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Bisogna temere ciò che crediamo vero e invece non lo è

Women try to comfort a mother who lost her son in bomb attack in Lahore, Pakistan, Monday, March 28, 2016. The death toll from a massive suicide bombing targeting Christians gathered on Easter in the eastern Pakistani city of Lahore rose on Monday as the country started observing a three-day mourning period following the attack. (AP Photo/K.M. Chaudary)

C’è stato ieri un vivace scambio di idee sulle parole che ho scelto per il titolo del buongiorno quotidiano (sul Pakistan qui): sintetizzando mi si chiedeva il senso di usare parole così forti (“barbecue”, ad esempio) per descrivere un’esplosione. Troppo violenta, la parola, mi è stato detto. E attenzione: i “critici” condividono quasi tutti il contenuto del pezzo.

Il fatto in sé è poca cosa se non fosse che una discussione sulla potabilità di una parola (avvenuta tra l’altro anche sui social) di questi tempi è un privilegio, un bel vento, un segnale incoraggiante in questa desertitudine invasa dagli impermeabili di professione. E infatti li ho ringraziati tutti, uno per uno, perché confrontarsi sulla grammatura delle parole è sintomo di una salubrità sociale che mi ha resuscitato per tutto il resto del giorno.

Eppure le parole sono importanti, certo, ma vanno osate oltre che usate in un tempo come questo in cui la violenza è ignorante ma popolare. In un momento in cui i Salvini di turno (o i Trump, o i Le Pen, insomma quella specie lì) riescono a toccare le corde della bava semplicemente solleticando il sottotesto feroce, senza nemmeno esagerare più nelle iperboli; insomma in un momento in cui la cattiveria è riconoscibile anche solo nel portamento noi che maneggiamo le parole abbiamo un dovere ancora più vasto, che parte dall’informare, certo, ma anche dal capovolgere le convinzioni.

Ci sono convinzioni che hanno bisogno di essere morsicate per essere svelate. Mi spiego: se i morti di eroina degli anni ottanta (quando l’eroina era tutta cosa di Cosa Nostra) fossero quindi morti di mafia le classifiche delle vittime delle mafie si invertirebbero con le regioni del nord ai primi posti, anche se non è facile immaginarlo; oppure la stragrande maggioranza dei giornalisti condannati per diffamazione in Italia non hanno mai pronunciato boiate al livello di un Giovanardi o un Formigoni, roba da Paese sudamericano, per dire; alcune posizioni apicali nello scenario politico sono stabili perché ricattabili e quindi inoffensivi, come in un brutto b-movie di spionaggio russo; una delle organizzazioni con la più alta incidenza di casi di pedofilia (per di più non denunciati) impone la sessualità naturale agli altri, come accadrebbe in un buco di villaggio medievale; siamo in un momento in cui il senso comune è il risultato di un omissione continua, al pari di un romanzaccio un po’ thriller; mastichiamo morti come un quotidiano the del pomeriggio ma non perdoniamo le parolacce. Siamo un mondo invertito, intendo, a descriverlo. E anche a scriverlo. No?

Quando si fa buio le parole hanno il dovere di pungere, mica di lenire. Perché non bisognerebbe avere paura di ciò che non conosciamo ma di quello che crediamo vero e invece non lo è: lo diceva Mark Twain, fine ottocento.

Buon martedì.

La strage di Lahore, i talebani pakistani e l’Isis

Pakistani Christian women mourn the deaths of their family members during a funeral service at a local church in Lahore, Pakistan, Monday, March 28, 2016. The death toll from a massive suicide bombing targeting Christians gathered on Easter in the eastern Pakistani city of Lahore rose on Monday as the country started observing a three-day mourning period following the attack. (AP Photo/B.K. Bangash)

L’attacco di Lahore, orribile e feroce com’è, e capitato in un giorno di festa di quelli in cui i media si accorgono con più facilità di quel che succede lontano da casa, ha riportato il Pakistan sulle prime pagine dei giornali. Il Paese, la cui situazione è ingarbugliata come in pochi altri, è forse, assieme all’Arabia Saudita e a qualche altro emirato della penisola araba, uno dei luoghi dai quali arriva la grande ondata di terrore islamista che da più di un decennio attraversa il pianeta tutto (Indonesia, l’India, l’Europa, diversi Paesi africani, gli Stati Uniti). Certo, alle origini ci sono l’invasione sovietica dell’Afghanistan, la non geniale risposta americana e poi le guerre post-2001, la Cecenia e molte altre cose ancora. Ma il Pakistan e i suoi servizi segreti, restano per certo una base fondamentale. Persino, dicono alcuni, nella crescita dell’Isis.
Mettiamo qualche elemento in fila, ricordando che legami, alleanze, lavoro comune, in casi come questo non sono dati una volta per sempre. E che l’attacco di ieri è stato rivendicato da Jamaat-ul-Ahrar, frangia riottosa e tra le più estreme dei talebani pakistani, un movimento particolarmente unito. Jamaat-ul-Ahrar per un periodo ha anche dichiarato la propria fedeltà al Califfato, per poi ritirarla. Spesso i giochi in casa determinano la creazione o la rottura di alleanze internazionali.

All’inizio del 2016, Carlotta Gal, ex corrispondente del New York Times da Kabul ora in Nord Africa, scriveva che a inizio 2014, prima che il governo pakistano avviasse delle operazioni militari nelle regioni tribali e autonome del Waziristan (dove il governo centrale non governa), centinaia di combattenti stranieri hanno lasciato la zona e sono giunti in Qatar, dove gli sono stati forniti nuovi passaporti e un passaggio per la Turchia, da dove sarebbero entrati in Siria per unirsi alla guerra contro Assad. Altri avrebbero attraversato l’Iran e l’Iraq. «Se queste informazioni sono corrette, il Pakistan e il Qatar hanno giocato un ruolo nello spostamento di persone da un’area di guerra dove non servivano più ad un’altra». In questo caso staremmo parlando della guerra vera e dura che si sta combattendo in Siria e altrove: quella di certo islam sunnita contro gli sciiti (e viceversa, come è successo in Iraq per diversi anni dopo l’invasione americana).

Come la bomba di Lahore ci mostra, e come è già capitato in molte occasioni, quando i servizi segreti giocano con il terrorismo – quelli pakistani usano alcuni gruppi anche nel loro braccio di ferro con l’India in Kashmir e Punjab – le conseguenze si pagano anche in casa. Gal ci ricorda che al momento, nel Paese, circolano liberamente i leader di diversi gruppi: Sirajuddin Haqqani, che ha preso il posto del padre Jalaluddin morto nel 2014, e guida il più grosso network militare legato ai talebani e che in questi anni ha dato parecchio filo da torcere agli americani e prima ai sovietici, e che in questo momento è il vice capo dei talebani; il capo di al Qaeda, l’egiziano 64enne Ayman al-Zawahri, probabilmente in Belucistan e il capo talebano Akhtar Muhammad Mansour, che si riunisce con i suoi a Qetta.

Ma torniamo alla presenza dell’ISIS. A fine 2015 sia i talebani afghani che quelli pakistani hanno emesso comunicati in cui si spiegava che Abu bakr al Baghdadi non è il Califfo perché non governa su tutto il territorio dove vivono musulmani. Nel frattempo però, qualche comandante di basso rango aveva invece dichiarato fedeltà al Califfato siriano-iracheno. E siccome all’interno del gruppo si è verificata una spaccatura tra clan, c’è la possibilità che l’Isis abbia avuto una qualche forza di attrazione.

Il Pakistan ha sempre negato con forza che l’Isis avesse basi o collegamenti nel Paese. Non è così. Nel settembre 2015 la polizia ha arrestato a Lahore Mehar Hamid un funzionario del governo e ha scoperto che questi aveva raccolto e passato informazioni per Daesh. Le indagini hanno scoperto una rete di funzionari che faceva lo stesso lavoro. Altre informazioni relative ai collegamenti tra gruppi locali e Isis sono legami finanziari tra quest’ultimo e Lashkar-e-Taiba, islamisti per l’annessione del Kashmir indiano al Pakistan e forza terroristica ma anche politica molto importante nel Paese. Poi ci sono i reclutatori di combattenti e di donne: otto persone sono state arrestate in Punjab perché avevano organizzato la loro partenza per la Siria ed erano in contatto telefonico con comandanti dell’Isis, mentre si parla di decine di donne sparite dalle loro case con i figli, probabilmente partite per il Califfato.

La brutalità dell’attacco di Lahore non è probabilmente frutto dell’imitazione della ferocia dell’Isis. Jamaat-ul-Ahrar e il suo leader Omar Khalid è particolarmente noto per l’uso di metodi alla al Baghdadi: spesso le gesta più orribili del suo gruppo vengono postate in video online e l’uso dei social media somiglia a quello di al Baghdadi e del suo dipartimento della comunicazione.

In sintesi: se talebani e talebani pakistani non sono direttamente collegati all’Isis e la strage di cristiani a Lahore non è da ricollegarsi a un’offensiva del califfato nel Paese, i legami tra quella che rimane una delle centrali decisive del terrorismo islamico militante e il Califfato sono più forti che in passato. E la voglia di esserci e farsi vedere da parte di gruppi come Jamaat-ul-Ahrar potrebbe essere la volontà di imitazione o di partecipare, a modo proprio e con obbiettivi locali, a una guerra su più larga scala.

Il volto camaleontico della mafia. In nuovi libri inchiesta

courtesy Letizia-Battaglia-1982, Palermo

Il nuovo volto della mafia non è più quello tipico di una volta, raccontato al cinema e in tanta letteratura. Sempre più camaleontiche, capaci di infiltarsi nella società attraverso la corruzione, le organizzazioni criminali e mafiose oggi la fanno da padrone anche nell’alta finanza e in molti settori stratetici, ecco un percorso di letture per cercare di saperne di più. Molti degli autori che qui segnaliamo – da Isaia Sales, a Giuseppe Ayala ed Antonio Calabrò e Francesca Angeli – sono tra i protagonisti di Trame,  festival dei libri sulla mafia che si svolge a Lamezia Terme, dal 15 al 19 giugno. Diretto da Gaetano Savatteri l’edizione 2016 del festival (qui il programma completo) presenta in anteprima il rapporto annuale di Ecomafia. Da segnalare – fra molto altro-  anche la presentazione dell’atlante dei bambini a rischio a cura di Save the children. Mentre per quel che riguarda i lavori più  di carattere letterario sulla mafia, da non perdere l’incontro con Giulio Cavalli che presenta il suo ultimo libro  Mio padre in una scatola di scarpe (Rizzoli) con un reading e poi la presenza di Emanuele Trevi con Il popolo di legno e di  Maurizio Torchio con Cattivi, entrambi pubblicati da Einaudi.  E ancora una interessante finestra sul rapporto fra mafia e Vaticano con uno spazio dedicato a Emiliano Fittipaldi e il suo romanzo inchista Avarizia (Feltrinelli).  Mentre Salvatore  Striano racconta la propria storia, dopo il carcere e la nuova vita grazie al teatro, ne La tempesta di Sasà (Chiarelettere).

Le mani sulla città. Quelle della mafia. Nel libro Mafie urbanistica, azioni e responsabilità dei pianificatori nei territori contesi alle organizzazioni criminali (Franco Angeli) Daniela De Leo ricostruisce il modo in cui le organizzazioni criminali riescono ad infiltrarsi nel sistema degli appalti e persino della pianificazione urbana. Grazie alla corruzione, ma anche approfittando più semplicemente delle opacità normative, della mancata condivisione delle scelte urbanistiche da parte di chi amministra, per cui poi alle gare non partecipano sempre imprenditori “sani”… Con questa ricerca De Leo sottolinea l’assoluta necessità di indagare, in maniera più sistematica, le relazioni esistenti tra pianificazione urbanistico-territoriale e organizzazioni criminali. Ma racconta anche alcune significative pratiche di contrasto e, soprattutto, ricerche che hanno permesso di porre il problema all’attenzione della comunità scientifica nazionale e internazionale.

Contro la retorica dell’antimafia . Libro scomodo, il nuovo lavoro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia (Il Saggiatore), ha l’impeto di un pamphlet contro la retorica dell’antimafia che ha «finito per rendere la memoria un feticcio, svuotandola di contenuti». Giornalista siciliano che ha vissuto come molti altri della sua generazione ha vissuto la strage di Capaci del 1992 come una «chiamata alle armi», Di Girolamo se la prende con «l’oligarchia dell’antimafia» che finisce suo malgrado per fare il gioco della mafia, ostentando un apparato retorico che nasconde il vuoto di azioni concrete. Autore del libro Messina Denaro, l’invisibile, (sul potente boss di Cosa nostra ancora in libertà), Di Girolamo afferma di non aver mai avuto paura della mafia come oggi, di fronte all’attribuzione di patenti di antimafioso assegnate con troppa leggerezza, di fronte all’impossibilità di fare una critica all’antimafia che storicamente ha avuto grandissimi meriti ma che- accusa oggi il giornalista – « è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli». «Questo circuito autoreferenziale, che si limita a mettere in mostra le sue icone nel prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato, – scrive Di Girolamo – non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso. In questo modo si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo».

La mafia non è solo un problema del Sud. E’ in uscita il 10 aprile il saggio di Andrea Leccese Maffia & Co (Armando editore) in cui sono passati a vaglio critico alcuni falsi miti sul fenomeno mafioso. A cominciare dal fatto che riguardi solo il Meridione. “Maffia” è un termine toscano, fa notare Leccese (che nel 2009 ha vinto il premio Paolo Borsellino). Scritto con la doppia effe, fino al secondo dopoguerra, questa parola era usata anche per indicare ostentazione e boria. «Di fatto la mafia non è un problema confinato nell’area che va dalla Sicilia alla Campania ma, sin dalle sue origini, era più esteso», sottolinea l’autore. Nel libro – ecco il punto centrale – la mafia è analizzata come fenomeno imprenditoriale funzionale, sotto certi aspetti, alla società capitalistica stessa; un fenomeno che riesce ad arricchirsi e soprattutto a infiltrarsi nella società anche in periodi di crisi, per esempio finanziando imprese che arrancano e che trovano solo porte chiuse in banca. L’obiettivo della mafia, scrive Leccese, è anche diffondere una cultura “mafiosa” che superi il recinto dei “mafiosi in senso stretto”imponendo il proprio modo di fare affari, il proprio modo di gestire l’economia e le relazioni.

 

Isaisa Sales, Storia dell’Italia mafiosa, Rubettino. Sales analizza la lunga serie di intrecci tra Stato, mafie e società civile. Nel libro la storia della mafia, della ‘ndrangheta e della camorra viene ricostruita dalla nascita nel Mezzogiorno borbonico, allo sviluppo nell’Italia post unitaria, fino al definitivo affermarsi in età repubblicana, fino ai nostri giorni. E’ una sorta di grande affresco storico che individua le ragioni di fondo di un modello criminale il cui successo dura ininterrottamente da duecento anni.
Giuseppe Ayala, Chi ha paura muore ogni giorno, Mondadori.  Abbiamo segnalato libri appena usciti o in uscita qui facciamo un’eccezione per un libro del 2010. Qui il giudice Ayala  ricorda i due attentati di Punta Raisi e di via d’Amelio, che segnarono il momento più drammatico della lotta contro la mafia in Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano due simboli, non solo dell’antimafia, ma anche di uno Stato italiano che, grazie a loro, seppe ritrovare una serietà e un’onestà senza compromessi. E molto di più per  Giuseppe Ayala, che di entrambi non è stato solo collega, ma grande amico.
Antonio Calabrò I mille morti di Palermo, Mondadori: Calabrò ricostruisce la «mattanza» degli anni Ottanta. La «Milano da bere».  L’escalation cominciò il 23 aprile 1981, quando fu ucciso Stefano Bontade, «il falco», potente boss di Cosa Nostra. Un omicidio che  scompaginò le file delle più antiche famiglie mafiose, ribaltando gerarchie, alleanze, legami d’affari. Ci sarebbero stati poi centinaia di altri morti . Quasi tutti per mano dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano e dei loro alleati, i Greco, i Brusca, i Marchese.
Federica Angeli , Il mondo di sotto, Castelvecchi, in cui la giornalista- che  vive sotto scorta dal 2013 – ha raccolto le sue inchieste, su racket e corruzione a Roma.  Redattrice di Repubblica,  Angeli ha testimoniato su uno scontro a fuoco. Minacciata dai clan per un inchiesta a Ostia sul raket degli stabilimenti balneari. Al Festival Trame di Lamezia Terme presenta il suo libro dialogando con l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino.

 

La foto è di Letizia Battaglia ed è esposta nella mostra Anthologica in corso nello spazio Zac a Palermo fino all’8 maggio. La mostra è stata recensita su Left in uscita il 2 aprile


 

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La fragilità bella di Ezio Bosso

A distanza di un paio di mesi, in pochi stentano a ricordare la rassegna musicale fiorata per eccellenza, quel Sanremo che colleziona milioni di ascolti, insieme alle critiche sui compensi, ai vestiti, alle vallette. A proposito: chi ha vinto l’ultima edizione? Non importa. Quest’anno la vera rivelazione, per il grande pubblico, si chiama Ezio Bosso, sorprendente ospite d’onore.
La sua è stata una sferzata di aria fresca. E a rapire orecchie e cuore, a impazzare sulla rete, è stato quest’uomo sui quarant’anni, certo non per la sua malattia, che non è la Sla, come erroneamente si scrive. Ma non è importante sapere cosa sia a renderlo incerto da qualche anno, nel movimento e nell’eloquio.
Alla tastiera da quando aveva quattro anni, ancora oggi alla musica dedica tante ore al giorno: «Mai abbastanza – ci dice modesto – ma tutte quelle che riesco». Si appresta a un tour nei principali teatri italiani, molti già sold out, in occasione dell’uscita del suo primo, e doppio, album da solista. The 12th Room, è un percorso meta-narrativo, con brani inediti e di repertorio che rivelano il Bosso compositore e quello interprete. Dal curriculum e referenze eccellenti, tra tutte la direzione della London Symphony Orchestra, ma anche l’artista attento al suo pubblico («A me», mi corregge, «piace pensarle come persone con cui condivido un momento, non come un pubblico. Io sono solo quello che ci mette le mani»). Lo raggiungiamo telefonicamente mentre è nella sua Torino, una delle città in cui ama più soggiornare, con Londra, dove vive, e Bologna. Per una manciata di minuti, non ci siamo per nessuno, come quando si è rapiti da una piacevole sinfonia.
Maestro, la disturbo? Che cosa stava facendo?
Sto studiando, come ogni giorno. Sono a palazzo Barolo, dove vive uno dei miei pianoforti (un pianoforte appositamente preparato da Piero Azola, ndr).
Lì è custodito il suo gioiello?
Sì, l’ho donato anni fa all’Opera Barolo. Vive in uno dei saloni più belli, un salone d’onore barocco di uno dei palazzi più belli di Torino, ma anche d’Europa. Il mio pianoforte ha una bella casa, non posso lamentarmi.
Lo può suonare soltanto lei?
No, è a disposizione delle attività che vengono fatte e io ne sono il supervisore musicale. È giusto così, perché il pianoforte deve vivere, gli strumenti sono vivi, come gli esseri umani: se stanno fermi dopo un po’ perdono interesse a vivere. L’immobilità dell’intelletto e dell’anima ci porta a deperire. Invece bisogna essere attivi.
Nel suo album ci sono storie di stanze, stanze come momenti basilari di una vita. Stanze felici o dolorose, immaginate, desiderate, che rappresentano momenti e percorsi. Dodici in tutto, secondo un’antica leggenda. Lei quale preferisce?
Sinceramente, quella della musica. È quella dove si trova tutto il mio benessere. Ho scoperto che mi piacciono le stanze che ci compongono, che ci inventiamo, che ci immaginiamo anche. Stanze parti della nostra memoria, siamo noi memoria delle stanze.
In una di queste, troviamo due ospiti eccellenti: Bach e Chopin. Sono i suoi preferiti?
Bach e Chopin sono quelli con cui io mi sveglio. La prima cosa che suono al mattino è sempre qualcosa di Bach. Io ho un rapporto affettivo con la musica per cui tra i compositori ci sono padri, fratelli, amici. Bach è l’inevitabile, tra noi musicisti lo chiamiamo “il vecchiaccio” perché ci controlla sempre, controlla che facciamo bene la musica, come la viviamo ed eseguiamo. Chopin è un po’ un amico sfortunato da proteggere e prendere un po’ in giro per tirarlo su. […]


 

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Quel barbecue di Pasqua laggiù in Pakistan

Women comfort each other as they mourn over the death of a family member who was killed in a bomb blast, at a local hospital in Lahore, Pakistan, Sunday, March, 27, 2016. A bomb blast in a park in the eastern Pakistani city of Lahore has killed tens of people and wounded scores, a health official said. (AP Photo/K.M. Chuadary)

Eppure dovrebbe essere così facile pensare che un popolo che uccide i suoi bambini sia un popolo già morto. E ci sarebbe anche da chiedersi se davvero non coli un po’ di vergogna a chi si dice pronto a morire e ammazzare pur di meritarsi un posto in qualche promesso paradiso. Perché la strage di Lahore, quei sessanta morti sparsi in giro a fette dalla forza delle bombe e gli altri trecento con qualche striscia di sangue addosso, se avesse avuto colori, capelli e nomi più europei sarebbero stati l’ennesima altra volta l’11 settembre e invece in mezzo a quelle mani così troppo scure e quella lingua di troppe consonanti la tragedia finirà nel cassetto della memoria dove pinziamo le fotonotizie dell’estero esotico.

In fondo una carneficina a Pasqua è un modo per grigliare anche Dio, se possibile, e così metterci dentro tutto l’odio possibile, tutto l’odio che ci sta nello spazio tra la festa, il santo e i bambini in un parco giochi. Roba da perdere di colpo le coordinate del vivere civile, le istruzioni dello stare insieme, i freni del diritto e la forza di restare in equilibrio.

Ma per un terrorista che si sente in guerra per conto di chissà quale suo dio non ci sono ammazzamenti peggiori o infamie e lodi: il terrorismo è per nascita cieco perché ha bisogno del buio per giustificarsi davanti a se stesso e mentre noi misuriamo i lati del terrore in realtà loro, i vigliacchi in polvere da sparo, hanno ancora di più la soddisfazione di scoprirci capaci ogni volta di un lutto più appuntito.

I morti di Lahore hanno lo stesso sangue di tutti i morti del mondo. Dei morti che nemmeno vengono scritti qui da noi e anche degli stessi che ci fanno scendere in piazza. Distinguerne il peso, la qualità e il costo in base ai luoghi è il primo magnifico regalo che possiamo fare ai professionisti del terrore: appena cadiamo nell’errore di vivere pietà differenti siamo già pronti per essere ammaestrati agli schieramenti, al fronte e alla guerra. Tenere la barra dritta. Almeno questo. Ognuno.

Buon lunedì.

Scovare la bellezza in ogni angolo della realtà. Duecento foto di Giacomelli

Da Presa di coscienza sulla natura (1977-2000). Campagna marchigiana

Preferiva pensarsi un fotografo non professionista, per potersi dedicare li- beramente alla ricerca sull’immagine. Autodidatta, che per anni ha lavorato in una tipografia di Sinigallia, Mario Giacomelli (1925- 2000) è riuscito negli anni a sviluppare una propria originale poetica al tempo stesso semplice, scabra e raffinatissima. Come si può vedere dal vivo visitando la mostra La figura nera aspetta il bianco, (fino al 29 maggio) curata da Alessandra Mauro nel Museo di Roma (in Palazzo Braschi).

Prodotta da Forma fotografia e dall’Archivio Giacomelli di Senigallia la retrospettiva propone duecento opere, dalla prima foto al mare agli ultimi scatti. Per conoscere Giacomelli più da vicino, c’è l’intenso reportage di Lorenzo Massi Cicconi, dvd più libro, pubblicato da Contrasto così come il catalogo che accompagna questa antologica romana. Due volumi che permettono di ripercorrere tutta la carriera di Giacomelli, cofondatore del gruppo Misa, insieme a Cavalli, Branzi, Ferroni e Camisa. In mostra sono rappresentati tutti i suoi principali cicli “a tema”, iniziati con stile e modi da reportage, come ad esempio “Scanno” (1957/59), che nel 1963 fu acquistato da John Szarkowsky, curatore del Moma di New York dando una svolta alla carriera del fotografo marchigiano e poi “Puglia” (1958) e “Zingari” (1958). E ancora: “Un uomo, una donna, un amore” (1960/61), “Mattatoio” (1960) e “Pretini” (1961/63).

Del 1964/66 è uno dei suoi cicli più noti “La buona terra”, al centro c’erano vasti campi arati dai contadini secondo i suggerimenti del fotografo: in qualche modo potrebbe essere considerato un esempio di Land art ante litteram, come è stato notato da alcuni critici.Nel 1967, infine, il ciclo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”: dedicato agli ospizi, accompagnati nel titolo da richiamo alla poesia di Cesare Pavese. L’amore per i versi dei grandi poeti è un filo rosso che percorre tutta la sua opera e nei suoi lavori diventa trasfigurazione lirica, capacità di cogliere la bellezza in ogni angolo di realtà, anche nei luoghi in sé più tristi. Completano il percorso espositivo “Il teatro della neve” del 1984/87 e alcune altre serie dedicate ai paesaggi della sua terra.

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Photo gallery a cura di Monica Di Brigida

La diplomazia del baseball, Srebrenica e Bruxelles. E ancora Idomeni. La settimana per immagini

Cubans and tourists strain in the rain to get a glimpse of President Barack Obama as his delegation visits Cathedral Square in Old Havana, Cuba, Sunday, March 20, 2016. Obama's trip is a crowning moment in his and Cuban President Raul Castro's ambitious effort to restore normal relations between their countries. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

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Il negozio anti-‘ndrangheta. In casa della ‘ndrangheta

L’appuntamento è in corso Vittorio Emanuele, lungo la strada che costeggia il lungomare di Reggio Calabria. La giornata è piovosa. Al civico 41 due soldati in mimetica, mitragliette al braccio, presidiano un ingresso. Dietro la porta, c’è la “Sanitaria Sant’Elia” di Tiberio Bentivoglio. Il negozio di una vittima della ’ndrangheta. Dentro un bene confiscato alla ’ndrangheta.
«Qui ci sono le scarpe per adulti, qui il reparto per bambini, qui è l’area biberon». Tiberio mi accompagna a visitare i 240 metri quadri della sua nuova sanitaria. Mancano poche ore all’apertura, che si terrà il 15 marzo. Tutto intorno, c’è ancora il brulicare degli operai a lavoro. E poi la moglie Enza e i figli. E ci sono pure molti reggini, che passano per dare una mano o anche solo per portare un caffè. Per sostenere questa piccola rivoluzione, in città, è nato anche un comitato promosso da Libera, che sotto il nome di “Un seme per Enza e Tiberio Bentivoglio” ha raccolto più di 43mila euro per pagare i lavori e riacquistare la merce andata distrutta.

«Abbiamo lavorato tutti», conferma soddisfatto Tiberio: «Ora ci dobbiamo lasciare alle spalle la puzza di bruciato», riferendosi a quel che resta del suo deposito, dato alle fiamme il 29 febbraio, e che ancora sta fumando in un’altra parte della città. Ma adesso siamo qui, in centro città. Nei locali che un tempo ospitavano la sala giochi “Trocadero”, uno dei 260 beni confiscati al “re del videopoker”, Gioacchino Campolo, a maggio del 2012. Ora che la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 16 anni per Campolo (accusato di estorsione aggravata dalle modalità mafiose nei confronti di alcuni dipendenti delle sue aziende), i suoi beni sono passati alla confisca definitiva. Incluso questo. È la prima volta in Italia che un imprenditore ottiene l’utilizzo di un bene confiscato alle mafie. La legge 109/96 – che Tiberio definisce «monca» – prevede che i beni immobili possano essere concessi gratuitamente ad associazioni, istituzioni e cooperative sociali, o dati in affitto alle imprese.

«Allora il lavoro pulito non ha carattere sociale?», si chiede con tono retorico Tiberio. «Oggi stiamo dicendo agli altri imprenditori: entrate nei beni dei mafiosi e dite loro: “Non solo mi rifiuto di pagarti il pizzo, ma entro pure nel tuo bene per lavorare onestamente”». Per dirlo, Bentivoglio, ha accettato di pagare un affitto per questo spazio, concordandolo con il Tribunale di prevenzione prima e con l’Agenzia per i beni confiscati poi (dal momento in cui a ottobre 2015 il bene è passato alla confisca definitiva). E tra pochi mesi il suo affittuario sarà il Comune di Reggio Calabria. «E non pensare che sia più facile!», mi avverte Tiberio. «Perché guarda che la burocrazia aumenta continuamente».


 

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La Sinistra non interessa più. Il suo declino non fa notizia

La Sinistra sembra non interessare più. Non fa notizia il suo declino. Fanno notizia solo le liti tra coloro che ad essa si appellano, per rappresentarne la memoria più che per cercare di attuare politiche coerenti ai suoi ideali. Nella democrazia del mercato i voti contano come i denari – bisogna averne tanti per contare e quindi conta vincere le elezioni. E poiché la Sinistra non porta voti non fa vincere, viene messa in soffitta, un luogo dove si va per aprire scatole impolverate e pieni di ricordi. Ma perché la Sinistra è in sofferenza e il suo destino non interessa più?

Potremmo dire, cercando di rispondere a questa difficile domanda, che la sofferenza della sinistra democratica segnala la difficoltà di trovare un punto di riferimento solido che stia oltre le figure politiche individuali, oltre i leader rappresentativi, e invece nei processi sociali e nelle costruzioni ideali che tengono insieme forme collettive. è nel partito che le trasformazioni e le ricerche possono e devono trovare radicamento, in un movimento collettivo. Ma oggi mentre ci sono molti “eghi” di sinistra manca una leadership collettiva di sinistra. La leadership in solitudine non basta e in alcuni casi può essere ostruttiva del processo di trasformazione.

La difficoltà a tenere insieme un’unione politica organizzata è segno di una difficoltà più radicale. Quella di tenere insieme libertà e giustizia – un problema classico, che ritorna ogni qualvolta una crisi economica lacerante e profonda impone agli attori politici, ai cittadini e ai leader, di scegliere.  In un clima di scarsità delle risorse, come è quello in cui ci troviamo, finita la fase di crescita espansiva dei consumi e della programmazione via Stato della redistribuzione della ricchezza tra eguali cittadini della nazione democratica, la Sinistra nei Paesi occidentali, ed europei soprattutto, ha cominciato a registrare una reale crisi di identità e un declino di identificazione.  Si tratta di un fenomeno non recentissimo e che ha preso i caratteri specifici dei Paesi di appartenenza.

La crisi della cultura della Sinistra – crisi delle idealità socialiste e rivoluzionarie- è da cercare nel mutamento radicale della concezione di progresso e di giustizia sociale. La visione che circola egemone oggi è che i diritti sociali, una eguale distribuzione delle opportunità, l’assicurazione pubblica sulla salute e la vecchiaia siano richieste troppo costose e addirittura dei “lussi” o dei “privilegi”. Privilegi perché distribuiti a “pioggia” fra tutti – sembra oggi che essere cittadini eguali (sovrani democratici) non sia più una ragione sufficiente per condividere opportunità e costi.  L’uguaglianza di opportunità e la condizione per formare le capacità individuali: questi non sono più obbiettivi pubblici e del pubblico.  E infatti, sembra che il pubblico non sia per tutti nel caso delle questioni sociali ma solo per chi ne ha bisogno ed è bisognoso  – bisogna meritarselo. E merito significa in questo caso che non si è poveri abbastanza per meritarsi il sostegno del pubblico. 

Il pubblico è mutato di segno e di significato – prima di tutto perché gestito secondo i metodi e i criteri delle aziende (non si scelgono come sindaci dei buoni affaristi o amministratori delegati?) che non conosce l’etica dell’equa distribuzione ma la logica del profitto. è in questa cornice che si ritiene e si sostiene che il pubblico debba designare un intervento che deve essere meritato: pubblico come rete di carità per cittadini bisognosi. Chi può deve farcela da solo e, anzi, deve sentirsi orgoglioso di farcela da solo. Quindi aiuto pubblico designa una condizione di fallimento. è dalla connesione tra bisogno e merito che parte la sofferenza della sinistra.


 

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Difendiamo le nostre libertà

Appena saputo delle stragi di Bruxelles, Vauro ha disegnato per Left una colomba che affoga nel mare del sangue. L’avete vista in copertina. La colomba della pace, la colomba ferita delle libertà che Picasso dipinse all’indomani del bombardamento nazista di Guernica, la colomba della Pasqua. Dobbiamo salvarla e curarla quella colomba.

Non possiamo sopportare le nostre città insanguinate da gente che bestemmia dio ammazzando all’ingrosso. Non possiamo permettere che libertà e diritti, ricevuti in dono dai nostri padri e dai loro padri, siano messi in pericolo dalla bestialità di chi aborre la civiltà e vorrebbe riportarci tutti a un tempo lontano in cui gli uomini scorticavano i nemici o li impalavano.

Per prima cosa, nervi saldi: non sopravvalutiamo il nemico. Le cellule dormienti di Bruxelles sono state richiamate in servizio perché la Testa del Serpente non sopportava l’affronto subito da quel Salah, celebrato il 13 novembre come ottavo “martire” ma che invece s’era tolto la cintura e che ora collabora con le polizie occidentali. I capi terroristi hanno paura. Temono di perdere il mito dell’invincibilità, costruito con pazienza dalla loro propaganda: l’idea che chi sceglie di morire non possa essere sconfitto da chi ama la vita. Perciò hanno ordinato agli adepti di farsi saltare in aeroporto e lasciare bombe nella metro.

Non sottovalutiamoli neppure. Un rapporto riservato della polizia francese racconta come le false identità, per i kamikaze del 13 novembre, fossero state costruite con cura estrema, da professionisti. E come la scelta di organizzare l’attentato parigino a Bruxelles tenesse ben conto dei buchi – poi risultati evidenti – nella collaborazione tra le polizie belga e francese.
Decidiamo di condividere, fra tutte le polizie europee, i dati sensibili che riguardano l’Is e i suoi assassini. Le polizie, non gruppi di Rambo né ombre dell’intelligence. E costruire una procura europea, a immagine del pool antimafia, che bracchi in ogni Paese dell’Unione i terroristi islamici.

Non basta: bisogna sfrattarli dai territori che occupano tra Siria e Iraq, da Mosul, Ramadi, Daqqa. Senza mandare scarponi europei nel deserto: non servono. Basta assicurare tutto l’appoggio necessario ai combattenti curdi, a quelli sciiti, alawiti, cristiani e sunniti che rifiutano il califfato, e agli eserciti “ufficiali” di Bagdad e Damasco. È decisivo perché è provato come la trasformazione in kamikaze del delinquente convertito passi sempre per un viaggio iniziatico nelle terre del Daesh. I bombardamenti? Le bombe, per niente chirurgiche, sono servite a mantenere ambiguità e coperture nei confronti della zona grigia del terrore. Finanziatori, ideologi wahabiti e chi combatte i nemici del Daesh.

Rompere con tali connivenze non sarà facile, perché il rapporto privilegiato degli Stati Uniti con la dinastia di Saud dura dai tempi di Roosevelt, e Hollande ha appena insignito un principe di quella dinastia con la Legion d’Onore. La Turchia che bombarda i curdi, poi, fa parte della Nato ed è – lo sappiamo – la porta d’Europa per i profughi. Prezzo alto, ma necessario.

C’è infine una lotta politica, ideale e culturale da condurre. Gridiamo forte che amiamo le libertà, che difenderemo i diritti di ognuno, e manterremo il carattere aperto delle nostre città. Gridiamo che chi ammazza in nome di dio bestemmia dio. Che chi insegna a un bambino come si sgozza un uomo, non è un uomo. Che chi distrugge una città d’arte è una bestia.

Questo articolo continua sul n. 13 di Left in edicola dal 26 marzo

 

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