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A un passo dalla vita artificiale. Il nuovo successo di “Mister genoma” Craig Venter

Un importante passo avanti verso la vita artificiale è stato compiuto ancora una volta da “Mister genoma” ovvero dallo scienziato californiano Craig Venter. Insieme al collega Clyde Hutchison è riuscito ad ottenere in laboratorio un genoma batterico composto da appena 473 geni, il numero minimo sufficiente perché la cellula possa vivere e riprodursi. Lo studio pubblicato su Science fa compiere un grosso passo avanti alla ricerca pubblicata dallo stesso team nel 2010. Quel lavoro, che suscitò un grandissimo interesse e molte discussioni in giro per il mondo, adesso arriva a compimento nel Craig Venter Institute a La Jolla.

Già sei anni fa Venter con il suo gruppo era stato capace di descrivere la costruzione della prima cellula batterica sintetica in grado di autoreplicarsi. In questo modo dimostrando che i genomi possono essere disegnati al computer, assemblati in laboratorio e poi trapiantati in una cellula ricevente per dar vita a qualcosa di nuovo: una cellula autoreplicante guidata dal genoma sintetico. Ma quello era solo un modello teorico, oggi non è più fantascienza: il team californiano è arrivato davvero a sintetizzare una cellula minima, contenente solo i geni necessari per sostenere la vita biologica nella sua forma più semplice, “confezionando” il microbo Syn 3.0. Un risultato importante perché potrebbe aiutare a comprendere la funzione di ogni gene essenziale in una cellula.

Nella versione finale – registrata come JCVI-syn3.0 – la cellula sintetica è dotata di un genoma più piccolo di quello di qualsiasi cellula, in grado di replicarsi in natura in modo autonomo, conosciuta fin qui. Ma non tutto è ancora chiaro della cellula sintetica disegnata dal team di scienziati guidati da Venter. Le precise funzioni biologiche di circa il 31 per cento dei geni di JCVI-syn3.0 rimangono ancora da scoprire. Tuttavia, diversi potenziali omologhi di un certo numero di questi geni sono stati trovati in altri organismi. E questo suggerisce che codifichino proteine universali con funzioni ancora da determinare.

In ogni caso la piattaforma JCVI-syn3.0 rappresenta uno strumento utile per indagare sulle funzioni fondamentali della vita biologica. Lo studio insomma è molto importante innanzitutto sul piano conoscitivo. «Si tratta di uno studio straordinario che ci consente di comprendere meglio la vita», dice il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’università di Roma Tor Vergata. «Non c’è nulla da temere, non parliamo di vita umana creata in laboratorio». Un ulteriore passo avanti ha dichiarato il noto genetista all’agenzia Agi :«Sarà riuscire a “vestire” i geni. Il Dna che Craig Venter e Clyde Hutchison hanno utilizzato, infatti, è “nudo”. Il Dna funziona rispetto a come “si veste”. In pratica: il fegato e il polmone hanno lo stesso Dna, ma ciò che lo copre lo fa funzionare da fegato o da polmone. Questo complesso meccanismo, che noi chiamiamo epigenetica, è tutto ancora da esplorare». @simonamaggiorel

Attenzione: il Ttip nuoce alla salute

Un primo effetto potrebbe esserci già stato: quando la Scozia ha cercato di introdurre per legge un prezzo minimo per le bevande alcoliche (0,63 euro per unità di alcol) in modo da scoraggiarne l’abuso ed evitare danni alla salute di migliaia di persone, sono insorte, come un sol uomo, non solo le industrie, ma anche la Commissione di Bruxelles e i governi di molti singoli Paesi dell’Unione che, ricorda un recente report della London school of economics, hanno trascinato in tribunale il governo di Edimburgo sostenendo che la norma ostacola il libero scambio in Europa. La causa è ancora in corso presso la Corte di Giustizia di Strasburgo.

Ma che questo e altri casi analoghi vi siano o meno legati, una cosa è certa: il Transatlantic trade and investment partnership (Ttip), il trattato in corso di negoziazione dal 2103 per integrare i mercati di Stati Uniti e Unione europea, abbattendo i dazi doganali e le barriere non tariffarie, avrà conseguenze non desiderabili sulla salute pubblica.

Questo è, per lo meno, ciò che affermano in un articolo pubblicato sulla rivista Epidemiologia & Prevenzione due ricercatori italiani, Roberto De Vogli e Noemi Renzetti, che lavorano all’estero: il primo negli Stati Uniti, presso la Scuola di medicina della University of California di Davis, e la seconda in Gran Bretagna, presso il Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dello University College London della capitale inglese. Sono quattro, secondo De Vogli e Renzetti, le categorie di fattori di rischio o protezione per la salute su cui il Ttip potrebbe avere un significativo impatto: il consumo di tabacco e, appunto, di alcol; l’accesso ai farmaci e alla sanità; la dieta e l’agricoltura; la salute ambientale. A questi, sostengono De Vogli e Renzetti, va aggiunto un ulteriore rischio: quello per la democrazia.

Certo, quello denunciato dai due ricercatori italiani è un pericolo potenziale. Non è detto che ogni minaccia si realizzi. Tuttavia conviene prendere in esame la loro analisi, perché il Ttip avrà effetti su quasi un miliardo di persone che producono il 50 per cento della ricchezza mondiale. Il trattato di libero scambio tra i due mercati separati dall’Atlantico e da una serie di barriere, tariffarie e normative, è stato evocato per rilanciare l’economia dopo la grande crisi iniziata nel 2007. Secondo il Center for economic policy research di Washington la rimozione di quelle barriere regalerà all’Europa 120 miliardi di euro l’anno (lo 0,5 per cento del Prodotto interno lordo dell’Unione) e 95 miliardi di euro agli Stati Uniti (lo 0,4 per cento del Pil). Per la verità ci sono altri centri di ricerca, come il Global development and environment Institute della Tufts University di Medford (Massachusetts) che la pensano diversamente: il Ttip potrebbe determinare una diminuzione invece che una crescita del Pil. Ma non è l’impatto economico che De Vogli e Renzetti intendono analizzare, bensì quello sanitario (e democratico). E lo fanno tenendo in conto la storia di altri trattati di libero commercio, come il Nafta (il trattato di libero scambio tra Usa, Canada e Messico), e una vasta letteratura internazionale.

Prendiamo proprio il caso del Nafta, che a partire dalla data della sua entrata in vigore, il 1994, ha favorito, tra l’altro, la penetrazione in Messico di soft drink e fast food. Ebbene, tra il 1996 e il 2006 il consumo di bevande ad alto contenuto di zucchero in Messico è raddoppiato tra i giovani e triplicato tra le donne. Oggi il Paese più meridionale del Nord America è al secondo posto al mondo per consumo pro-capite di soft drink e tra i primi al mondo per prevalenza di diabete. Non è escluso che, con il Ttip, possa sbarcare in Europa carne di bovini o polli trattati con ormoni. In breve: secondo De Vogli e Renzetti le clausole Ttip in merito ai rischi associati alla dieta e ai prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento – inclusi quelli associati ad additivi, contaminanti, tossine, agenti patogeni, ormoni – recepiscono il liberismo americano e potrebbero avere serie ripercussioni sulla salute, in particolare degli Europei. D’altra parte non è un caso se negli Usa, secondo stime dei Centres for desease control and prevention (Cdc), 48 milioni di persone si ammalano e 3mila muoiono per malattie di origine alimentare, mentre in Europa, grazie a norme più restrittive, i malati segnalati sono meno di 49mila (mille volte meno che negli Usa) e i morti 30 (cento volte meno che negli Stati Uniti).

© Illustrazione Antonio Pronostico


 

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A Cuba comincia un’altra storia

epa05226390 US President Barack Obama (C) listens to Cuban President Raul Castro (R) next to US First Lady Michelle Obama (L) as they attend a Major League Baseball exhibition game between the Tampa Bay Rays and the Cuban national team at the Estadio Latinoamericano (Latin American Stadium) in Havana, Cuba, 22 March 2016. Obama is on an official visit to Cuba from 20 to 22 March 2016, the first US president to visit since Calvin Coolidge 88 years ago. EPA/MICHAEL REYNOLDS

È iniziata un’altra storia nelle relazioni tra Stati Uniti e Cuba. Con il viaggio di Barack Obama a L’Avana si è chiusa la lunga fase dello scontro frontale iniziata quasi subito dopo la rivoluzione del 1959 e durata fino a un anno fa, quando il dialogo tra le due sponde della Florida prese il sopravvento in modo insperato complice la mediazione di papa Francesco. Della visita di Obama – grazie ai siti internet cubani e statunitensi, alle tv – abbiamo potuto seguire in diretta ogni dettaglio pubblico: dalla cena dell’inquilino della Casa Bianca e della sua famiglia in un paladar alla conferenza stampa con Raúl Castro, fino al discorso tenuto presso il Gran Teatro che è servito a spiegare perché è cambiata la politica a stelle e strisce nei confronti dell’Isola.

Tra le tante immagini, rimarranno indelebili quelle di Obama e della sua delegazione in Piazza della Rivoluzione sullo sfondo dell’effigie di Ernesto Che Guevara e quelle delle bandiere di Cuba e Stati Uniti una accanto all’altra mentre risuonano le note dei due inni nazionali. Chi conosce l’asprezza delle passate contrapposizioni, ha potuto comprendere l’emozione del momento. Poi c’è stata la cordialità tra i due presidenti a suggellare le altre fasi dell’incontro. Obama ha parlato di necessaria “riconciliazione” e di fiducia nella democrazia politica come motore della storia. Castro è stato molto più prudente.

Questa nuova fase nella storia dei rapporti tra L’Avana e Washington ha alcuni punti fermi. Gli Stati Uniti rinunciano – lo ha ripetuto più volte Obama – a ogni ingerenza negli affari interni dell’Isola e a forme economiche belligeranti, di cui l’embargo in vigore dal 1962 è la forma più brutale. Anzi, come hanno già fatto negli ultimi mesi, intendono incentivare ogni forma di cooperazione economica. Non è nei poteri di Obama cancellare l’embargo, prerogativa che spetta al Congresso, ma il presidente americano si sta adoperando per renderlo il più possibile innocuo e anacronistico. Cuba è già piena di turisti e imprenditori americani, il via libera al commercio bilaterale è già in atto, ci sono voli diretti tra i due Paesi, è caduto l’embargo postale e telefonico. Come ha detto Obama, ciò che si è messo in moto – salvo imprevisti – è irreversibile: «Quando una politica non ha dato risultati per cinquant’anni, bisogna cambiarla. I nuovi rapporti tra Cuba e Stati Uniti saranno utili a entrambi per conoscersi e collaborare».


 

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«Noi non abbiamo paura», i cantanti della Costa d’Avorio rispondono alla strage con una canzone allegra

«L’Islam promuove l’amore e voi ammazzate gente per una causa persa», «Che fate? Per 70 vergini venite ad ammazzare gente su una spiaggia?», «In paradiso non ci andrete, no, non andrete in paradiso». Questi sono alcuni dei versi di “Meme Pas Peur” che sentite cantati qui sotto: il video è girato sulla stessa spiaggia dove qualche giorno fa un commando di Al Qaeda ha attaccato e sparato a caso su turisti e persone che lavorano nell’industria del turismo uccidendo 13 persone.
La musica pop è uno strumento di propaganda, informazione e comunicazione cruciale in Costa d’Avorio, Bbc ricorda come canzoni siano state usate per favorire la riconciliazione nazionale, per dare informazioni sull’influenza aviaria. Stavolta la musica è una reazione alla paura.

Giulio Regeni l’ho ucciso io

Quante volte si può morire? In Egitto, Giulio Regeni, muore ogni volta che dal Cairo arriva un comunicato stampa, una goffa scusa a cui non crede nessuno o peggio un finto avanzamento in quella farsa che sono le indagini egiziane. Eppure sembra che sia solo l’inizio di un’angosciante farsa in cui Giulio muore in ogni scena, in tutte le scene, tutte le volte.

La teoria secondo cui il mistero (ben poco misterioso) che avvolge la morte di Giulio Regeni si sia sciolto con l’uccisione dei suoi rapinatori parte dal presupposto che l’opinione pubblica sia una belva stupida e affamata da acquietare a colpi di bistecche lanciate in aria. Mentre i famigliari e gli amici chiedono giustizia questi altri si arrabattano per sfamare la vendetta: due campi opposti, incomincianti e che difficilmente potranno essere utili l’uno all’altro.

Se una verità negata è una ferita che non si rimargina una falsa verità sono colpi freschi inferti ancora: Giulio viene sfigurato ogni volta che viene imbastita una messa in scena. Tutte le volte. E le menzogne sono uno schiaffo a lui, all’intelligenza, al Paese: a noi.

Succederà prima o poi che dal Cairo fabbricheranno un comunicato stampa in cui ci avviseranno che Regeni l’abbiamo ucciso noi, continuando a fingere di poter prendere sul serio un Egitto che ci percula irridendoci. E vedrete che alla fine sarà colpa nostra. Come tutte le volte che è stato suicidato qualcuno e non ne è rimasto nemmeno il buco.

 

Trivelle, le ragioni e i numeri per votare sì al referendum

La piattaforma Ombrina ricevuta da Nuovo Senso Civico

Il voto sulle trivelle di domenica 17 aprile va ben al di là della portata del quesito: è un’occasione per restituire la parola ai cittadini e per riflettere sul modello energetico ed economico più utile all’Italia. Lo sanno bene il governo e la maggioranza che lo sostiene, che non a caso evitano di dare visibilità al referendum e si schierano, come ha fatto il Pd, per l’astensione. Ma vediamo, numeri alla mano, che cosa può accadere votando sì al referendum.

Concessioni senza scadenza. Partiamo dal quesito referendario: votando sì si ottiene di far cessare le concessioni per estrarre idrocarburi, gas e petrolio, entro le 12 miglia marine (dove, ricordiamo, la legge di Stabilità dello scorso dicembre ha già vietato ogni nuova attività estrattiva) al momento della scadenza prefissata, senza che sia possibile prorogarle fino all’esaurimento del giacimento. Va chiarito che la possibilità di sfruttare il giacimento fino a fine vita è stata introdotta dal governo Renzi in contrasto con le regole europee sulle concessioni pubbliche, che devono essere sempre soggette a scadenza.

Quantitativi irrisori di idrocarburi. In Italia sono 35 le concessioni di estrazione entro le 12 miglia (su 135 complessive) e 9 i permessi di ricerca già rilasciati. Dalle piattaforme in funzione nel 2015 sono state estratte 542.881 tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di Smc (standard metri cubi) di gas, vale a dire lo 0,95% del fabbisogno nazionale di petrolio e il 3% del fabbisogno nazionale di gas. Parliamo dunque di quantitativi che se venissero a mancare a seguito della vittoria del sì non creerebbero particolari shock al nostro approvvigionamento energetico. D’altro canto, invece, si porrebbe fine al fatto che le compagnie – il cui vero problema è l’antieconomicità dell’estrazione offshore in un contesto di prezzi bassi del petrolio – protraggono lo sfruttamento “a tempo indeterminato” perché per quantitativi così ridotti non pagano royalties e per non affrontare i costi dello smantellamento degli impianti e del ripristino dello stato dei luoghi.

Il mito delle riserve italiane. Un altro mito da sfatare sono le riserve di petrolio che sarebbero presenti o nel sottosuolo e sotto il mare italiano. I sostenitori delle trivelle parlano di una quantità di idrocarburi che coprirebbe per 5 anni l’intero fabbisogno nazionale, così come previsto dalla Strategia energetica nazionale, documento governativo datato 2013 (guarda caso lo stesso anno in cui si è cominciato a ridimensionare il sostegno alle rinnovabili). A guardar bene i numeri, le risorse certe ammontano a 126 milioni di tonnellate equivalenti (Mtep) e non 700, cifra che comprende anche quelle “probabili e possibili”. Le riserve certe nei nostri fondali ammontano a 7,6 Mtep di petrolio e 29,4 di gas, in grado di coprire il fabbisogno nazionale di petrolio per 7 settimane e quello di gas per 6 mesi.

Lo spauracchio dei posti di lavoro. Anche sul rischio di perdere posti di lavoro (ma finora soltanto i chimici della Cgil hanno espresso perplessità) è importante chiarire alcuni dati. Il panorama internazionale offre il ritratto di un settore -quello dell’oil&gas – in forte flessione e anche in Italia, ormai da anni, calano fatturato e occupati, con 4 miliardi di euro perduti in tre anni e due terzi delle aziende dell’indotto in crisi (secondo Deloitte il 35% per cento è a forte rischio di fallire). La Solar foundation ci ricorda che lo scorso anno negli Usa il numero degli occupati del settore delle rinnovabili, dove Obama ha appena fermato le trivelle nell’Atlantico, ha superato il numero dei lavoratori nell’industria delle “fossili”, che ne conta 187.200 contro i 209mila del solo fotovoltaico, con i primi in calo e i secondi in costante aumento. Nel 15esimo State of Renewable Energies in Europe, Eurobserv’ER, censisce in Italia – pur nella flessione dovuta alle politiche governative e al calo del prezzo del petrolio – 82.500 persone impiegate nel settore delle rinnovabili contro i 65.000 circa dell’industria estrattiva.
Numerosi studi dimostrano, infine, che in particolare nella produzione di energia elettrica rinnovabili ed efficienza energetica creano dieci volte più posti di lavoro di quelli generati dalle fonti fossili. Dirottando dunque sulle prime gli incentivi rivolti a queste ultime si avrebbero vantaggi considerevoli in termini occupazionali. La Commissione europea, ad esempio, ha stimato che raggiungendo il 30% di energia prodotta da fonti rinnovabili nel 2030 si arriverebbe a 1.300.000 posti di lavoro in più in Europa, mentre con un obiettivo al 27% se ne avrebbero 700.000.

I sussidi alle fossili. A proposito di sussidi, nonostante il crollo del prezzo del petrolio l’attività estrattiva non sarebbe così conveniente se non ci fossero numerose forme di sostegno da parte degli Stati. A livello mondiale, le stime passano dai 550 miliardi di dollari di un’analisi dell’International Energy Agency ai 5.300 miliardi (quasi dieci volte tanto) valutati dal Fondo monetario internazionale, che ha aggiunto al sostegno diretto anche i costi delle conseguenze ambientali e sanitarie dell’utilizzo di idrocarburi e carbone. In generale, il sussidio alle fossili vale a livello globale sei volte di più di quello alle fonti pulite. In Italia la produzione di combustibili fossili viene sostenuta con 2,7 miliardi di euro ogni anno, che diventano 17,5 se si guarda agli incentivi lungo tutta la filiera, consumo incluso.

Inquinamento e global warming. A tutto questo vanno aggiunti i danni che eventuali incidenti provocherebbero al mare, alla sua biodiversità, alla pesca e al turismo (evidenze di un habitat alterato attorno alle piattaforme estrattive italiane sono già emerse da una recente indagine di Greenpeace). E va aggiunta la constatazione che la lotta al surriscaldamento globale è davvero efficace soltanto se ci si impegna a non estrarre più gli idrocarburi e a non utilizzare il carbone.


 

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«Quei giovani terroristi sono il fallimento di tutti noi». Parla il presidente delle comunità islamiche

Condanna degli atti terroristici ma anche senso di fallimento per un dialogo con i giovani che è assente. Ecco il clima che si respira nelle moschee. A raccontarlo è Izzedin Elzir, imam di Firenze e da sei anni presidente Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia

In molti si chiedono dove sia la reazione da parte della comunità islamica e perché i musulmani non scendano i piazza.  Izzedin, che cosa risponde?
Abbiamo fatto tutto quello che possiamo fare come cittadini italiani e europei di fede islamica. La nostra è una condanna senza se e senza ma, netta, contro questi criminali e terroristi. Certo, siamo disponibili ad abbracciare qualsiasi idea creativa che provenga dai nostri concittadini. Noi siamo cittadini italiani di fede islamica, non siamo uno Stato dentro lo Stato. Qualcuno ci chiede di fare la parte dello Stato ma noi non lo vogliamo. Noi vogliamo essere trattati come cittadini italiani di fede islamica. Non siamo stati fermi, dopo l’11 settembre abbiamo fatto tante iniziative di dialogo interreligioso, interculturale, come la moschea aperta, abbiamo chiamato la comunità ad usare la lingua italiana accanto a quella araba, siamo andati in piazza.

La comunità islamica come vive il clima del dopo Bruxelles?
Uccidere una persona è un fallimento di tutti. Qualcuno vuole mettere la comunità islamica all’angolo, costretta a difendersi. Ma il fallimento è di tutti quanti noi: la scuola, la società civile, i mass media, le forze dell’ordine. Allora è giusto non cadere nella trappola delle parti contrapposte, e dare una risposta unitaria contro l’odio razziale e religioso e contro il terrorismo.

Nella comunità islamica come viene vissuta la guerra in Siria? Le bombe contro i civili non potrebbero rappresentare anche una leva che spinge al terrorismo, magari in luoghi più disgregati come le periferie della Francia o del Belgio? Voi ne parlate?
Certo, noi discutiamo di tutto. Può essere un alibi, è vero, quello che accade in altre parti del mondo. Ma andando a vedere i profili di questi ragazzi protagonisti degli atti di terrorismo vediamo che vengono dalla criminalità comune, dallo spaccio. Non sono passati dalla moschea, ma dalla prigione, e da un giorno all’altro, tramite un maestro cattivo o tramite Internet si mettono contro, finiscono ai margini della società. È chiaro, quello che succede in Siria, Egitto, Libia, Yemen, Libano, Palestina sono fattori in più che fanno diventare terroristi persone deboli come queste.

Su la Repubblica Renzo Guolo ha analizzato ieri il fenomeno del terrorismo islamico in Europa parlando di «una profonda frattura generazionale» tra i padri e i figli che quindi si ribellerebbero un po’ alla sessantottina, verrebbe da dire, in nome di quello che loro considerano una “utopia”, continua Guolo, cioè lo Stato islamico. Questa frattura la vede anche in Italia?
C’è una frattura fra la terza e la quarta generazione di immigrati rispetto ai loro padri ma esiste anche una frattura con la loro società. Questi ragazzi non sono venuti adesso dal Medio Oriente, sono nati e cresciuti tra noi che però non siamo riusciti a creare un dialogo con loro. Ma come sta dicendo lei, questo ricorda un po’ una storia passata. Noi come italiani questa situazione la possiamo capire, perché abbiamo subìto il terrorismo nero, quello rosso, e oggi quello che chiamo terrorismo “verde”. Il concetto è lo stesso: mettersi contro la nostra società e credere che con la violenza si può cambiare il mondo. Ma loro non conoscono lafede religiosa e contestano ai genitori il fatto di non aver loro trasmesso la fede religiosa islamica. E allora hanno abbracciato questa fede come se desse loro un’ identità. Cosa molto pericolosa, di cui vediamo i risultati. Loro uccidono alla cieca. E non fanno distinzione tra musulmani e non musulmani, sono contro tutti quelli che sono diversi da loro.

Ma comunque si rifanno all’Islam, non vogliono una rivoluzione laica.
Questi ragazzi non hanno un’idea chiara, abbracciano il terrorismo verde perché è contro tutti, hanno solo il rancore contro tutti. I capi di Daesh invece sì, che hanno un progetto politico.

In questo momento nelle comunità islamiche c’è dialogo con le nuove generazioni?
Io come presidente dell’Ucoii ho cercato dal primo giorno un dialogo con i giovani ma va detto che quelli che frequentano le moschee non arrivano al 20 per cento. L’80 per cento sono cittadini italiani, addirittura non conoscono la fede religiosa, e, ripeto, i rischi purtroppo vengono soprattutto da questa fascia. Se un giovane non riconosce la sua fede religiosa e non si riconosce cittadino italiano perché ancora non abbiamo le leggi  adatte per avere la cittadinanza, – in Italia si ottiene la cittadinanza solo quando si arriva ai 18 anni – anche se si parla tanto di integrazione,  in realtà facciamo ben poco.

Si è parlato nei giorni scorsi di finanziamenti alle moschee dall’Arabia saudita. Lei cosa risponde?
Non ho preso personalmente e nemmeno come Ucoii neanche un centesimo dall’Arabia Saudita. La moschea si basa sull’autofinanziamento, e se ci sono dei donatori devono essere trasparenti.

Accordo Ue-Turchia? Uno scambio immorale

«La decisione di spostare sulla Turchia le responsabilità europee sui migranti significherebbe una messa in discussione dei valori comunitari e l’abbandono degli obblighi di legge fondamentali». È la denuncia lanciata, alla vigilia del Consiglio europeo a Bruxelles, da Oxfam insieme ad altre 18 organizzazioni internazionali che lavorano in Europa a stretto contatto con rifugiati e migranti. Una denuncia che non è stata ascoltata. Per proteggere i propri confini, i Paesi Ue hanno scambiato i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo (per forza entrati irregolarmente) con un finanziamento alla Turchia perché se li tenga e riprenda, salvo un improbabile scambio uno a uno per coloro che sono già entro i confini. In una sorta di allargamento delle regole di Dublino, e in spregio delle controversie che queste hanno provocato nei Paesi di confine, inclusa l’Italia, tutti i migranti che entrano nella Ue (in particolare in Grecia) dalla Turchia devono essere rimandati in questo Paese, che poi selezionerà chi ha diritto a essere accolto in un Paese Ue, in una sorta di giro dell’oca perverso.

La Turchia, come un tempo la Libia di Gheddafi, viene incaricata di fare da gatekeeper, il controllore delle frontiere, per un’Unione che non riesce a mettersi d’accordo sull’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo. Sotto il ricatto dei Paesi membri che minacciano di chiudere, o hanno già chiuso, le frontiere interne, e il rifiuto degli stessi, e altri, ad accettare la redistribuzione concordata prima della grande crisi dell’estate scorsa, l’Ue ha deciso di esternalizzare – contract out, si direbbe in gergo aziendale – il controllo alla Turchia, allo stesso tempo eliminando ogni distinzione tra migranti e rifugiati. Lasciando ai propri Paesi più periferici e più sottoposti alle pressioni degli uni e degli altri, la Grecia innanzitutto, ma potenzialmente anche all’Italia, la responsabilità di effettuare quelli che impropriamente vengono definiti rimpatri (impossibili), ma sono vere e proprie deportazioni in un Paese che non è il loro, non li vuole e non ha le risorse per integrarli, e presenta esso stesso alti gradi di rischiosità sul piano dei diritti di libertà e anche dei più elementari diritti civili. Ciò è in contrasto con il principio del diritto internazionale secondo cui una persona può essere rimandata nel proprio (non in un altro) Paese solo se questo non presenta rischi per la sua incolumità personale. In cambio, oltre a fondi sul cui utilizzo avrà ben poco potere di controllo, l’Ue ha promesso di accelerare le procedure per l’ammissione della Turchia nell’Unione e, di fatto, anche se non formalmente, di chiudere gli occhi sull’involuzione autoritaria del regime di Erdogan.

Anche se l’accelerazione delle procedure di ammissione e la facilitazione per l’ottenimento dei visti probabilmente sono più un gesto di facciata, che serve a Erdogan per legittimarsi agli occhi dei suoi cittadini, il suo contenuto simbolico e comunicativo, nei confronti dei cittadini europei, di quelli turchi e dei rifugiati, è chiarissimo e drammatico: per difendere i propri confini, nascondere le proprie gravi fratture interne, tra Paesi e all’interno di ciascun Paese, mantenere un po’ di coesione di facciata, l’Ue e i suoi singoli membri – inclusi quelli a tradizione democratica più consolidata, inclusa la Germania accogliente di Merkel dell’estate 2015 – sono disposti a ignorare non solo la drammatica richiesta di aiuto che proviene dai rifugiati, ma a negare loro l’applicazione dei principi fondamentali di libertà e rispetto dei diritti umani su cui si basa la democrazia. Di più, i Paesi Ue sono disposti a condannarli a rimanere indefinitamente in una sorta di limbo, in cui non avranno mai gli stessi, pur scarsi, diritti dei cittadini del Paese. Come se l’esperienza dei campi profughi palestinesi, in cui ormai si avvicendano le generazioni, non avesse insegnato nulla. Come se al timore del terrorismo si potesse rispondere con la creazione di spazi e condizioni di coltura del disagio, disperazione, malcontento. E come se ciò servisse davvero a fermare i flussi di coloro che non hanno nulla da perdere, se non la vita.


 

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Il genocidio di Karadzić

epa04766939 (FILE) A file picture dated 05 August 1993 shows Bosnian Serb leader Radovan Karadzic (R) listening to Bosnian Serb Commander Ratko Mladic during a meeting in Pale, Bosnia & Herzegovina. July 2015 marks the 20-year anniversary of the Srebrenica Massacre that saw more than 8,000 Bosniak men and boys killed by Bosnian Serb forces during the Bosnian war. EPA/STRINGER PLEASE REFER TO THIS ADVISORY NOTICE (epa04766937) FOR FULL PACKAGE TEXT

Genocidio! Fu tale, secondo il tribunale internazionale dell’Aja lo stermino di 8mila bosniaci musulmani perpetrato l’11 luglio del 1995 a Srebrenica.  Radovan Kadadzić, presidente, all’epoca dei fatti, della Repubblica serba di Bosnia, ne è stato considerato il mandante e per questo condannato a 40 anni di carcere. La corte lo ha riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità anche per l’assedio di Sarajevo. Giustizia è fatta? Sì, Karadzić, che ha sempre sostenuto di essersi battuto “per la pace, per prevenire la guerra e limitare le sofferenze delle persone” è sicuramente colpevole. A Srebrenica furono sistematicamente eliminati e gettati nelle fosse comuni tutti i maschi bosniaci musulmani in età per imbracciare un fucile, per lavorare, per procreare: crimine orrendo di cui lo psichiatra Karadzić è colpevole.

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epa000230886 Crowds gather at the Potocari Memorial Centre near Srebrenica on Sunday, 11 July 2004, to bury 338 recently identified Srebrenica victims and commemorate the ninth anniversary of the massacre. Thousands more still await identification. Bosnian Serb troops massacred up to 8,000 Bosnian Muslim men and  expelled more than 30,000 women, children and elderly after capturing the former eastern Muslim enclave of Srebrenica on 11 July 1995, during the 1992-1995 war in Bosnia-Herzegovina.  EPA/FEHIM DEMIR

Ma non è il solo responsabile. Ci furono colpe gravissime da tutte le parti in quella guerra. Potrei citare Naser Orić, comandante delle forze musulmane, che dall’enclave di Srebrenica tra il 1993 e il 1994 mosse attacchi infami contro  vicini villaggi serbi, programmando e attuando una vera e propria pulizia etnica. E ci furono atti di ferocia commessi da croati ai danni dei serbi e da croati insieme ai serbi, contro  bosniaci-musulmani. Nè si può tacere la responsabilità, almeno oggettiva, dell’Europa, che gioiosamente favorì lo smembramento della ex Jugoslavia, pur sapendo che i serbi sarebbero stati cacciati dalla Croazia, che croati-cattolici, bosniaci-musulmani e serbi-ortodossi si sarebbero scannati.

D’altra parte la guerra dei Balcani è  finita con l’intervento militare della “comunità internazionale” contro la Serbia e a favore dell’indipendenza del Kosovo, Paese quest’ultimo abitato in maggioranza da albanesi di religione islamica, ma che vide nascere, nei suoi monasteri, l’identità nazionale serba. E la Giustizia non è mai uguale per i vincitori e per i vinti.  Quella che condanna Karadzić a non riveder le stelle – ha 70 anni – è una giustizia giusta ma lascia  in po’ di amaro in bocca. Perché il disastro dei Balcani andava evitato e non tutti i colpevoli sono stato perseguiti con la stessa severità.   

Una delegazione è entrata a Ponte Galeria, ecco cosa ha visto

Ripubblichiamo questo articolo su gentile concessione di Cronache di ordinario razzismo, sito di informazione, approfondimento e comunicazione specificamente dedicato al fenomeno del razzismo curato da Lunaria.

I Cie vanno eliminati. Non si può riformare un luogo di distruzione della dignità umana. Vanno chiusi, perché sono lo strumento di un sistema più ampio di controllo sociale, di alienazione dell’essere umano e della sua realizzazione personale.

Quello che sono lo abbiamo detto e denunciato tante volte: luoghi dove persone che non hanno i documenti di soggiorno – o li avevano e non sono riusciti a rinnovarli, a volte per via della perdita del lavoro, altre per la conclusione di un ciclo di studi..- vengono trattenute formalmente per un tempo massimo di tre mesi, periodo in cui le istituzioni dovranno identificarle e espellerle dal territorio italiano. Il tutto in un contesto di privazione e alienazione. Raccontarlo è una cosa, viverci è un’altra.

Il Cie di Ponte Galeria è avvolto dallo sconforto. Ci entriamo mercoledì 23 marzo, con una delegazione della campagna LasciateCIEntrare. «Qua certo non si muore di fame. Ci danno il cibo. Vengono gli operatori a pulire per terra. Ci danno dei buoni da 5 euro da spendere all’interno del centro per avere le ricariche telefoniche, a chi fuma danno le sigarette. Non possiamo dire che ci trattano male: ma manca la dignità. La dignità che ti da l’essere autonomi, lavorare, badare a se stessi e agli altri». Così O., una signora russa di circa cinquant’anni, nel Cie da due settimane. Vive in Italia da anni, a Sanremo, dove lavorava per una famiglia come collaboratrice domestica. Senza documenti (e quindi anche senza contratto). «Non sono mai riuscita a rientrare nel sistema di quote», spiega. L’hanno fermata dei poliziotti in borghese e ora è nel Cie in attesa dell’espulsione. Quello che afferma O. si palesa nei movimenti lenti e ciondolanti delle donne detenute nel Cie, dal letto alla panca di metallo al cortile, dal cortile alla panca di metallo al letto. Sono i gesti di chi da un momento all’altro è stato privato della propria quotidianità e chiuso in una struttura detentiva, senza nemmeno aver capito bene cosa stia succedendo.

«Io sono venuta in Italia per sposarmi, con un visto turistico. Allo scadere del visto non avevo ancora tutte le carte necessarie per il matrimonio, e non sono riuscita a organizzarmi in tempo per rincasare. In questo periodo in Italia, ho lavorato per circa un mese con un signore, che alla fine non mi ha pagata. Sono andata alla polizia per denunciarlo.. e mi hanno portata qua. Gli ho detto che avevo avuto questi problemi, che mi stavo organizzando per prendere il volo e tornare a casa, e che me ne sarei andata a breve io. Mi hanno risposto che dovevo stare in un centro, da dove mi avrebbero rimandata a casa. Ma questo non è un centro, è un carcere. Il mio compagno si è spaventato quando è venuto a trovarmi, da Napoli, e non ci hanno nemmeno fatti incontrare». A parlare è S., una donna cubana. Anche lei sottolinea che nel Cie di Ponte Galeria«ci danno da mangiare, non ci maltrattano. Però questo è un carcere. Guarda come viviamo».

Come vivono, le persone dentro al Cie di Ponte Galeria? Saperlo non è così facile perché così come le persone non possono uscire, nessuno può entrare, almeno non liberamente. Si deve fare richiesta alla Prefettura, che deve dare l’autorizzazione, come in tutti i Cie (alcune risposte sono contenute nei dossier di LasciateCIEntrare Accogliere:la vera emergenza, e inCAStrati). E non sempre succede.

Dentro a Ponte Galeria nel primo cortile ci sono molte automobili della polizia, della guardia di finanza, dei carabinieri, anche dell’esercito. Intorno, sbarre. Si entra, e c’è il primo controllo della polizia. Intorno, uffici. Passato un corridoio con uffici a destra e sinistra, si entra – attraverso porte a scatto automatico aperte per mezzo di tessere – in un atrio circondato da sbarre. Da li, tramite una porta – composta da sbarre – si accede a due cortili, entrambi circondati da alte sbarre e totalmente vuoti, fatta eccezione per alcune panche e tavoli di metallo.

Dai cortili si entra nelle stanze e nei bagni: sconfortanti strutture di muratura. Solo i disegni e le frasi scritte dalle trattenute sulle pareti interrompono lo squallore del grigio del cemento e delle sbarre, entrambi leit motiv del Cie. “Jesus help us”, scritte in arabo, il disegno di una tigre con a fianco una scritta cinese, “Infami”, “La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto” (una frase tratta da una canzone degli Assalti Frontali). Tra le sbarre le detenute legano lunghe corde su cui stendono gli abiti. Le stanze sono vuote: ci sono solo i letti, brandine di metallo con sopra un sottile materasso di gommapiuma, e una coperta di lana marrone, logora.

Le lenzuola non sono di cotone, ma sintetiche: sembrano di carta, esattamente come gli asciugamani contenuti nel kit che viene dato alle donne ogni 3/4 giorni, insieme a confezioni monodose di sapone. Le stesse lenzuola vengono utilizzate dalle donne per creare delle tende alle docce, prive di porte. I bagni se possibile sono ancora più squallidi delle stanze, oltre a non garantire alcun tipo di privacy e a non avere riscaldamento. Che non è assicurato nemmeno nelle stanze, provviste di un condizionatore che spesso non funziona. Le finestre sono coperte dalle lenzuola per non far entrare la luce ma soprattutto il freddo.

In questo contesto le persone stazionano anche per mesi, senza la possibilità di fare nulla, confinate in una sorta di limbo che le esclude dalla società, anche fisicamente. I Cie sorgono lontano dai centri abitati, e dagli sguardi delle persone. In effetti non si deve mostrare troppo una struttura in cui le persone vengono private della propria libertà ed espulse dal territorio nazionale contro la propria volontà, e mantenute nel frattempo in condizioni indegne, e in uno stato di totale inerzia e assistenzialismo.

Le problematiche all’interno dei Cie sono molte, e possono variare da struttura a struttura e da periodo a periodo: generalmente, si riscontra una grave carenza di mediatori, di assistenza legale e sanitaria. Le segnalazioni a proposito delle violazioni dei diritti umani all’interno dei Centri di identificazione ed espulsione sono moltissime, e non mancano i casi di suicidio. Le frequenti proteste portate avanti dai detenuti in tutte le strutture d’Italia denunciano la pesante condizione che si vive all’interno di questi centri, spesso chiusi proprio in seguito e grazie alle manifestazioni delle persone trattenute – esattamente come è successo per la parte maschile del Cie di Ponte Galeria, chiuso dopo una rivolta avvenuta lo scorso gennaio, e ad oggi fortunatamente ancora inagibile.

Ciononostante, il totale smantellamento del sistema di identificazione ed espulsione non sembra vicino. Anzi, c’è il serio pericolo che si ampli, in particolare dopo le sollecitazioni europee circa la necessità di identificare ed espellere più velocemente (per cui l’Europa chiede la rapida attivazione degli hotspot, di fatto altri centri di identificazione).

«Sono dentro da cinque mesi. Sto impazzendo. Non riesco a dormire, non mangio. Penso in continuazione. Perché sono qui? Che fine farò? Ho fatto richiesta di protezione internazionale, ho avuto il diniego e ho presentato ricorso». Sono le parole di J., una giovane donna nigeriana. «Alle mie domande nessuno mi da risposte: devo aspettare, sempre. Intanto non posso fare nulla, guarda intorno, non c’è niente! Siamo tra le sbarre, senza aver fatto niente».