prende il caffè, finalmente arrivato, ma entra in aula solo quando è ormai quasi finito pure l’ultimo intervento del dem Sanna), il centro politico del passaggio parlamentare è la conferma che arriva dallo stesso Renzi: quello sulla riforma sarà un referendum sul suo governo, oltre che sulla riforma Boschi. E se perde va a casa. «La nascita di questo governo», dice in aula, «è dovuta al fatto che quello precedente era in una situazione di stagnazione. L’accettazione dell’incarico di premier è stata subordinata all’impegno preso col presidente della Repubblica di realizzare una serie di riforme. Nell’eventualità in cui non ci fosse un riscontro popolare, sarebbe responsabile trarne le conseguenze».

Renzi si gioca tutto, insomma, come dice testuale, e punta, lui ma soprattutto Maria Elena Boschi, sul sì, da esprimere magari con una convocazione più ravvicinata, e non a ottobre, che ottobre è lontano e tra trivelle (cominciano a impensierirsi, a palazzo Chigi), banche e amministrative chissà in che stato ci si arriva. Si gioca tutto, sapendo che a quel referendum «l’affluenza non conta», dice ancora, «e non importa con che percentuale: basta vincere». Si gioca tutto sapendo che il partito alla fine lo sosterrà, minoranza dem compresa: d’altronde voteranno anche questo ultimo passaggio e sarebbe curioso si battessero poi per il no l referendum. Anche Enrico Letta, dal ritiro parigino, a La Stampa dice che voterà sì: non ci sono più le faide di una volta.

La salute delle donne è a rischio in Italia. La nuova condanna del Consiglio d’Europa

ABORTO: NAPOLI, PARTITO CORTEO '194PAROLEPERLALIBERTA''. MANIFESTAZIONE NAZIONALE IN DIFESA DELLA LEGGE 194. Una immagine della manifestazione nazionale in difesa della Legge 194, svoltasi oggi a Napoli . CIRO FUSCO /ANSA /JI

Il Consiglio d’Europa condanna l’Italia perché la legge sull’interruzione di gravidanza è disapplicata a causa degli elevatissimi tassi di obiezione di coscienza fra i medici ginecologi, mentre i pochi non obiettori vengono discriminati. «Dopo la condanna del nostro Paese, due anni fa, per la mancata applicazione della legge 194, il comitato europeo per i diritti sociali ha accolto il ricorso della Cgil, in difesa degli operatori sanitari non obiettori. E’ una decisione importante, che sottolinea come la violazione del diritto alla salute delle donne sia strettamente intrecciata con le discriminazioni subite dal personale sanitario non obiettore», commenta il medico ginecologo Anna Pompili, da sempre impegnata in corsia e sulla scena pubblica per la piena applicazione della Legge 194.

Troppo spesso, infatti, negli ospedali in cui la quasi totalità degli operatori ha sollevato obiezione di coscienza, «i non obiettori sono costretti ad occuparsi quasi esclusivamente di interruzioni di gravidanza, con gravi penalizzazioni per la loro professione e per le loro carriere». Le altissime percentuali dell’obiezione di coscienza che in alcune regioni arrivano al 90 per cento dei ginecologi «comportano inoltre lunghi tempi di attesa, con un aumento del rischio di complicazioni, tanto più alto quanto maggiore è l’epoca gestazionale e del rischio professionale per gli operatori stessi», denuncia Anna Pompili.

«Ma il ministro Lorenzin – sottolinea la ginecologa – che si prepara a celebrare la prima giornata dedicata alla salute delle donne, festeggia la riduzione del numero degli aborti, per la prima volta al di sotto dei 100mila l’anno, ignorando gli allarmi che da più parti ci parlano del rischio del ritorno alla clandestinità. La stessa Ministra ci dice arrogantemente che quel 35 per cento degli ospedali italiani nei quali non è possibile abortire non sono un problema e non meritano la visita dei suoi famosi ispettori. Non sarà allora che i clandestini sono loro, la ministra e il suo governo che inasprisce in maniera inaudita le sanzioni per gli aborti clandestini, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze per la salute delle donne?» E non sarà tempo , per le donne italiane, di uscire dall’isolamento delle mura domestiche entro le quali si manda giù un pugno di pasticche comprate via internet, ritrovando invece la forza di una risposta collettiva che sappia imporre il rispetto del diritto alle scelte riproduttive? Magari insieme agli operatori sanitari che hanno scelto di occuparsi a tutto tondo della loro salute, e che chiedono rispetto per la dignità di questo loro lavoro».

«Ancora una volta l’Italia conquista maglia nera d’Europa in tema di diritti» constata amaramente Mirella Parachini, ginecologa e attivista dei Radicali italiani. «La decisione del Consiglio d’Europa dimostra quello che diciamo da tempo, che negli ospedali del nostro Paese siano sistematicamente violati sia il diritto alla salute delle donne, che non riescono ad accedere all’interruzione di gravidanza, che i diritti dei medici non obiettori che ogni giorno, con il proprio lavoro, cercano di far rispettare la legge 194». Violazioni che il Consiglio d’Europa aveva già denunciato con una sentenza emessa due anni fa.

Anche allora L’associazione Luca Coscioni aveva contribuito con osservazioni depositate al Comitato per i diritti Sociali del Consiglio di Europa. «Nonostante ciò – rileva il segretario dell’associazione, l’avvocato Filomena Gallo – non solo il governo ha continuato a fare finta di nulla, ma dal 15 gennaio scorso ha perfino inasprito le multe per le donne che, non riuscendo a interrompere la gravidanza per mancanza di medici non obiettori, sono costrette a rivolgersi a strutture non accreditate o a medici non autorizzati. Un provvedimento che riporta l’Italia a un clima pre-194 e non considera che il ritorno dell’aborto clandestino è diretta conseguenza del dilagare dell’obiezione di coscienza».

Per questo l’associazione Coscioni con l’Aied avanza alcune proposte concrete come la creazione di un albo pubblico dei medici obiettori di coscienza, il varo di una legge quadro che definisca e regolamenti l’obiezione di coscienza, concorsi pubblici riservati a medici non obiettori per la gestione dei servizi di interruzione di gravidanza, l’impiego di medici “a gettone” per sopperire urgentemente alle carenze dei medici non obiettori e infine una deroga al blocco dei turnover nelle Regioni dove i servizi di interruzione di gravidanza sono scoperti. In modo, conclude Filomena Gallo da «garantire la piena applicazione della legge 194, senza ledere il diritto delle donne che decidono d’interrompere la gravidanza e quello dei medici che decidono di obiettare non è difficile: Un obiettivo raggiungibile, basta volerlo fare».

Il nuovo metadone è l’ottimismo. Obbligatorio

E niente, anche oggi Renzi ci ha detto che se l’Italia va male è colpa (anche) di quelli che ne parlano male. Sempre la stessa storia: i ristoranti pieni, i meridionali piagnoni, la mafia che ci rovina a parlarne, il rimboccarsi le maniche e il tutto andrà meglio se noi ce ne convinciamo. Ormai è una minestra scaldata per ogni stagione: chi non è almeno barzotto del semplice fatto di essere italiano è una franchigia che frena la crescita. Lo diceva Silvio, lo diceva Craxi, lo diceva Monti e ora lo sibila anche Matteo.

La narrazione sotto vuoto spinto pretende che nessuno sporchi l’ottimismo dell’ottimistatore e così mentre la cricca petrolifera si mangiava mezza sedia di un ministro, mentre la Rai si trasforma in pro loco di Cosa Nostra, mentre l’Europa spara ai profughi, mentre le banche ipotecano una generazione, mentre l’Egitto si lecca le dita con i resti di Regeni, mentre Verdini ritocca la Costituzione, mentre Napoli si sveglia con un morto al giorno, mentre (ancora) magistrati e politici si beccano con la leggerezza dei monelli giù in cortile, mentre ci anestetizziamo alla corruzione, mentre dilaga l’analfabetismo funzionale noi dovremmo comunque essere felici perché spremiamo il vino più buono del mondo.

E attenzione: sia lodato il vino e la bellezza e la bontà del Paese e siano lodate (laicamente) le tante intelligenze ma davvero è una buona mossa di marketing politico abbinare il vino alla disoccupazione? Davvero continuiamo a permettere a qualche abbindolatore guascone di decidere le priorità di un Pese? Ma non è un Paese al cloroformio quel Paese che decide l’agenda della stampa secondo le bizze dei suoi poteri? Possibile che un cin cin rimbombi più delle lacrime urlate di rabbia in aula dal padre di una vittima di mafia (e forse di Stato) come Vincenzo Agostino?

No, niente. Siamo stronzi noi che vorremmo scrivere di lobbisti al posto delle bollicine e che osiamo addirittura chiedere spiegazioni. Un pubblico ammaestrato: la cittadinanza più desiderata dalla classe politica è un popolo di elettori in batteria che applaudono fessi. È colpa nostra se non riusciamo a convincerci che tutto vada bene. Loro, eroici, governano nonostante noi. E l’ottimismo è il nuovo metadone: distribuito a sacchi per evitare disordini.

Buon martedì.

Sorpresa, la “Terza via” ci ripensa: è ora di investire risorse pubbliche in infrastrutture

Sorpresa, la Terza via si specchia nel mondo post grande crisi del 2008 e scopre che le ricette adottate non funzionano e non danno risposte ai problemi della stagnazione permanente, delle diseguaglianze e della precarietà: «decine di milioni della middle class, anche quella alta, che non sanno se riusciranno mai a pagare abbastanza contributi da costruirsi una pensione, persone che entrano nel mercato del lavoro senza prospettive di costruire una carriera a causa di quella che viene eufemisticamente definita “gig economy” per la sua instabilità costante, neolaureati che tra se e la possibilità di darsi una stabilità, comprarsi una casa, hanno una montagna di debiti accumulati per l’università». A descrivere così lo stato delle cose in un saggio di grande interesse è Daniel Alpert, autore nel 2013 di “The Age of Over Supply” che di mestiere fa l’investitore e che assieme a Nouriel Roubini e altri aveva scritto di come e quando sarebbe arrivata la crisi del 2008.

L’interesse del saggio di Alpert sta in due elementi non disgiunti tra loro: i contenuti e il luogo in cui è stato pubblicato. In estrema sintesi il saggio spiega come, in un’epoca di eccesso di offerta (di merci, ma soprattutto di manodopera), per creare lavoro non bastano politiche tradizionali. Il luogo di pubblicazione è però la cosa più sorprendente: il saggio è pubblicato sul sito del think-tank Third Way, Terza via, che si dice moderato e difende l’approccio della sinistra anni 90 all’economia. Ecco, il pensatoio della Terza Via scopre che le ricette utilizzate in questi anni non sono adeguate ai tempi che viviamo e, come ha ironizzato il Washington Post, immaginano politiche “alla Sanders”.

Vediamo un po’. Il dato è semplice: con la globalizzazione e l’ingresso di alcune economie gigantesche nei mercati, l’offerta di manodopera è eccessiva e i lavoratori mal pagati del mondo competono con quelli americani – il discorso vale per l’Europa quasi allo stesso modo – portando verso il basso i salari. Non solo, la ripresa dell’occupazione è molto fatta da lavoro poco specializzato e mal pagato in settori come il commercio e i servizi alla persona – rigidi in termini di domanda, non smettono di creare lavoro, ma non ne creano di buono. Le imprese, poi, sostiene Alpert, non investono in progetti ad alta intensità di manodopera specializzata: il settore americano di punta in questa fase storica è quello della tecnologia informatica, ma per creare software serve un numero relativamente basso di programmatori. Preparati o meno, competitivi o meno, i lavoratori della middle class americana che non eccellono nel loro mestiere, quelli che non escono dalle università migliori, rischiano di non trovare mai un lavoro adeguato. E vivendo la precarietà e l’insicurezza, tendono anche a risparmiare quel che guadagnano, deprimendo così i consumi. Un quadro non dissimile a quando capita in Italia, con la differenza che l’economia Usa è tutto sommato dinamica, quella italiana molto meno.

Cosa fare allora? Costruire ponti. O meglio, fare in modo che più persone ottengano posizioni lavorative ben pagate. Un risultato che, secondo Alpert non si ottiene abbassando le tasse o tenendo bassi i tassi di interesse: due strade percorse che non hanno cambiato la dinamica. Alpert ritiene che nemmeno l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora – una campagna portata avanti in molti Stati, che ha ottenuto successi, l’ultimo dei quali nello Stato di New York – sarebbe abbastanza. In effetti i 15 dollari l’ora del salario minimo contribuiscono a mettere più soldi in tasca sono al segmento più basso del mondo del lavoro. La soluzione è dunque far crescere la domanda interna attraverso un programma di infrastrutture – che del resto negli Usa sono spesso vecchie e cadenti. Facciamolo dire a lui:

La strada per Alpert è «Assorbire manodopera in eccesso attraverso una rivitalizzazione intensa delle nostre infrastrutture comuni attraverso la spesa pubblica. Ci sono chiaramente molte altre cose che il governo degli Stati Uniti potrebbe fare per migliorare il quadro economico interno e il benessere dei cittadini: migliorare l’equità fiscale, sviluppare un sistema di assistenza sanitaria universale, razionalizzare le relazioni con alcuni partner commerciali, far crescere l’accesso all’istruzione superiore, proseguire nella riforma delle istituzioni finanziarie, aumentare il salario minimo, e ristrutturare ulteriormente dei debiti rimasti dalla bolla degli anni 2000. Alcuni di questi passi sono controversi, altri meno, ma più o meno tutti avrebbero qualche effetto benefico sul modo incrementale l’economia e le persone degli Stati Uniti. Ma nessuno invertirebbe in maniera drastica il ridimensionamento della ricchezza nelle mani del lavoro».

La proposta di Alper suona molto New Deal: spendere più di mille miliardi di dollari in 5 anni in trasporti, energia, acquedotti e così via. Suona un po’ socialista, ma non lo è. Idee diverse ma simili le avanzava a febbraio su Foreign Affairs (e oggi sul suo sito) Larry Summers, Segretario al tesoro di Bill Clinton e capo del consiglio economico di Obama nei primi anni della sua presidenza. Nemmeno Summers è un estremista di sinistra, anzi, assieme a Robert Rubin è l’architetto di alcune delle deregulation che hanno contribuito a creare alcune delle bolle finanziarie degli ultimi decenni – «ci sbagliammo» disse Clinton nel 2010 parlando dell’assenza di regole imposte sui derivati. Eppure, parlando di «Stagnazione secolare» e fotografando la situazione, Summers torna a parlare con insistenza di Keynes suggerendo una riforma del sistema fiscale e qualsiasi misura che «aumenti la quota di reddito di quella porzione di popolazione con propensione al consumo». Summers parla di aumento dei salari minimi, incentivi alla sindacalizzazione, superamento della dipendenza dai combustibili fossili- ovvero investimenti in ricerca in quella direzione. Negli Usa del 2016, che pure hanno superato la crisi occupazionale e di crescita da qualche anno, si discute animatamente e seriamente di queste cose anche in ambienti che venti anni fa proponevano ricette diverse dalle attuali. Ora guardate a Bruxelles e chiedetevi che fine abbia fatto quella miseria che era il piano Junker.

I britannici d’Europa fanno ricorso all’Alta Corte: vogliono votare al referendum sulla Brexit

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C’è una legge in Gran Bretagna per cui i cittadini che non risiedono nel Paese da più di 15 anni non sono più ammessi al voto. Perciò, i 2,2 milioni di britannici che vivono e lavorano nel resto d’Europa (quasi la metà dei 5 milioni di britannici all’estero) non potrà partecipare al referendum che pone la domanda sull’uscita del Regno di Sua Maestà Britannica dall’Ue che si terrà il 23 giugno. Per questo un gruppo di espatriati britannici ha deciso di fare ricorso all’Alta Corte anglosassone. Se i giudici supremi decidessero di ammettere al voto questi cittadini, i loro nomi andrebbero aggiunti al registro degli elettori. E il referendum potrebbe essere rinviato. Il risultato è atteso per la terza settimana di aprile.

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Il veterano Harry Shindler

«I nostri clienti vengono penalizzati per aver esercitato il loro diritto Ue alla libera circolazione», rende noto in un comunicato stampa l’avvocato Richard Stein. Escludere queste persone dal voto, secondo gli avvocati, è illegale perché viola i diritti sanciti dall’Unione europea. Del resto, uscire o no dall’Unione è una decisione che influenza non poco la vita dei britannici nel resto d’Europa, si pensi all’assistenza sanitaria e alle pensioni, per esempio.
Al momento, i giudici supremi hanno accolto il ricorso dello studio legale londinese Leigh Day. Del gruppo di promotori fa parte anche un veterano di guerra di 94 anni: Harry Shindler, che oggi vive in Italia, non è nuovo all’argomento. Contro la legge in questione ha già presentato una petizione alla Corte europea per i diritti umani (Cedu): «È assolutamente antidemocratico», ha tuonato il veterano dalle colonne del Telegraph: «Quando l’Ue è stata istituita ci hanno detto che potevamo andare a vivere ovunque volevamo e a lavorare in tutta Europa. Nessuno ci aveva detto che avremmo anche perso il diritto di votare».

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Il primo ministro David Cameron

La legge contestata – la “regola dei 15 anni” – è stata approvata durante il governo laburista di Tony Blair. E non a caso i Conservatori, nel programma del 2015, avevano preso l’impegno di liberarsene. Ma la promessa proposta di legge di un voto a vita, nonostante le pressioni degli attivisti, non si è mai materializzata. Intanto Cameron fa arrabbiare anche i suoi compagni di partito, spendendo 12 milioni in brochures anti-Brexit. E, sulla questione, non intende certo fare passi indietro: «Non ho alcuna intenzione di scusarmi per aver deciso di inviare questa informativa alle famiglie perché è giusto che il pubblico conosca la posizione del governo e le sue motivazioni». E ha chiuso il discorso con altrettanta chiarezza: «Il governo non è neutrale su questo referendum. Noi riteniamo che uscire dall’Europa sarebbe una pessima decisione, per l’economia, il lavoro, gli investimenti, le finanze delle famiglie e per le università».

Anche il Teatro Romano di Fiesole diventa location per feste private

Sposarsi nell’anfiteatro romano di Fiesole costerà 4mila euro. Si aggiunge così un altro bene culturale che andrebbe ben tutelato alla lunga lista delle location per cerimonie di lusso. Anche la Toscana che vanta una delle tradizioni più illustri e secolari nella tutela cede al noleggio di beni pubblici da parte dei privati. Per fare cassa. Nonostante nel Codice dei Beni culturali e del paesaggio si legga: «I beni culturali non possono essere adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione». E in barba all’articolo 9 della Costituzione che lega la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico alla ricerca e alla conoscenza.

Così dopo Roma (Il circo Massimo location per matrimoni e comunioni) e molte altre città storiche anche Fiesole si mette su piazza affrendosi a chi voglia andare a nozze davanti al sindaco, o a un suo delegato, e anche organizzare il ricevimento da 500 invitati dentro l’area del Teatro Romano di Fiesole e più invitati, o da 150 se ci si accontenta dell’area antistante il Museo archeologico. Poco importa se questo terrà fuori il turismo internazionale. Lo ha deciso all’unanimità il consiglio comunale stabilendo anche la tariffe: 4 mila euro per tutti, fiesolani e non. A tramutare la tradizione toscana della tutela che risale all’età dei Comuni e al civilissimo Costituto di Siena, come è noto, fu Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze, noleggiò il ponte Vecchio alla Ferrari, facendone un ring per una festa vip e privatissima, impedendo così a turisti e cittadini di godere di un bene pubblico considerato patrimonio universale. Poi grazie alla sciagurata legge Ronchey che apriva i musei ai privati, la soprintendenza del polo museale fiorentino allora guidata da Cristina Acidini arrivò anche a varare un tariffario ufficiale dedicato all’affitto di sale ed aree dei musei di Firenze, dalla galleria degli Uffizi a quella dell’Accademia, da Palazzo Pitti a tutti gli altri spazi del Polo fiorentino.

Fu stilato nel 2013 in una riunione tecnica dedicata alla realizzazione del “prezzario” che si tenne in prossimità delle ferie a fine luglio, quando la città si stava svuotando e l’attenzione scemamava. I costi? Anadavano da una ‘base’ di 3mila euro fino a 130mila per gli Uffizi, aperti anche ad improbabili sfilate di moda.