Home Blog Pagina 1171

Un governo antimafioso con le pallottole degli altri

Quindi alla fine il testimone di giustizia Ignazio Cutrò ha deciso di darsi fuoco. Oltre ad avere denunciato la mafia di Bivona (profonda Sicilia) deve lottare con un governo che riesce a fare addirittura peggio dei precedenti. Per quello che riguarda la protezione testimoni Renzi e compagnia bella (nella persona del grigio viceministro Filippo Bubbico), il cosiddetto centrocentrocentrocentrocentrosinistra riesce a fare peggio del governo di centrodestra. Del resto una Rosy Bindi come presidente della Commissione Antimafia (sfanculata da un Vincenzo De Luca, per intenderci) è la perfetta fotografia di un imbarazzo istituzionale che investe una delle squadre meno preparate degli ultimi trent’anni. Va bene così: per Renzi la mafia è al massimo una pisciata fuori dal vaso di qualcuno del M5S e anche i valorosi antimafiosi di centrosinistra, che si dicevano pronti a denunciare il proprio partito, sono rientrati nei ranghi come pecorelle quasi smarrite.

Al massimo si aggira in giro per la “società civile” (che è ormai il cassonetto dell’umido della politica) qualche politico autonominato “civile” che con far direttorio ambisce ad una fetta in commissione per non sparire nel gorgo delle bucce sbucciate da Renzi. La Commissione Antimafia finge di indagare sulla mafia nell’antimafia (che alla fine è tutta zuppa che bolle intorno al PD) mentre si dimentica della tanta antimafia non convenzionale che continua ad agire gratuitamente. Gratis. Pensa te che coglioni, in un campo in cui piovono soldi per un passaggio minimo in odore di eroismo e santità.

Così mentre i testimoni di giustizia impazziscono per l’incuria di Stato si corre tutti a celebrare Lea Garofalo, testimone di giustizia pure lei, che lo Stato aveva deciso di abbandonarlo da un pezzo, preferendo i parenti mafiosi piuttosto che una coltre di protezione pronta ad additarla come esaltata pazza piuttosto che proteggerla. Del resto antimafiosi bisogna imparare a sembrarci, senza rischiare di denunciare qualcuno, così da ottenere tutti i benefici riuscendo a non farsi nemmeno una mezza tacca di nemico.

L’antimafia trasformata in sculettamento è il gradino più basso che ci si potesse aspettare: questi si fregiano di avere inventato «l’antimafia moderata» che non rompe le scatole a nessuno, come una ciambella con un buco che non si nota, come un governo di pseudosinistra che conia azioni di destra.

Però commemorano tutti. Anche Peppino Impastato, se serve per aprire la bocca stupita di qualche classe di liceo dentro la frigidità del parlamento. Senza sapere, poveri loro, che Peppino sarebbe andato fiero a prenderli tutti a calci nel culo, questi antimafiosi paramassoni e inetti, che esibiscono un tesserino parlamentare come unico certificato di coraggio. E intanto il Paese gocciola coraggiosi che si arrendono, che alzano la mano perché non ce la fanno più: e al nucleo di protezione esultano per essere riusciti a tagliare le spese.

Tagliano il coraggio e lo chiamano guadagno. Chissà come ridono, quegli altri.

Buon giovedì.

Trump “il bambino di 5 anni” e le primarie repubblicane nel caos

Per otto mesi tutti, a partire da Donald Trump, hanno giurato che chiunque si sarebbe presentato con più delegati alla convention repubblicana di Cleveland, lui lo avrebbe lealmente sostenuto. Stessa cosa avevano fatto tutti gli allora 16 candidati alle primarie. Non è più così, durante un’intervista con Anderson Cooper della Cnn, il miliardario destinato a vincere le primarie (ma probabilmente non con il 50% dei delegati) ha spiegato che non è più certo di mantenere quella promessa. Nella stessa intervista Trump ha anche difeso lo scambio di insulti via Twitter sulle rispettive mogli con Ted Cruz sostenendo che «non ho cominciato io, ha cominciato lui» . Anderson Cooper, nel video qui sotto, gli risponde: «Ha cominciato lui è un argomento da bambino di 5 anni». Trump aveva postato una foto della moglie di Cruz dicendo «vorreste una così come first lady?».
Cooper non ha tutti i torti, ma evidentemente c’è un pezzo di America che ammira i ragionamenti semplici e le maniere forti: il manager della campagna di Trump è indagato per aver strattonato una giornalista e il video – e la sua esegesi fotogramma per fotogramma, in fondo all’articolo una Gif – è su tutte le prima pagine dei siti d’America. Una risposta simile a quella di Trump la hanno data Ted Cruz e John Kasich, aggirando un po’ la domanda e senza nominare il miliardario. Nel partito repubblicano, dentro e fuori di esso, è insomma in corso una guerra totale termonucleare che potrebbe arrivare alla convention. Che a sua volta sarebbe uno spettacolo entusiasmante dal punto di vista dello show, ma un po’ meno per il destino del partito che fu di Reagan.


Trump sente, a ragione, di essere stato trattato in maniera poco equa: Romney, Bush, Scott Walker e molti altri stanno facendo carte false per cercare di spingere la gente a votare Ted Cruz, nonostante anche il senatore del Texas sia indigesto alla parte moderata del partito. Il problema, sembra id capire, è quello della sopravvivenza del partito repubblicano: un candidato perdente ma proveniente dalle fila del partito è meglio di qualcuno controverso come Trump, che non si sa bene cosa pensi e dove vada.
Il succo di questa vicenda è che un partito che ha nutrito gli elettori con bassa retorica, allarmi infondati e paure (di Obama, della riforma sanitaria, dell’immigrazione, dei musulmani e del terrorismo) oggi si trova a fare i conti con la sua base arrabbiata, che giudica la testa del partito incapace di ottenere nulla o fermare Obama, nonostante la maggioranza in Congresso, e che sceglie di votare i due outsider. Prima Trump e poi l’estremo Cruz, trattato da tutti come un paria in Senato, scansato dai suoi colleghi repubblicani e oggi ultima carta da giocare.
Non la pensa così Marco Rubio, che nella lettera che vedete qui sotto annuncia di non voler rinunciare ai delegati ottenuti mentre la sua campagna per le primarie era in corso. Obbiettivo? Non si sa mai: se la convention davvero fosse completamente aperta, il buon Marco potrebbe provare a rientrare dalal finestra come la figura che tiene assieme conservatori e moderati. Sarebbe divertente.

Chi invece spera in una vittoria di Trump è la attrice Susan Sarandon, pasionaria di sinistra e sostenitrice di Bernie Sanders. In un’intervista Tv, Sarandon è arrivata a dire che se Bernie non sarà il nominato democratico, forse è meglio che vinca il miliardario. È la vecchia teoria del tanto peggio tanto meglio: se Trump venisse eletto ci sarebbe la rivoluzione proletaria, sembra sostenere Sarandon. Un po’ una sciocchezza. La differenza tra Sarandon e i repubblicani è che lei può dire quel che vuole: fa un po’ di rumore in rete, ma non è candidata alla poltrona più importante del pianeta.

Lewandosky è il manager della campagna Trump, Fields la giornalista bloccata e strattonata

Il balletto e le tardive stoccate di Marino. Che presenta il suo libro

L'ex sindaco di Roma Ignazio Marino presenta il suo libro "Un Marziano a Roma" nella sede della stampa estera, Roma, 30 marzo 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Continua il balletto di Ignazio Marino che non dice «mi candido» ma neanche «non mi candido» e neanche «sostengo Tizio» o fosse pure «sostengo Caio». Dice Marino che non è lui che fare il balletto ma che è la stampa a suonare la musica, rimuovendo però che lui ha realmente incontrato più volte esponenti della sinistra più varia, compreso Massimo Bray il cui nome continua a girare con insistenza. E che ha incontrato tutti nel suo salotto.

Non dà neanche particolari giudizi sugli altri candidati, salvo dire che nessuno gli sembra degno di una capitale del G7, che dai 5 stelle «non ci si deve far ingannare», e salvo storpiare in un lapsus perfetto il nome di Giachetti in Riccardo. Ignazio Marino nel presentare la sua fatica letteraria (Un marziano a Roma, Feltrinelli) ripete gli ormai consueti attacchi al Pd, da Matteo Renzi in giù.

«Evidentemente il nostro capo del Governo non ama Roma», dice Marino, che nel libro ricostruisce ad esempio gli incontri avuti in ministero in cerca di finanziamenti per alcuni cantieri e per il Giubileo, finanziamenti mai arrivati, fino all’arrivo del commissario Tronca, fino alla cacciata del sindaco indesiderato. È però su Matteo Orfini che il saggio di Marino regala i passaggi più divertenti. Non risparmia stoccate, il marziano, che mentre Orfini nel salotto di casa sua apriva ufficialmente la crisi con il Pd, all’inizio dell’estate, dice che non riusciva a pensare ad altro che al fatto che il suo interlocutore fosse uno senza laurea, che avesse lasciato l’università per «vivere di sola politica».

Snobismo dell’antipolitico, è quello di Marino, ma non solo. Il libro è ricco di aneddoti, di giudizi purtroppo tardivi su assessori e consiglieri. Le sigarette di Fabrizio Panecaldo fumate al chiuso in una sala con un importante arazzo, «rovinato dal fumo», le scenate di Mirko Coratti, presidente del consiglio poi travolto da Mafia Capitale. Giudizi tardivi però, dicevamo, come tardivo è il giudizio su Stefano Esposito e Marco Causi, assessori inviati da Renzi in occasione di un primo rimpasto: «Non mi aspettavo fossero dei sabotatori», dice Marino che in quell’occasione accompagnò anche fuori dalla maggioranza Sel e la sinistra. Solo oggi, di Causi, Marino nota come fosse stato protagonista della stagione di Veltroni, già assessore al bilancio, o meglio all’enorme debito. Solo oggi di Esposito si notano le prodezze contro i No Tav. Quando i due arrivarono in Campidoglio erano invece «una risorsa».

“La comune” ovvero l’utopia del vivere insieme raccontata nel nuovo film di Vinterberg

La Copenhagen degli anni 70. Un quartiere borghese e una casa da sogno ereditata, ma troppo grande perché Erik e Anna possano permettersi di vivere lì. Complice la mezza età dei protagonisti e la voglia di rompere la noia della coppia e della famiglia tradizionale i due decidono di condividere le spese con altre persone e trasformare la loro abitazione in una comune. Questa è la trama da cui prende le mosse La comune l’ultimo film del regista danese Thomas Vinterberg distribuito da Bim nei cinema italiani a partire dal 31 marzo.

La pellicola ha molto di autobiografico: «Dall’età di 7 anni fino a 19 – racconta Vinterberg – ho vissuto in una comune. È stato un periodo folle e fantastico, pieno di calore, corpi nudi, birra, discussioni intellettuali, amore e tragedie personali. Da bambino mi sembrava di vivere ogni giorno come in una fiaba. Mi bastava compiere il semplice tragitto che mi portava dall’intimità della mia camera da letto fino alle aree comuni, per godere di una varietà straordinaria di scenari offerti dalle mille eccentricità degli altri residenti».

Questa stessa atmosfera è quella che infatti ritroviamo nel film, in cui il “palcoscenico” corrisponde per lo più proprio con l’ ambiente e la dimensione della casa ereditata da Erik. È qui che, in una singolare metonimia della società, si incontrano e si intrecciano i destini e le vicende dei personaggi. Ognuno dei quali, a suo modo è un idealista e sognatore che finisce a dover fare i conti con la realtà. Con l’impossibilità di razionalizzare qualsiasi dolore e qualsiasi sentimento, con la morte che irrompe all’improvviso e a gamba tesa a travolgere la vita, con l’amore che dimentica il desiderio e si trasforma in voler bene senza più bastare, con il tradimento, con la pubertà della giovinezza che sboccia e la vecchiaia nella quale ci si sente sfiorire.

008-The-Commune-Trine-Dyrhold-Ulrich-Thomsen-Photo-Ola-Kjeldbye

Questi sono solo alcuni dei temi attorno ai quali la pellicola dipinge un ritratto dolce amaro dell’utopia del vivere insieme. Un’utopia costruita su delle regole che, anche se stabilite a tavolino nel modo più democratico possibile, non bastano a contenere l’imprevedibilità delle esistenze dei protagonisti, rivelandosi sempre in qualche modo spietate.

007-The-Commune-Trine-Dyrhold-Ulrich-Thomsen-Lars-Ranthe-Magnus-Millang-Anne-Gry-Martha-Wallstroem-Sebastian-Millbrat-Framegrab

Il film è stato presentato alla 66esima edizione del Festival di Berlino, dove Trine Dyrholm (Anna) si è confermata una delle interpreti più talentuose della sua generazione vincendo l’Orso d’Argento come miglior attrice.

306-The-Commune-Trine-Dyrholm-Framegrab

L’altro volto dell’Eni nel libro inchiesta di Oddo e Greco

piattaforma Eni

Dopo la pubblicazione su Wikileaks delle note dell’ambasciata americana a Roma sugli ambigui rapporti tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin indirizzate al dipartimento di Stato, nel 2010  Giuseppe Oddo e Andrea Greco scrissero una serie di articoli per i rispettivi giornali, Il Sole 24 Ore e per Repubblica, sulle attività dell’Eni in Kazakistan e in Russia. Furono i  primi a denunciare i retroscena dell’affare Mentasti, ovvero «il tentativo dell’ex industriale dell’acqua minerale San Pellegrino, Bruno Mentasti Granelli (prestanome di Berlusconi in Telepiù), di inserirsi nella vendita e nella distribuzione di gas in Italia in compartecipazione con Gazprom. La notizia ci  era apparsa quasi surrealericorda Oddo -.Mentasti non aveva alcuna competenza nel gas, dove operano a monte i colossi dell’energia e a valle le grandi società di distribuzione». Cosa portava a un gigante come Gazprom, che detiene le più grandi riserve mondiali di metano ed è una sorta di braccio armato del Cremlino nell’energia? «Il fatto che Mentasti fosse una pedina di Berlusconi divenne certezza quando si seppe dei retroscena dell’accordo con i russi e delle pressioni subite dal vertice dell’Eni per accelerarne la conclusione».

Da lì nacque l’idea del libro inchiesta Lo Stato parallelo che fu subito accettato da Lorenzo Fazio fondatore e direttore di Chiarelettere che ora manda in libreria questo saggio che ricostruisce la storia dell’Eni illuminando molte pagine fin qui ancora buie. La base del lavoro dei due giornalisti è stata la raccolta di fonti orali, lo studio di centinaia di documenti, di atti, non limitandosi alla saggistica e a quanto era già uscito sui media. «Quando telefonai a Greco per coinvolgerlo in questa avventura lui stava completando con Peppino D’Avanzo e Federico Rampini un’inchiesta sugli affari tra Berlusconi e Putin, di cui La Repubblica stava per dare alle stampe la terza ed ultima puntata.  D’Avanzo, poi scomparso, e al quale dedichiamo il libro, ci spronò a realizzare una grande inchiesta sull’Eni dei tempi moderni». Era solo l’inizio.

«Da lì in poi abbiamo pedalato in salita per cinque anni, recuperando documenti, atti, bilanci, testimonianze. Abbiamo intervistato quasi tutti i protagonisti di questa storia, molti dei quali sotto vincolo di riservatezza. Abbiamo raccolto decine di ore di registrazione». Da cui emerge una puntuale ricostruzione delle vicende dell’Eni degli ultimi venticinque anni, fin dall’inizio pensata da Enrico Mattei come un ente  che operava largamente in maniera autonoma  La congiuntura allora era quella di un’Italia uscita a paezzi dalla guerra e sostanzialmente subalterna agli Stati Uniti. Ma ben presto, scrivono i due autori, L’Eni prese la forma di uno Stato nello Stato che operava  anche in maniera autonoma rispetto agli indirizzi dati dalla Farnesina, «arrivando poi nel grande gioco del petrolio a dispensare tangenti e a tenere rapporti anche con personaggi impresentabili della P2».

«Dei quattro amministratori delegati che sono stati alla guida del gruppo dalla sua trasformazione in Spa – dichiara Oddo – solo uno non ha accettato di rispondere alle nostre domande, Paolo Scaroni. E hanno lasciato cadere la richiesta di un confronto anche Licio Gelli e l’ex ambasciatore libico a Roma Hafed Gaddur. Al primo avremmo voluto chiedere dei suoi incontri con Eugenio Cefis, succeduto a Enrico Mattei alla presidenza dell’Eni, al secondo dei suoi rapporti con il potere libico e del comitato d’affari che si riuniva a Salisburgo su iniziativa di Saif al-Islam Gheddafi».

Il filo conduttore del  libro è l’Eni  “come Stato”, come pilastro della politica energetica di un Paese povero di petrolio, «ma dotato di un’industria manifatturiera tra le più importanti d’Europa, promotore di una politica estera in contrasto con gli interessi anglo-americani, volta a ottenere l’accesso alle fonti di idrocarburi, strumento di finanziamento occulto dei partiti – ricostruisce Oddo – durante tutta la prima repubblica, al centro dei più gravi scandali nazionali, da quello dei petroli all’Eni-Petromin, dal crack dell’Ambrosiano a Mani pulite, dalla P2 alla P4».

Un punto cruciale della vicenda è il  1992, con la trasformazione in società per azioni degli enti a partecipazione statale e con l’avvio di Mani pulite. «Per l’Eni  fu l’anno della svolta, con la ritirata dei partiti e dello Stato (che dopo la quotazione in Borsa del gruppo scende al 30%), con il ricambio del management, la dismissione delle attività non petrolifere, il ritorno alla ricerca, all’esplorazione e alla produzione di petrolio e gas. Questa fase si è protratta fino al 2005, prima con Franco Bernabè poi con Vittorio Mincato alla guida. È il periodo dell’espansione in Africa, Medio Oriente, Asia centrale, della crescita per acquisizioni, della conquista dell’operatorship del giacimento supergigante di Kashagan nell’offhsore kazako del Mar Caspio, del gasdotto tra Russia e Turchia, del metanodotto tra Libia e Sicilia».

Poi, nel 2005, sostengono Oddo e Greco, con Scaroni amministratore delegato, si aprì una fase nuova con i prezzi del petrolio in forte crescita e l’Eni trasformata in cassaforte dello Stato a cui versa dividendi miliardari in parte sottratti agli investimenti. «La grande fusione immaginata da Mincato, per fare della compagnia un colosso da oltre 2 milioni di barili equivalenti di greggio al giorno, finisce nel cassetto. E oggi, con il petrolio crollato a 30 dollari, il gruppo è costretto a battere in ritirata da petrolchimica e raffinazione e a cedere allo Stato parte del controllo di Saipem per far fronte ai quasi 9 miliardi di perdite contabilizzati nel 2015».

lo-stato-parallelo-eni-andrea-greco-giuseppe-oddo-775457IN LIBRERIA

Nel libro Lo Stato parallelo (Chiarelettere) Giuseppe Oddo de Il Sole 24 Ore e Andrea Greco di Repubblica hanno ricostruito tutta la storia dell’Eni illuminando molte pagine controverse. Inchiesta non facile, la loro che ha incontrato ostacoli, reticenze, resistenze di ogni tipo. Perché la verità che emerge  è una verità scomoda: L’Eni è un colosso industriale controllato dallo Stato, che ha agito come uno Stato nello Stato. Se l’idea di Enrico Mattei di assicurarsi l’accesso alle fonti di energia dando vita a una sorta di Stato parallelo nasceva nel contesto di un’Italia uscita a pezzi dalla guerra e, di fatto a sovranità limitata, poi lo scenario è diventato ben altro. «Siccome il petrolio si è sempre incrociato con il commercio delle armi e con la criminalità organizzata, tutti i grandi Stati, sia per ragioni difensive e offensive, sia per capire le implicazioni di certe transazioni, hanno sempre interferito», dice l’ ex ministro Psi Rino Formica in una dischiarazione che i due autori pubblicano ad esergo del libro. Accanto ad una dichiarazione di un dirigente dell’Eni che vuole restare anonimo: «Qualche tempo fa la P4 la incontravi nei corridoi di San Donato. Ora che l’abbiamo cacciata siamo un’Eni più libera, ma anche più indifesa».

Firenze si sveste! La protesta delle aziende della moda

Firenze si sveste!, è lo slogan di uno sciopero-manifestazione che si svolge questa mattina a Firenze. “Si sveste” perché in effetti riguarda un’azienda di abbigliamento, uno dei marchi che vanno per la maggiore, la Guess, ma che, in maniera simbolica riguarda molte industrie del comparto moda che hanno sede nella provincia fiorentina. La protesta di oggi, spiega Bernardo Marasco, segretario della Filctem Cgil di Firenze, nasce dalla decisione della Guess di trasferire in Svizzera, a Lugano il centro “stile” e produzione, in tutto 90 persone. Il corteo partirà alle 9 da via degli Speziali davanti al negozio Guess per poi arrivare alle 11 in via dei Tornabuoni, davanti al ponte Santa Trinita. «È uno svuotamento dell’attività che si è sempre svolta qui da noi, poiché rimarrebbe solo il commerciale», dice Marasco.

Ma il caso Guess è solo uno degli ultimi che investono il settore moda in quello che da sempre è un distretto “vocato” per natura. La moda e il fashion sono iscritti nel Dna della piana di Firenze con 12mila addetti tra quelli impiegati nelle aziende “madri” e in quelle dell’indotto, non sono uno scherzo. Gucci, Ferragamo, Fior, Celine, Prada, Luis Vitton, solo per fare qualche nome, si nutrono delle professionalità fiorentine.
Da qualche tempo si vedono segnali particolari. O meglio, segnali che parlano di «un vero processo di ristrutturazione con rilocalizzazioni, il cosiddetto re-shoring, il rientro di attività che però necessitano di un governo. Questo processo non va lasciato al caso», sottolinea il sindacalista della Cgil.
Ma ecco perché lo stato di salute della moda desta preoccupazione. In qualche anno diversi marchi hanno lasciato la provincia, «come Calvin Klein, due anni fa, Allegri 6 mesi fa, mentre per Cavalli è in piedi una vertenza di notevole difficolta», racconta Marasco. Sono 38 gli esuberi per lo storico marchio fiorentino che porta il centro stile a Milano. «Non abbiamo ancora un piano industriale per Cavalli», continua il sindacalista. Difficoltà ci sono anche per Braccialini che è interessata a una cassa integrazione straordinaria.
Ma il problema maggiore è la dimensione del fenomeno e la mancanza, secondo l’analisi di Marasco, di “un governo” del processo. Sta accadendo che alcuni marchi, nati da imprenditori locali, una volta cresciuti per dimensioni vengano a loro volta controllati da fondi esterni, che non hanno più l’interesse a mantenere il rapporto con il territorio. «Dall’altra parte notiamo che il rapporto delle griffe con il brand Firenze è sempre meno stretto e che viene considerato sempre meno fattore distintivo. Si considera più importante la qualità del processo industriale», continua il sindacalista. Questa sarebbe l’occasione quindi per creare anche nuovo sviluppo. Perché i marchi che ritornano – e ce ne sono – hanno bisogno di manodopera specializzata anche nel lavoro artigianale di qualità. «E allora si tratta di investire. Le istituzioni devono promuovere una politica di qualificazione del polo della moda fiorentino. Sia attraverso una basilare campagna di tracciabilità e legalità delle aziende ma anche soprattutto attraverso la formazione di nuove figure professionali».

La madre di Giulio che smutanda i potenti del mondo

Giulio Regeni's mother, Paola, during a press conference in Rome, Italy, 29 March 2016. The mother of slain Italian student Giulio Regeni said Tuesday she saw "the world's evil" on her son's face. Paola Regeni spoke today at a press conference in Rome. Regeni, 28, was a Cambridge University doctoral student and a visiting scholar at the American University in Cairo (AUC). He went missing on 25 January and his badly burned, stabbed and mutilated body turned up in a ditch on the outskirts of Cairo on 3 February. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Scatta qualcosa nelle madri che non si arrendono alla morte di un figlio che è chimica mischiata con le stelle. Se vi è capitato di incrociare gli occhi di una madre sopravvissuta ad un suo figlio forse avete provato quello sguardo che ti si ficca nell’esofago, arrampicandosi poi nel cervello. La madre di Giulio ieri, in un Senato che si sforzava di restare pettinato di fronte a così tanto dolore, ha vissuto una lezione di forza, etica, coraggio, intelligenza e umanità che rimbomberà per un bel pezzo.

È riuscita, Paola con il marito Claudio, a restituire alla politica i connotati umani che hanno sbriciolato a suo figlio, dando alle bugie la forma delle bugie senza esitazioni o sotterfugi, spogliando la verità di tutti gli ammennicoli che hanno cercato di servirci, pretendendo una forza e un’etica che forse questa politica non sa nemmeno chiamare per nome. Quello che avrebbe rischiato di passare per una lagna funebre ieri è stata une delle lezioni più alte della nostra Repubblica: raramente un discorso così schietto ha sfidato i potenti senza ricatti, puntato l’indice senza mediazioni.

Le veline, i depistaggi, quei marci sorrisi furbi sono stati spazzati dalla parola certificata di una madre: il suo dolore è il timbro, il suo racconto è l’unica autopsia a cui crediamo. E oggi, a riascoltarne le parole, viene da sorridere a pensare quanto Al-Sisi sia in mutande, senza gingilli militari, sputtanato senza bisogno di bombe o polvere da sparo.

È il giullare così autentico e forte pur piccolo che sbriciola il potere che ha bisogno di essere prepotente per governare perché non ne è capace semplicemente osservando le regole. È l’onore di polistirolo che mostra tutta la sua vigliaccheria. È la grandezza delle persone che schiaccia le pessime personalità. Hanno fatto più politica estera quei due genitori senza figlio che un governo di incravattati.

Buon mercoledì.

La famiglia Regeni al governo: «Se l’Egitto continua con i depistaggi, si richiami l’ambasciatore»

Il senatore Luigi Manconi con i genitori di Giulio Regeni Paola e Claudio in occasione di una conferenza stampa al Senato, Roma, 29 marzo 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il 5 aprile gli investigatori egiziani che indagano sulla morte di Giulio Regeni incontreranno i loro omologhi italiani e sarà, in un modo o nell’altro, un momento di verità. Sono molto chiari su questo, i genitori di Giulio– e con loro l’avvocato Alessandra Ballerini, il senatore Luigi Manconi e il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury.
«Se il 5 aprile sarà una giornata vuota confidiamo in una risposta forte del nostro governo. È dal 25 gennaio, da quando Giulio è scomparso, che attendiamo una risposta» dice Paola Regeni

La conferenza stampa della famiglia del ragazzo ucciso in Egitto è forte, chiara e rivolta soprattutto al governo italiano – e indirettamente a quello egiziano. Ma si apre con il racconto di Paola Regeni, del riconoscimento di suo figlio, sfigurato a tal punto da essere riconoscibile solo dalla puna del naso e «piccolo, piccolo». Le foto di loro figlio così ridotto dai suoi assassini e torturatori, i genitori non la vogliono mostrare, lo faranno, diranno più tardi, solo nel caso fosse davvero necessario per ottenere quelle risposte che Il Cairo non ha dato e cerca di non dare – e che l’Italia ha cominciato a chiedere solo dopo che la pressione è montata e l’attenzione dei media cresciuta.

L’intento della conferenza stampa lo sintetizza Luigi Manconi: «È il mio pensiero, ma l’ho condiviso con la famiglia Regeni – spiega il senatore – È evidente come all’interno del sistema di potere del regime egiziano sia in corso un conflitto e che anche intorno alla vicenda di Giulio ci sono posizioni e volontà diverse. A prevalere, fino a oggi, non è stato un orientamento che facesse prevalere la conquista della verità». Se dovesse continuare a essere così, la famiglia Regeni – e il senatore e Amnesty – chiedono che vengano fatti dei passi formali. Sebbene la fiducia negli investigatori e nei confronti del procuratore Pignatone sia «assoluta», è necessario che sia la Farnesina a muoversi con maggiore risolutezza. «Si deve porre con urgenza la questione del richiamo dell’ambasciatore per consultazioni, è una formula che rappresenta un gesto simbolico intenso per far capire che il nostro Paese segue con la massima serietà questo caso, considerandolo elemento discriminante per le relazioni in corso e future con l’Egitto. Occorre anche rivedere le relazioni diplomatico-consolari sapendo anche che alcuni atti concreti sono ineludibili. Ad esempio dichiarare l’Egitto “Paese non sicuro” da parte dell’unità di crisi della Farnesina».

Del resto, il caso del dottorando italiano è clamoroso, ma le persone egiziane che se la vedono brutta, muoiono o scompaiono sono molte di più. Persino il caso delle persone uccise e poi incolpate di aver rapito Giulio non è esattamente un emblema del rispetto dei diritti umani. «Le relazioni non devono essere interrotte, ma sottoposte a revisione attenta perché tra due Stati, la tutela dei diritti della persona non è un accessorio secondario, ma elemento fondativo del sistema di rapporti» conclude Manconi. L’importanza della pressione sull’Egitto viene sottolineata anche da Riccardo Noury di Amnesty, che spiega: «Anche dal Cairo ci dicono – ci fanno sapere – che è importante. Fare luce su questo caso è anche fare qualcosa per i diritti umani in Egitto. “Fatelo per noi” ci dicono».

Cosa ci si aspetta dall’incontro del 5 aprile? «Intanto vogliamo vedere se quell’incontro ci sarà. Un appuntamento simile era previsto prima del depistaggio fatto dopo l’uccisione dei cinque malviventi la scorsa settimana – spiega l’avvocato Ballardini – Gli egiziani dovrebbero portare i tabulati telefonici, eventuali video nei pressi della metro e nel luogo di ritrovamento del corpo, i verbali (che ad oggi non sono sufficienti) e molte altre cose: ad oggi non sappiamo nemmeno che vestiti indossasse Giulio al momento del suo ritrovamento». A proposito dei presunti rapitori-estorsori: chi terrebbe dieci giorni un sequestrato senza chiedere un riscatto? A volte succede che, in rapimenti come quello descritto dalle autorità egiziane, il rapito venga costretto a ritirare soldi a più riprese per darli ai malviventi. Bene, «Sul conto di Giulio c’erano 850 euro e dopo il 25 gennaio non ci sono movimenti registrati».

Tra le richieste – banali, scontate, ovvie – quella di tornare in possesso dei beni personali di Giulio mostrati alla stampa dopo l’uccisione della banda criminale su cui le autorità egiziane hanno tentato di far ricadere la responsabilità della morte del giovane italiano. «Molte delle cose su quel vassoio non sono di Giulio – spiega l’avvocato – ma oggi abbiamo avuto la notizia che sarebbero anche di altri sequestrati dalla banda stessa». Man mano che la versione egiziana viene smontata, la versione cambia, insomma. Prima di chiedere passi formali alle autorità italiane, «vogliamo notizie vere. Non abbiamo molti elementi, non sappiamo nemmeno che vestiti avesse addosso quando è stato ritrovato. E anche in relazione al depistaggio vorremmo sapere di più, vorremmo riavere gli effetti personali di Giulio e vogliamo osservare l’atteggiamento degli investigatori egiziani. Staremo a vedere se non ci saranno nuovi depistaggi prima di quella data». Se il 5 non ci saranno risposte concrete e credibili e un atteggiamento serio da parte egiziana, l’onere dell’azione sarà nelle mani del governo italiano.

Che reazione hanno avuto i coniugi Regeni di fronte al depistaggio? A rispondere è ancora Paola Regeni: «Ero in macchina che tornavo a casa quando è arrivata la notizia della morte di cinque persone al Cairo. Sono rientrata a casa e la prima cosa che ho detto a mio marito è “vedrai che ci diranno che sono stati loro”». È andata proprio così.

In this photo released by the Egyptian Ministry of Interior on Thursday, Mar. 24, 2016, personal belongings of slain Italian graduate student Giulio Regeni, including his passport, are displayed. Egypt's Interior Ministry said Thursday it has killed members of a gang suspected of being linked to the killing Regini student whose torture and death sparked an international outcry over possible involvement of Egyptian police in his brutal killing. The ministry said that police raided one of the men's houses and found the personal belongings of Regeni, including his red handbag bearing the picture of the Italian flag, his passport and other identification cards, including one belonging to Cambridge University, in addition to his cellphones. (Egyptian Interior Ministry via AP)

I genitori di Giulio devono rispondere anche a qualche domanda che non aggiunge elementi di verità alla vicenda e che davvero ha poco senso, perché segue alcune delle tracce date in un primo momento dalle autorità egiziane. Come fate a dire con certezza che vostro figlio non era una spia? Ora, a parte che pensare che gli egiziani facciano fuori una spia italiana dopo averla torturata è un po’ difficile da credere – tra Roma e Il Cairo le relazioni sono ottime, come ha mostrato la recente visita di Matteo Renzi, che in passato ha definito il generale al Sisi «un grande leader». Roma è il primo partner commerciale dell’Egitto e il ruolo de Il Cairo in Libia – e altrove – sono vitali per la politica estera italiana e dei suoi idrocarburi. E poi «Con nostro figlio parlavamo di tutto, a fondo e a lungo. Difficile che non trasparisse qualcosa di eventuali sue attività» spiega il padre. E la madre aggiunge: «Tra noi è nostro figlio c’era una relazione a distanza viscerale, forte, e per questo siamo in grado di dire e sentire che siamo sicuri di quel che diciamo». «Abbiamo visto gli appunti e letto le chat di Giulio, non ci sono elementi che rimandino ad attività di questo tipo» ci tiene ad aggiungere l’avvocato».

E no, Giulio non aveva paura di tornare in Egitto, non era preoccupato: «Giulio era contento e sereno prima di tornare in Egitto e guardava al 23 marzo, quando sarebbe rientrato definitivamente, come alla fine di un’esperienza, la conclusione della raccolta di informazioni per la sua ricerca». L’avvocato spiega anche perché, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa non si sia fatto troppo rumore: «Per i cittadini italiani fermati c’è una procedura informale – avviata da subito anche per Giulio – si cerca nei commissari e negli ospedali e poi, eventualmente, si aspetta la convalida dell’arresto, la formalizzazione. Nel caso di specie questo non è avvenuto e mentre passavano i giorni ci si rendeva conto che eravamo in presenza di qualcosa di diverso».
«Nessuno ha tentato di dissuaderci, perché hanno capito che, anche se non abbiamo strepitato molto, che non ci saremmo fermati. Userei la parola “carrarmato” per definirmi, ma preferisco non usarla. Oggi quasi non piango, sono bloccata e forse mi sbloccherò quando capirò quel che è successo a mio figlio. Io mi immagino quando avrà cercato di far capire chi era, magari parlando in arabo, in inglese, in italiano, in friulano. E poi mi vedo i suoi occhi che si dicono «Ma cosa mi sta succedendo? È possibile che capiti a me?Infine immagino cosa avrà pensato quando ha capito che una porta non si sarebbe più aperta. Mio figlio aveva le chiavi per capire cosa stava succedendo. Questa è la cosa che mi tormenta».

Antigone, Amnesty e la Coalizione Italiana per i Diritti organizza una partita di calcio a cui prenderà parte l’Atletico Diritti, la squadra di rifugiati di Antigone che milita in Terza divisione. Le organizzazioni invitano le tifoserie e le società professionistiche sportive a portare in campo e sugli spalti lo striscione che chiede “Verità per Giulio Regeni”.

Paola Regeni (s) in occasione di una conferenza stampa al Senato, Roma, 29 marzo 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Bertolaso non si ritira. Sinergie a destra? Meglio con Marchini che con la Meloni

Nonostante le indiscrezioni circolate negli ultimi giorni Bertolaso non ha nessuna intenzione di ritirare la sua candidatura a sindaco di Roma. I «sondaggi taroccati» non sembrano intimorire l’ex capo della protezione civile che si dice convinto a continuare la sua corsa e soprattutto non ha nessuna idea per il momento di allearsi con gli altri candidati del centrodestra, tanto meno con Giorgia Meloni che secondo gli ultimi dati sembra essere la preferita fra i candidati a destra.

Ecco il primo sondaggio su Roma. Che dite, quanto ci mettiamo a recuperare il 5,2% che ci separa dal ballottaggio?

Pubblicato da Giorgia Meloni su Giovedì 24 marzo 2016

Anche l’alleanza con Alfio Marchini, che già aveva provato a fare breccia nel cuore dei romani alle scorse amministrative, non sembra essere nei piani di Bertolaso che però ammette, intervistato a Radio Città Futura: «con Marchini non ci ho ancora parlato, ma registro che mentre gli altri chiacchierano su percentuali di sondaggi ed equilibri di potere, Marchini è l’unico, oltre a me, a parlare dei problemi dei romani». E questa potrebbe essere una ragione valida per dar vita a «possibili sinergie» fra i due. Espressione tanto fumosa quanto indirizzata a lasciare porte aperte e libertà di manovra nella corsa al Campidoglio del “city manager” gradito a Berlusconi. Sempre a patto, ben inteso, che Marchini «dia una mano con altro ruolo». La città può essere grande per entrambi, se il costruttore è disposto ad accettare di non essere un front man. «Non basta un uomo solo per risolvere i problemi della città» ha spiegato l’ex capo della protezione civile. E tanto meno una donna stando alle passate dichiarazioni sulla candidatura della rivale Meloni.

Dopo Bruxelles, quanto è grande e come funziona la rete dell’Isis in Europa?

In this image provided by the Belgian Federal Police in Brussels on Tuesday, March 22, 2016 of three men who are suspected of taking part in the attacks at Belgium's Zaventem Airport. The website of Belgium's Federal Police on Monday, March 28 began carrying a 32-second video of a mysterious man in a hat suspected of having taking part in the March 22 bombing of Brussels Airport. "The police are seeking to identify this man," the site says. The implication is that the suspected accomplice of the two airport suicide bombers could still be at large. (Belgian Federal Police via AP)

Gli attacchi di Bruxelles, la strage allo stadio in Iraq e altre passate o a venire ci indicano come Daesh sia divenuta una presenza diffusa e diversificata nelle vite di molti Paesi. Foreign fighters di ritorno, cellule terroristiche locali come quella che ha organizzato l’attentato suicida nei pressi di Baghdad e poi addentellati in Pakistan e giuramenti di fedeltà fatti da gruppi africani o asiatici.
Ma in Europa quanto è grande la rete di Daesh? Come funziona e quanto è comandata dal centro? È vero che gli attentati in serie sono una risposta alle sconfitte militari in Siria e Iraq? Difficile a dirsi. Ma qualche informazione in fila di può mettere, partendo da un parallelo interessante che troviamo su Foreign Affairs: l’Isis non è solo un gruppo terroristico, ma anche uno Stato sponsor del terrorismo, un po’ come è avvenuto per la Libia, la Siria o l’Iran in anni ormai lontani. Per i gruppi di foreign fighters è utile e buono avere una base dalla quale attingere risorse, armi, collegamenti, logistica, addestramento, know-how militare – l’esperienza degli afghani di molte provenienze e degli iracheni, specie gli ufficiali di Saddam. Depotenziare la forza dello Stato con capitale a Raqqa è quindi un buon obbiettivo anche per fermare la capacità di Daesh di colpire in Europa. Ciò detto, qui in Europa la partita è un altra.

Su The National, media in lingua inglese con sede ad Abu Dhabi, leggiamo che in Europa l’Isis starebbe cercando di reclutare e riattivare le cellule dormienti di al Qaeda per rendersi più internazionale di quanto già non sia e svincolare la propria attività terroristica dai destini del Califfato inteso come entità geografico-statuale – la cosa sembra anche credibile da alcuni elementi emersi dalle indagini sugli attentati di Bruxelles.

Ma quanto è grande la rete terroristica?
Martin Chulov ha scritto su The Guardian qualche giorno fa che prima degli attentati di Parigi, la leadership di Isis si sarebbe riunita e avrebbe deciso per un cambio di strategia: dare meno importanza alla crescita del Califfato tra Iraq e Siria, specie dal momento che le offensive russa, americana, di Assad, irachena e dei curdi crescevano di intensità. Meglio portare il caos altrove, combattere il nemico infedele ovunque. Questo sarebbe quello a cui stiamo assistendo. E a giudicare dalle indagini che hanno portato ad arresti e messo in luce connessioni in Francia, Belgio, Olanda, Italia, Svezia, la rete esiste, è radicata e capace di colpire (qui un buon riassunto dei collegamenti fatti a oggi da Il Post). I combattenti stranieri di ritorno sarebbero circa 1200, qualche altro migliaio (massimo 5mila) potrebbero tornare. Ma molti saranno morti e altri non proveranno mai a rientrare.
Un’analisi del Financial Times per la quale Sam Jones ha sentito diversi esponenti di alto rango delle agenzia di intelligence europee e non solo ci indica diverse cose. La prima è che fino a giugno dello scorso anno, quando in Kuwait e Tunisia una serie di attacchi fecero strage, non era chiara la capacità dell’Isis di colpire lontano da casa. «Pensavamo che il loro focus principale fossero i nemici prossimi a loro e che i video contro l’Occidente fossero soprattutto propaganda destinata a motivare eventuali piccoli gruppi o lupi solitari» spiega un funzionario dell’MI5 britannico (i lupi solitari reclutati sono ad esempio quelli di San Bernardino, negli Usa). La rete è in realtà molto più ampia, ma non prende ordini direttamente dal comando centrale. Le centinaia di combattenti stranieri tornati in Europa hanno stretto relazioni con Raqqa, ma la casa-base tende a dare direttive generali che poi le singole cellule terroristiche, magari in contatto con unità militari o singoli capi o gruppi all’interno del Califfato, agiscono e programmano per conto loro. I gruppi di sostegno, le reti che hanno contribuito a far arrivare i combattenti stranieri in Siria – gli appoggi in Turchia, i fabbricanti di documenti, chi trova denaro, ecc – oggi funzionano al rovescio, diventano la base di sostegno dei combattenti, che nel frattempo hanno imparato la guerra e gli esplosivi e diventano i terminali offensivi di reti pre-esistenti.

Come mai la Francia e il Belgio?
Si è detto moltissimo delle banlieue parigine e di altre città, e della scarsa capacità belga di tenere sotto controllo la propria crescente legione di foreign fighters. Il Belgio è lo Stato con più foreign fighters pro-capite. Attenzione però, la maggior parte delle reclute non viene dalla Vallonia, la zona più povera del Paese. Non è solo questione di marginalità socio-economica. Certo, c’è l’influenza dell’Islam wahabita, portato nel Paese dai soldi sauditi. E poi? William McCants e Christopher Meserole hanno un’ipotesi suggestiva, che loro stessi dicono essere solo tale e che stanno verificando con numeri e interviste: il problema è la francofonia. Guardando ai dati e alla provenienza dei combattenti stranieri hanno notato come i giovani delle città francofone ad alta disoccupazione siano i più propensi a radicalizzarsi. Una spiegazione che danno – oltre a quelle ovvie: disoccupazione e densità urbana che permette collegamenti – è la cultura politica francofona. Francia e Belgio sono i due paesi più aggressivi nella volontà di imporre le regole della laicità dello Stato. Sono gli unici ad aver vietato il velo nelle scuole, ad esempio. La voglia di rivalsa contro una cultura che si impone su quella che viene percepita come la propria è quindi un possibile fattore aggiuntivo.

Cosa cerca l’Isis in Europa?
Il caos. O meglio, creare e generare terrore e confusione, qui nel Vecchio continente e nei Paesi del mondo dove colpisce. Spaventare le società occidentali, generare reazioni brutali che cementino l’idea che questa è una società che odia l’Islam e che l’unica cosa da fare sia combatterla. Il caos come forma di reclutamento, insomma. Reagire in maniera eccessiva, manifestare contro l’Islam (come i geni di estrema destra delle foto qui sotto hanno fatto a Bruxelles), far crescere il livello di intolleranza contro gli stranieri, respingere i profughi in fuga dalla guerra sono dunque tutti favori al Califfato, modi per dimostrare che l’idea di Europa che vende la sua propaganda è reale. La leadership di Daesh conosce e sa leggere bene la politica europea e agisce di conseguenza in maniera intelligente. I governi europei molto meno.

Right wing demonstrators protest at a memorial site at the Place de la Bourse in Brussels, Sunday, March 27, 2016. In a sign of the tensions in the Belgian capital and the way security services are stretched across the country, Belgium's interior minister appealed to residents not to march Sunday in Brussels in solidarity with the victims. (AP Photo/Geert Vanden Wijngaert)

A spiegare bene questo concetto ci pensa il giornalista francese Nicolas Henin, ostaggio di Isis per dieci mesi, che in un’intervista radiofonica alla Wnyc dice (la traduzione è una sintesi): «Assad e l’Isis hanno bisogno l’uno dell’altro. Il Califfato beneficia delle stragi e della brutalità del governo di Damasco, spiegando ai sunniti siriani: vedete? Noi siamo brutali abbastanza da proteggervi. Viceversa per Assad la presenza dell’Isis è un’assicurazione sulla vita: più abbiamo paura di loro e meno faremo per contribuire a favorire una transizione». Stesso meccanismo per noi: «Nell’elevare l’Isis a male assoluto facciamo un favore e contribuiamo al reclutamento: se sei un giovane della periferia di una città europea e ti vuoi ribellare, ti avvicini a certe idee e vedi che i nemici dell’Occidente sono considerati feroci, penserai di andare con loro. Molti di quelli che partono pensano di guardare un film e di andare a parteciparvi. Noi dovremmo filmare un altro film, creare altri eroi e cambiare l’immaginario di certe persone. La gente vuole essere eroica, essere riconosciuta, essere qualcosa, qualcuno e la nostra società non consente loro una chance».

L’intervista a Henin in inglese è qui sotto