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Caso Guidi, così i signori delle fossili (al governo) boicottano il referendum

Le ministre Federica Guidi, Maria Elena Boschi, Beatrice Lorenzin, attendono nel cortile di Palazzo Chigi il Presidente del Consiglio Matteo Renzi che incontra il Primo ministro della Repubblica Popolare della Cina Li Keqiang, 14 ottobre 2014. ANSA / US PALAZZO CHIGI TIBERIO BARCHIELLI-FILIPPO ATTILI ++NO SALES EDITORIAL USE ONLY++

Federica Guidi ha lavorato per reinserire al Senato un emendamento alla legge di Stabilità favorevole alla Total, in precedenza cancellato dal decreto Sblocca Italia «alle quattro di notte». Poi è corsa a telefonare al compagno, il consulente di Total Gianluca Gemelli (ora indagato per traffico di influenze illecite) per avvertirlo che «è d’accordo anche Mariaelena» e che finalmente si potrà «sbloccare Tempra Rossa» e portare fino a Taranto il petrolio proveniente dalla Basilicata. Erano in ballo 2,5 milioni di subappalti e così l’uomo ha subito avvertito chi di dovere per incassare il risultato. Più che di un ministro (ormai ex) della Repubblica, viene da pensare che si tratti di una lobbista qualunque che briga bussando alle porte del potere. L’inchiesta della procura lucana la dice lunga su come si determini, dietro a quelle porte alle quali non c’è bisogno di bussare, l’interesse “strategico” della nazione.

Assieme alle ombre sugli appalti per l’infrastrutturazione del giacimento Total di Tempa Rossa, ci sono i sei arresti – tra cui l’ex sindaca Pd di Corleto Perticara – per traffico e smaltimento illecito di rifiuti (per un illecito arricchimento tra i 44 e i 114 milioni di euro) al Centro oli dell’Eni di Viggiano, con 60 indagati e la sospensione dell’estrazione di petrolio in Val D’Agri. Due filoni che confermano ciò che già si intuiva guardando a come si posizionano certa politica e certi pezzi di società italiana rispetto al referendum di domenica 17 aprile. E cioè che la lobby delle fossili (di casa nostra e non solo) è bipartisan, direttamente insediata in posizioni di governo e totalmente disinteressata a perseguire le scelte energetiche più utili alla collettività. Questa lobby sussidiata con i fondi pubblici che dispensa essa stessa si rivela quasi sempre disinteressata agli impatti ambientali e sanitari e lontana anni luce dagli obiettivi di riduzione delle emissioni confermati dal recente accordo sul clima di Parigi.

Così accade che mentre si accusa il fronte del Sì di sprecare energie e risorse economiche, esponenti del governo brigano per fare gli interessi dell’industria degli idrocarburi e il presidente del Consiglio Renzi celebra in Nevada la centrale rinnovabile più innovativa al mondo, ma rassicurando i petrolieri: «Il petrolio e il gas naturale serviranno ancora a lungo: non sprecare ciò che abbiamo è il primo comandamento per tutti noi». Peccato che, stando agli esiti delle politiche in materia di rinnovabili, lo spreco maggiore sembra proprio quello di energia pulita. «Nel 2012 in Italia erano entrati in esercizio quasi 150mila nuovi impianti fotovoltaici: nel primo anno dell’era Renzi sono stati appena 722» fa notare Andrea Boraschi di Greenpeace. E l’eolico non se la passa meglio, dal momento che fa registrare una flessione di 4.000 posti di lavoro, mentre le aziende di casa nostra che producono componenti e tecnologia per le fonti pulite si affannano a compensare il calo di domanda interna spingendo l’acceleratore sull’export.

Dietro le dichiarazioni di facciata e gli impegni a ridurre le emissioni, si nasconde un’agenda di governo ancora dettata dalla coccolatissima lobby delle fossili, che anche in questa campagna referendaria “silenziata” dai media mainstream replica gli stessi slogan allarmistici messi in campo nel 2011 a sostegno del nucleare, paventando il rischio di un comparto in rovina e di posti di lavoro bruciati.

Per comprendere chi tira i fili, basta ricordare a chi appartengono le piattaforme entro le 12 miglia dalla costa che sarebbero costrette a chiudere alla data di scadenza della concessione se vincesse il Sì (ricordiamo che dal primo gennaio scorso queste concessioni si prolungano oltre la scadenza prefissata, massimo 30 anni, e fino all’esaurimento dei giacimenti). Eni è azionista di maggioranza di 76 impianti sui 92 totali, mentre la Edison ne possiede 15 e uno soltanto è nelle mani della britannica Rockhopper. La gran parte delle concessioni in essere, in realtà, non scadrà a breve: a parte qualcuna che già era destinata a cessare le attività, molte stanno già per ottenere la proroga in virtù della normativa attualmente in vigore.

Eppure la pressione si sente e non da oggi. Il peso delle imprese petrolifere, Cane a sei zampe in testa, si era ad esempio palesato un anno fa, quando il fronte ambientalista tentava di far approvare la legge sugli ecoreati. All’epoca, le associazioni dei petrolieri assieme a Confindustria avevano convinto il presidente del Consiglio in persona a garantire una rapida approvazione al Senato soltanto se nel passaggio alla Camera il testo fosse stato depurato dal divieto dell’airgun (esplosioni ad aria compressa), la tecnica di ricerca petrolifera considerata invasiva e pericolosa per l’ecosistema e la vita sottomarina.

Oggi l’influenza delle Big oil sulle scelte governative si è tramutata nel freno alle rinnovabili e all’efficienza energetica e nella posizione astensionista del maggior partito del Paese. Un’influenza che ha fruttato il sostegno al No del “padre fondatore” Romano Prodi e da cui nemmeno la minoranza Dem può dirsi immune se è vero che Pier Luigi Bersani, che è stato un ministro non particolarmente orientato verso la transizione alle ecoenergie, è riuscito ad affermare che il 17 aprile si recherà alle urne ma ancora non sa ancora se voterà Sì o No. Bersani pensa al bacino elettorale del versante romagnolo, confortato dalle parole dell’ad di Eni Claudio Descalzi, il quale lascia prefigurare una imminente ripresa legata alla politica di riduzione dei costi intrapresi dal gigante petrolifero italiano, salvo poi prevedere dismissioni per sette miliardi di euro entro tre anni, anche dismettendo quote dei maxi giacimenti come l’egiziano Zohr.

Con il pieno sostegno della presidente Emma Marcegaglia, Descalzi sentenzia: «Dove abbiamo il 90% della produzione, a Ravenna, la maggior parte della gente è contraria al Sì al referendum». D’altro canto, tra i membri di Ottimisti e razionali, il comitato nato a sostegno del non voto, ci sono l’ex parlamentare Pc-Pds nuclearista Gianfranco Borghini e il consigliere regionale Pd dell’Emilia Romagna Gianni Bessi. A questi si affiancano ex ambientalisti come Chicco Testa ed esponenti di realtà accademiche e di enti di ricerca (ci sono il presidente di Nomisma Energia Davide Tabarelli e il filosofo e scrittore Corrado Ocone, responsabile delle attività web ed editoriali per l’Università Luiss Guido Carli di Roma) che ricevono finanziamenti o hanno relazioni commerciali con Eni.

Matteo Renzi sa bene cosa rischia se si raggiunge il quorum. Per questo sono entrati in azione per tempo alcuni dei suoi uomini-comunicazione, come il sempreverde Claudio Velardi e come Davide Bacarella, amministratore e azionista di minoranza di DotMedia, società che segue da anni il premier e le campagne elettorali di molti dei suoi. Dopo il polverone sollevato dalle dimissioni di Guidi c’è da aspettarsi che la propaganda aumenti. E sarà ancora più interessante seguire la direzione del Pd del 4 aprile, con la questione trivelle all’ordine del giorno. C’è da aspettarsi che la lobby delle fossili farà quadrato per difendere i propri interessi e vanificare il voto del 17 aprile, facendo perdere così al Paese l’occasione di virare verso un’economia a basse emissioni e più trasparente e democratica.

Matteo, Maria Elena e la banda del buco (anche in mezzo al mare)

Italian Premier Matteo Renzi, reports reports to parliament, Rome, 18 March 2015. On the left Minister of Constitutional Reforms Maria Elena Boschi. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Bene, alla fine sono riusciti ad incassare addirittura la solidarietà di Berlusconi che, come una vecchia comare ormai incarognita, ha detto che qui in Italia “non si può nemmeno più telefonare” dimenticandosi che probabilmente non avere amici mafiosi, fidanzati con conflitti d’interessi o fidanzate a noleggio con meno di 18 anni aumenterebbe la possibilità di non essere intercettati. Berlusconi che esprime solidarietà al governo Renzi, del resto, è l’ultimo atto di un fidanzamento che ormai non lascia spazio ai dubbi. Ci manca solo che vengano scoperti dalla bidella nei cessi a pomiciare. Solo questo.

Ma il fatto più sorprendente è che Renzi e renzini (che questa volta non so se l’avete notato ma hanno taciuto per un bel po’, prima di trovare una strategia del “noi laviamo comunque più bianco”) hanno pensato bene di scusarsi dicendoci quanto sia grave che la ministra Guidi non abbia detto “chi era il suo fidanzato”. Giuro. Hanno detto così. Come quelli che alle feste “io ci vengo se non viene lui” oppure “io non mi diverto, questa è casa mia, e adesso tutti fuori”. Un’accolita di paninari cresciuti ministri e presidenti del consiglio. Una cosa così. Peggio di quegli altri perché questi hanno padri e fidanzati a loro insaputa, mica solo le case.

E non importa se la Guidi rassicurava al telefono il fidanzato dicendo che “anche Maria Elena è d’accordo”: eh, no, la Boschi non si tocca, dicono. E non spiegano nemmeno: probabilmente la Guidi avrà tenuto d’occhio il soffritto sul fuoco a Maria Elena chiedendole in cambio di inserire “quell’emendamento con la lingua” per il suo uomo. Ecco. Quindi siamo strani noi che andiamo a pensare chissà che cosa. “La Boschi non c’entra” è il nuovo “Dell’Utri è un bibliofilo”: una frase diventata mantra per non affrontare il cuore dell’argomento.

E mi piacerebbe questa mattina mettere anche tutti in riga i professoroni che ci stanno triturando l’anima in questi giorni per insegnarci che “il petrolio è bello ed è pulito” in una campagna referendaria che da parte del governo ha come strategia il “fare finta di niente”. Questa non è una legislatura: è una sit com che inscena una scampagnata adolescenziale di scout toscani in gita a Roma con l’onnipotenza orba del ragazzetto alla disperata ricerca di un souvenir.

Comunque resta il dato politico: per sprovvedutezza o per ben celata collusione l’azione politica del governo sembra affidata al favore personale, ad una rete di rapporti che hanno ben poco di politico e molto (troppo) di prossimità. Questa volta Matteo e Maria Elena sono scivolati su una pozza di petrolio come i peggiori lobbisti della prima repubblica e sempre di più sembrano  le maschere (non credibili) di una restaurazione che sta avvenendo in piena regola. Non ci sono scuse: se un favore personale diventa un atto politico (di governo) che passa così liscio sotto così tanti occhi allora se non siete corrotti siete degli inetti. E in entrambi i casi la notizia è una pessima notizia.

Ora mettete in fila le dimissioni della Guidi, gli arresti che ci sono e che verranno, le aziende petrolifere gestite da infimi bottegai e pensate al referendum. Rileggetevi le parole convinte del PD e del governo che ci spiegavano come la “questione trivelle” sia un vezzo di gufi e ambientalisti. Pensate al petrolio. Rileggetevi la storia dell’Eni, da Cefis in poi. Fate una ricerca veloce su Shell e Total. Ecco: la banda è questa qui. L’odore è lo stesso odore di catrame, i soldi hanno lo stesso odore dei soldi. Altro che vento. Ah, la regione è quella delle “toghe lucane” che sono tutte una montatura, ovviamente.

Buon venerdì.

La ministra innamorata

“Domani passa l’emendamento”! Amore mio, non ti preoccupare, Tempa Rossa (Total) avrà via libera per l’estrazione del petrolio e i tuoi sub-appalti andranno lisci come l’olio. Anzi come il petrolio.

Respiro lungo di sollievo e l’amore della ministra telefona a un rappresentan te della Total “La chiamo per darle una buona notizia..ehm.. .si ricorda che tempo fa c’è stato casino..che avevano ritirato un emendamento…ragion per cui c’erano di nuovo problemi su Tempa Rossa … pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato.. se passa quest’emendamento… che pare..siano d’accordo tutti… perché la Boschi ha accettato di inserirlo..è tutto sbloccato!”

Già perchè quell’emendamento gaglioffo era stato scoperto da qualcuno e sfilato via dalla legge di stabilità alle 4 della notte -questi senatori che fanno le ore piccole!- ma ora c’è l’accordo della Boschi. Ora è fatta e Federica Guidi, ministra delle attività produttive, può telefonare al fidanzato, Gianluca Gemelli, che può rassicurare Total.

Purtroppo qualcuno intercettava. La ministra? No, il fidanzato indagato a Potenza per traffico di influenze illecite. Gliela aveva detto Berlusconi, mettere a posto i magistrati, basta interecettazioni. Ma questo Renzi non lo ha ancora fatto, si vede che mancano le slide o che il ministro Orlando non è abbastanza fidatp. E ora rischiano di pagare loro, Federica e Maria Elena. La prima ministra agli affari, la seconda alle riforme, per fare meglio gli affari.

Una grossa grana per il governo alla vigilia del 17 aprile, data senza significato in cui era stato fissato il referendum sulle trivelle proprio perchè gli elettori disertassero l’appuntamento. Le opposizioni chiedono e ottengono le dimissioni della ministra Guidi, non quelle della sua amica Boschi o dello stesso presidente del consiglio Renzi.

Il premier forse risponderà con la battuta che Fellini regalò a Veltroni: non si interrompe un’emozione. Il rinnovamento è in corso, l’Italia in ripresa (dello zero virgola), che sarà mai una telefonata, d’amore, al fidanzato. Ma anche d’affari, ma si sa nel mondo di questi splendidi quarantenni l’amore si coniuga con gli affari e col potere. Muro contro muro tra chi spera e chi gufa e la mozione di sfiducia sarà respinta, come sempre. Alla Camera, grazie al premio di maggioranza del Porcellum, al Senato grazie ai volenterosi che si sono raccolti intorno Denis Verdini. Anche grazie alla minoranza Pd, che tace in Parlamento e aspetta il congresso del Pd.

Credetemi. All’Italia serve di più che un nuovo governo. Serve un’opinione pubblica che chieda una riforma morale, una cittadinanza che scelga uno a uno i parlamentari non delegando a un partito o a un leader, serve nuova fiducia in istituzioni rinnovate. Per cui chi ci entra in quei luoghi si senta onorato, un po’ inadeguato, piuttosto intimorito. E non si metta subito a mangiare con le mani, a straparlare al telefono, e a puzzare di affari e petrolio.

Tutto Steve McCurry in mostra

CAPTION: Fishermen at Weligama. Sri Lanka, 1995. MAX PRINT SIZE: 60X80 SRILANKA-10006 IG: I took this image of men fishing in Weligama off the South coast of Sri Lanka. "Fishermen along the southern coast of Sri Lanka cast their lines in the traditional way atop poles so they can work in shallow water without disturbing the fish." - George Eastman House Like outlandish herons, a flock of men clad in traditional saram fish the south coast from wooden perchs. Not long ago their island nation was poised to join Asia's economic dragons, but 13 years of strife have cramped development and kept many Sri Lankans working the land and sea like their ancestors. Vol. 191 No. 1 01/1997 National Geographic Magazine. Vol. 191, No. 1, pgs. 110-111, January 1997, Sri Lanka: A Continuing Ethnic War Tarnishes the Pearl of the Indian Ocean. NN11429210, MCS1995006K10006 book_Iconic final print_MACRO final print_Sao Paulo final print_Birmingham final print_HERMITAGE final print_Zurich final print_Ankara Fine Art Print retouched_Sonny Fabbri 3/4/2015

Il suo ritratto di Sharbat Gula, la ragazzina afgana dagli occhi verdi che Steve McCurry fotografò nel campo profughi pachistano di Peshawar negli anni Ottanta (e che poi abbiamo rivisto trent’anni dopo segnata da una vita molto dura) è diventata il simbolo degli afgani fuggiti in Pakistan dove a fatica riescono a sopravvivere.
In quella foto di Steve McCurry «è racchiuso un complesso universo di esperienze e di emozioni» nota Biba Giacchetti, curatrice della grande retrospettiva dedicata al fotografo americano nela Citroniera delle Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria, alle porte di Torino. Nello spazio “incantato” della Reggia si dipana la rassegna più completa tra le mostre che Civita e SudEst57 hanno dedicato dal 2009 a oggi al grande fotografo americano. Ad aprire questa esposizione aperta dal 31 marzo al 25 settembre è una serie di inediti scatti in bianco e nero realizzati tra il 1979 e il 1980 quando per la prima volta McCurry si recò in Afghanistan, dove viaggiava insieme ai mujaheddin che combattevano contro l’invasione sovietica.

Il coraggio di spingersi fino in prima linea per testimoniare guerre, conflitti, situazioni di crisi caratterizza tutto il percorso di McCurry che collabora con riviste come Time, Life, Newsweek, Geo e il National Geographic. Inviato di guerra a Beirut, in Cambogia, in Kuwait e nell’ex Jugoslavia, anche come fotografo dell’agenzia Magnum, McCurry non ha documentato solo distruzioni e violenza, ma ha saputo dare un volto anche alla resistenza e alla ricerca di riscatto.Vengono dall’Afghanistan, il Paese dove è tornato molte volte nell’arco degli ultimi 35 anni, alcune delle foto di Steve McCurry entrate nella storia perché raccontano in maniera diretta e potente il dramma di masse di persone costrette a fuggire dalla propria terra, a causa della guerra, della miseria, dell’oppressione straniera e interna, dovuta ai talebani. Ma nel percorso scenograficamente allestito da Peter Bottazzi e curato da Giacchetti (che ha selezionato 250 scatti) non c’è solo l’amatissimo Afghanistan ma anche l’India, il Sudest asiatico, l’Africa, gli Stati Uniti, il Brasile e Cuba. «Perché già il solo viaggiare e approfondire la conoscenza di culture diverse, mi procura gioia e mi dà una carica inesauribile», dice McCurry.

Proprio Cuba fotografata prima della fine del disgelo dei rapporti con gli Usa è al centro della mostra di Steve McCurry alla Galleria Bertoia di Pordenone, realizzata con la collaborazione di Jacob Cohen. In questo caso la curatrice Biba Giacchetti ha scelto 120 fotografie che, sotto il titolo Senza confini, raccontano lo spirito di ricerca che ha accompagnato tutta la carriera di questo fotografo nato a Philadelphia nel 1950 e cosmopolita per scelta, che ama «raccontare la dimensione collettiva, in una sorta di girotondo dove si mescolano età, culture, etnie». Nel catologo McCurry/Icons sono pubblicate 50 fotografie di Steve McCurry di straordinaria intensità cinematografica. Ogni immagine è commentata dallo stesso McCurry che ne racconta la genesi.

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Immagine in evidenza: Fishermen at Weligama.  Sri Lanka, 1995. © Steve McCurry

 

 

Basilicata il petrolio logora chi ce l’ha

Cinque funzionari e dipendenti del centro oli Eni di Viggiano, i provincia di Potenza – dove viene trattato il petrolio estratto in Val d’Agri – sono stati posti agli arresti domiciliari perché ritenuti responsabili, a vario titolo, di «attività organizzate per il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti». Indagato è anche Gianluca Gemelli, fidanzato della ministra per le Attività produttive, intercettata mentre discute con lui di un emendamento che favorirebbe Tempa rossa, il progetto di estrazione di petrolio gestito dalla Total e contestato dagli ambientalisti.

Fissare un limite all’attività di coltivazione di idrocarburi in mare o continuare a oltranza? Il 17 aprile saremo chiamati a dire la nostra. Il governo parla di spreco di denaro e perdita di posti di lavoro. Ma cosa succede davvero dove il petrolio già si estrae? Cosa porta al territorio in termini di ambiente, economia e lavoro? La storia esemplare in Italia, anche se si tratta di giacimenti a terra, è quella della Val D’Agri, in Basilicata, regione con i più grandi giacimenti di petrolio d’Europa. I poco più di 10 kmq di superficie, sono in gran parte intessuti dell’oro nero. Nel terreno a causa di 20 anni di sversamento dei barili della Total, nei campi non bonificati dalle vasche contenenti rifiuti petroliferi dell’Eni, nei laghi e persino nelle arnie. Ma è dentro e attorno al Parco nazionale dell’Appennino lucano e della Val d’Agri-Langonegrese che il concentrato è particolarmente evidente.

Qui, a Viggiano, da vent’anni tratta idrocarburi e moltiplica pozzi e concessioni il Cova, Centro olio Val d’Agri, 70 per cento Eni, 30 per cento Shell Italia. Tanto che nel 2008 la Lucania diventa il Distretto Meridionale dell’Eni (Dime): 85mila barili di olio al giorno e 3,4 milioni di standard metri cubi di gas. In Val d’Agri l’attività di perforazione e produzione conta 39 pozzi di greggio, di cui 26 in produzione e 13 ricadenti dentro il perimetro del parco; in più, una rete di 100 chilometri di condotte sotterranee per il trasporto dell’olio estratto verso la raffineria Eni di Taranto. La Basilicata copre l’8 per cento del fabbisogno nazionale; poco e niente, se si pensa che è il maggiore produttore di greggio nostrano. L’obiettivo, fin dal protocollo con Stato e Regione del 1998 è arrivare al 15-16%.

«Eni ha in tasca l’autorizzazione per raggiungere quota 104mila barili al giorno» spiega Pietro Dommarco, giornalista autore del dossier inchiesta Trivelle d’Italia (Altraeconomia, 2012) e fondatore di Ola, Organizzazione Lucana Ambientalista. Poi ci sono i 50mila barili al giorno di Total con la concessione del Gorgoglione, nella Valle del Sauro, risalente al 2006. Un totale di 154mila barili di greggio estratti quotidianamente dal sottosuolo lucano. «Una produzione che è ben lontana dal renderci autonomi – riprende Dommanco -, ma che di certo equivale a un sacco di soldi. Per le compagnie». Soldi in cambi di forti rischi per territorio e a persone, perché stando all’ultima indagine valida (perché geolocalizzata nella Val d’Agri), realizzata nel 2000 dall’Osservatorio epidemiologico regionale assieme al Consorzio Mario Negri sud, i tassi di incidenza di malattie cardio-respiratorie sono più alte del 2,5% rispetto alla media nazionale e mediamente più elevate rispetto al resto della regione. L’analisi, che monitorava il triennio ‘96-98, ha fotografato lo stato di salute delle popolazioni residenti attraverso i tassi di ospedalizzazione urgenti per “eventi-sentinella cardiorespiratori”.

Patologie come asma acuta o ischemie cardiache imperversavano sulla popolazione già a soli tre anni dall’entrata in funzione del Centro oli. Non esistono invece studi che mettano in relazione diretta i casi di neoplasie con la produzione di greggio. Così come non esiste un monitoraggio ambientale: le centraline per il controllo della qualità dell’aria sono dell’Eni, che trasferisce i dati all’Arpa che poi li pubblica. «Il controllato che controlla se stesso, insomma», fa notare Dommarco.

Soprattutto, come ci spiega Gianluigi De Gennaro, ricercatore di Chimica all’Università di Bari e per molti anni perito del Comune di Viaggiano sugli impatti delle estrazioni, l’analisi è inutile, perché si concentra su inquinanti generici, e non su sostanze specifiche. Sono gli stessi controlli con cui si monitora il traffico nelle grandi città. Se mi fai un controllo sul monossido di carbonio, è difficile che si superino i limiti. Mentre l’impatto che si produce è ben altro se si prendessero in esame altre sostanze, come gli idrocarburi e l’idrogeno solforato, particolarmente tossico. Non solo: «Un tempo esisteva un parametro per controllare gli idrocarburi in atmosfera, ma è stato eliminato dalla normativa italiana ed europea negli anni ‘90. Se esistesse ancora, appurerebbe che viene ampiamente superato, considerando l’overcharge degli impianti o difetti tecnici».

Ma più che di limiti, il ricercatore si concentra sul rischio potenziale: «Quando si superano i limiti normativi, l’intervento è indispensabile, certo. Ma non è che un decimo sotto stiamo tutti bene e un decimo sopra si muore. È importante sapere che tu hai esposto le persone in condizioni particolarmente pericolose». Sull’esposizione a lungo periodo si sa poco, «ma quello che si sa è allarmante»: sia degli effetti acuti (intossicazione, convulsioni, morte da concentrazione di H2S), che di quelli cronici (apparato respiratorio e cardiovascolare). Perché «le concentrazioni in quelle zone non le trovi frequentemente nemmeno nelle aree industriali fortemente antropizzate», spiega il chimico.

«La situazione è sottodimensionata dal punto di vista dei controlli come delle informazioni. Probabilmente perché le persone direttamente interessate agli impatti sono numericamente molto limitate, quindi la loro capacità incisiva è bassissima: Viggiano ha tremila abitanti», conclude. Ben documentati invece, sono gli incidenti avvenuti negli anni, durante l’estrazione e il trasporto su gomma del greggio, soprattutto prima dell’entrata in funzione dell’oleodotto (2001). Naturalmente da stampa locale e cittadini: «Molti incidenti risultano purtroppo non denunciati e per quelli noti sono in gran parte assenti relazioni ufficiali che dettagliano le cause, la tipologia dell’inquinamento, le sostanze immesse sul suolo, nell’aria, nell’acqua e nei prodotti agricoli e zootecnici esposti a tali sostanze – denuncia l’Ola -. Gli effetti degli incidenti, così come l’esposizione durante il funzionamento delle attività di produzione e trattamento del greggio finiscono così per rappresentare i cosiddetti “effetti collaterali”, riducendo i costi per le compagnie che dovrebbero pagare per i danni causati. Altro che royalties». Queste ultime, ovvero la contropartita finanziaria con cui le società compensano il territorio per lo sfruttamento, in Italia ammontano al 4% dei ricavati in mare, al 10% per l’estrazione a terra. Il 15% va ai Comuni, il restante 85% alla Regione. Per la Regione Basilicata, un introito di quasi un miliardo in 10 anni. «Il problema, però, è che di questo miliardo poco e niente viene immesso nel circuito economico pubblico», prosegue Dommarco. Tanto che «la Corte dei conti nel 2014, con un’indagine che prende in esame la gestione delle risorse comune per comune, ha denunciato che l’80% di queste sono state spese per “spese correnti” e non per lo sviluppo né per la tutela ambientale».

Come spiega Valeria Temprone, direttrice di Legambiente Basilicata, «la Basilicata è la dimostrazione che il sistema petrolio non funziona, sia in termini occupazionali che di nuovi benefici sul territorio. È utile tenerlo a mente e convincere gli italiani a votare sì il 17 aprile». Il Dime dà lavoro a 291 persone, cui si aggiungono i poco più di 2.000 lavoratori dell’indotto. Poca cosa se si mettono queste cifre in relazione agli introiti di Eni e ai risvolti ambientali dell’attività estrattiva, dei quali fanno parte il dimezzamento delle aziende agricole e il deprezzamento dei prodotti locali.

Per non parlare degli sversamenti causati da rotture dei barili nel terreno, della contaminazione delle acque sotterranee (la maggior parte dei pozzi incidono su bacini idrici strategici, che servono per uso irriguo e potabile) o delle fiammate di 50 metri provenienti dai camini (la cosiddetta “torcia”), che comportano emissioni di idrogeno solforato, benzene e idrocarburi policiclici aromatici nell’aria. Anche in questo caso non c’è pronto monitoraggio delle autorità competenti. Tanto che nel 2014 è stato disposto dal ministero dello Sviluppo un controllo con conseguente blocco dell’impianto, mentre la Procura di Potenza ha avviato un’indagine di cui ancora non si conoscono i risvolti. Così come per le acque reflue provenienti dal processo di lavorazione (la “desolforazione”, una sorta di pulizia primaria del greggio prima che venga spedito in raffineria), che vengono smaltite negli appositi siti in val Basento, a Pisticci (Matera). Sui dati di radioattività di queste sostanze e sul loro sistema di smaltimento, esiste attualmente un’altra indagine avviata dalla Direzione distrettuale antimafia di Potenza nel 2014, con una quarantina di persone raggiunte da avviso di garanzia.

Il cardinal Bertone sapeva? Che volete che sia! La Chiesa “ragiona per secoli”

Sparare sul cardinal Bertone è come sparare sulla Croce rossa. Troppo facile, troppo vistosi i suoi occhiali, troppo grande il suo attico, troppo alta la cifra per ristrutturarlo, troppo grottesco il fatto che i soldi siano stati sottratti ad un ospedale che cura bambini, troppo “normale” che lui dica che non sapeva. Persino troppo “normale” che alla fine salti fuori da due lettere che lui invece sapeva. Allora mi prendo il lusso di dirvi, anzi di ridirvi, ancora una volta, perché non c’è proprio nulla di cui stupirsi. L’altra sera ero al cinema ed ho visto Spotlight, storia vera, pesantissima, dell’inchiesta che portò una piccola redazione del Boston Globe a tirare fuori un’enorme storia di pedofilia nel clero americano. Un sistema sistematizzato di violenza e di copertura di centinaia e centinaia di abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti, quasi trecento solo a Boston. C’è una scena nella quale l’avvocato di turno, quello buono che difende tutte le vittime contro tutto: politica e Chiesa, urla al giornalista che insiste per avere informazioni: «La Chiesa “ragiona per secoli”, crede che il suo giornale sia pronto ad affrontare una roba del genere?”. Ecco, credo che Left si sia sempre fatto carico di “una roba del genere”, di spiegare ogni volta (anche questa) che non c’è da stupirsi di Bertone, che lui non è Dart Fener come Francesco non è Luke Skywalker, e che il problema vero è l’ideologia che si porta dietro la Chiesa. Quel modo di ragionare, appunto, “per secoli”.
Bertone ragiona per secoli perché la “Chiesa ragiona per secoli” e nei secoli con quel modo di ragionare si è accaparrata il Regno in terra mentendo, producendo falsi, rubando, uccidendo persino. Certo sottraendo, come fa il cardinal Bertone che (semplicemente) continua a ragionare “per secoli”: cosa vuoi che sia sottrarre, con la complicità di chi gestisce, risorse (per la precisione più di 440mila euro) per un ospedale che cura bambini? Proprio bambini, quelli che la Chiesa romana (dagli esordi, madre e sposa) difende perché solo il suo Dio li dà e solo il suo Dio li toglie. E solo il suo Dio li ama (un po’ meno Bertone evidentemente!). Così è stato costruito il Regno in terra del presunto Dio in cielo e così è stato costruito l’attico del cardinal Bertone. La “retta” via si impone a suon di peccati, la salvezza si vende a suon di opere, l’amore è proprietà esclusiva di Dio. E a Dio va dato, perché quello è l’unico amore “vero”.
Per il resto, di donne, bambini e uomini si può abusare. Perché la Chiesa “ragiona” così,  “per secoli”. Sapete come finisce Spotlight? Chi è il grande cattivo? Quello che spostò centinaia di sacerdoti da una parrocchia all’altra per coprire gli abusi sessuali su altrettante centinaia di minori? Un certo cardinal Law. E sapete dove è oggi? È arciprete emerito nella chiesa di Santa Maria Maggiore, a Roma. A pochi passi da papa Francesco. Come è possibile?
Cosa volete che sia, la “Chiesa ragiona per secoli”!

#OverTheFortress. Il 3 aprile in marcia al Brennero per aprire le frontiere

Stranded refugees and migrants try to bring down part of the border fence during a protest at the Greek-Macedonian border, near the Greek village of Idomeni, February 29, 2016. Macedonian police fired tear gas to disperse hundreds of migrants and refugees who stormed the border from Greece on Monday, tearing down a gate as frustrations boiled over at restrictions imposed on people moving through the Balkans. REUTERS/Alexandros Avramidis TPX IMAGES OF THE DAY

«No borders, no nations». Una marcia si aggira per l’Europa: #Overthefortress. Letteralmente, marcia oltre la fortezza Europa. Chiedono «una nuova cittadinanza europea, basata sulla possibilità di muoversi liberamente, ma soprattutto sulla necessità di conquistare nuovi diritti sociali, civili e un welfare universale» le centinaia di attivisti europei – molti dei quali appena rientrati dalla tendopoli di Idomeni – che sono pronti a raggiungere e varcare il confine del Brennero, dove arriveranno domenica 3 aprile. Dietro le pettorine arancioni ci sono gli attivisti italiani dei centri sociali del Nord Est e delle Marche, insieme agli studenti di Parma, ai siciliani NoMuos, al “team legale”, agli amici del Baobab, alla delegazione di Welcome Taranto, l’associazione Lgbt Anteros, la Federazione europea dei giovani Verdi e poi interpreti di arabo, sanitari, insegnanti e le donne della Carovana per i diritti dei migranti (in partenza da Torino il 2 aprile e che terminerà a Palermo il 18). E poi gli attivisti internazionali che si aggiungeranno dal resto d’Europa.

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Overthefortress nel campo di Idomeni – foto globalproject.info

La staffetta protesta contro il rafforzamento dei controlli e contro l’ipotesi di chiusura di tutti i confini dell’Austria meridionale e orientale. «Un’accelerazione politica del governo austriaco prevedibile da tempo», sostengono gli attivisti. «L’Austria, in questa fase, riveste un ruolo centrale dal punto di vista geografico, e di conseguenza nella gestione politica delle migrazioni, poiché è il crocevia di due rotte migratorie». L’asse del Brennero e quello dei Balcani. Il primo ha visto nell’ultimo anno il potenziamento dei controlli razziali, soprattutto sui treni, effettuati dagli agenti della trilaterale al fine di bloccare il transito dei migranti. Anche chi viaggia sulla rotta dei Balcani, infatti, per raggiungere l’Europa centrale e settentrionale deve necessariamente attraversare l’Austria.

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Overthefortress davanti al consolato d’Austria a Venezia – foto globalproject.info

Le tappe della marcia fin qui sono state Idomeni e il consolato d’Austria a Venezia, contro «un’Europa che firma accordi di morte con la Turchia di Erdogan per la deportazione dei migranti che scappano dalla stessa Turchia che finanzia i terroristi dell’Isis». Adesso #Overthefortress vuole attraversare il confine del Brennero, mentre gli europei continuano ad assistere alla militarizzazione dei Paesi balcanici e all’innalzamento di muri di filo spinato in Ungheria e Bulgaria. La chiusura del confine austriaco è il risultato dell’effetto domino sulla Balkan Route: Slovenia, Croazia, Serbia e Macedonia attuano politiche di respingimento su ogni frontiera. Nessuno di questi Paesi vuole assumersi la responsabilità dell’accoglienza. E la Grecia diventa «una prigione a cielo aperto».

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«La guerra globale si sta declinando come una guerra all’umano, colpendo migliaia di corpi desiderosi di libertà, pace e giustizia sociale. Come movimenti sociali dobbiamo cogliere che si sta aprendo una sfida per la costruzione di un’Europa aperta e solidale che si contrappone frontalmente, e senza mediazioni possibili, a un’Europa delle gabbie etniche e dell’austerità». L’Europa alla quale #Overthefortress va incontro domenica 3 aprile, sul confine, tra Italia e Austria.

«Chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, salta il sistema se non si interviene». Parla Franco Corleone

L'ospedale psichiatrico giudiziaro (Opg) di Aversa dove i pazienti dalle prossime settimane verranno trasferit, come previsto dalla legge, nei Rems (residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza), (Caserta), 17 aprile 2015. ANSA / CIRO FUSCO

«Da una grande riforma sorgono grandi problemi», dice Franco Corleone, appena nominato commissario per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Chiudere i vecchi manicomi, edifici spesso fatiscenti costruiti tra ‘ 800 e ‘ 900, che ospitavano quei detenuti affetti da patologie psichiatriche «non è una passeggiata, si rischia il blocco della riforma». Perché le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, cioè le nuove strutture affidate al ministero della Salute in collaborazione con il ministero della Giustizia, il Dap e le Regioni, stanno scoppiando. A parte il numero esiguo di posti letto, e l’assenza di tali residenze in alcune regioni, si verifica adesso una vera e propria «lotta per le Rems». Ci sono infatti nuovi ingressi che rischiano «di dilatarle a dismisura», sottolinea Corleone. I magistrati infatti indicano queste nuove strutture come destinazione nelle misure di sicurezza provvisoria. Per questo motivo «bisogna affrontare la riforma delle misure di sicurezza soprattutto quelle provvisorie», dice Corleone.

Un anno dopo il 31 marzo 2015, giorno della chiusura degli ex manicomi giudiziari, secondo quanto stabilito dalla legge 81/2014, la situazione è dunque ambivalente. Rimangono ancora 90 persone internate in quattro delle vecchie strutture. Sono così suddivise: 40 a Montelupo Fiorentino, 6 a Reggio Emilia, 18 a Aversa e 26 a Barcellona Pozzo di Gotto. Rispetto ai 708 internati negli Opg di un anno fa si tratta di un numero esiguo di “rei folli” che nei prossimi mesi, secondo Corleone, lasceranno i vecchi edifici manicomiali per essere dimessi o per andare nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Strutture, quest’ultime, in cui dovrebbe prevalere l’aspetto terapeutico rispetto a quello meramente di custodia e sorveglianza. Come Left ha già scritto un anno fa qui, il 40% degli internati negli Opg al 2015 era affetto da schizofrenia, e il 23 % da disturbi psicotici. La prima struttura a chiudere tra una settimana sarà Reggio Emilia, poi, in concomitanza con l’apertura delle Rems in Abruzzo e Calabria, chiuderà l’Opg di Aversa. «Rimarranno Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto che hanno una situazione molto complicata», continua Corleone.

«È una detenzione illegale – sostiene Franco Corleone – e quindi è urgente rimediare a una situazione che diventa da tutti i punti di vista insostenibile sia per i principi costituzionali ma anche rispetto a decisioni della magistratura che è già intervenuta a questo proposito». Ma c’è l’altro grande problema. «Il Gip nelle misura provvisoria di sicurezza indica come destinazione le Rems. Questo sta facendo saltare il sistema per cui ci sono nuovi ingressi non previsti in questa dimensione». Franco Corleone, che oggi insieme a Mauro Palma (Garante nazionale dei detenuti) al senatore Luigi Manconi (Presidente della Commissione diritti umani del Senato e alle senatrici De Biasi e Dirindin partecipano a Roma al convegno degli operatori psichiatrici e sociali presso la sede nazionale della Cgil conclude invocando «la necessità di un intervento legislativo d’urgenza per chiarire queste dove le misure di sicurezza provvisorie devono essere eseguite, perché così il sistema non regge».

Donne e potere: i numeri della parità di genere che non c’è

Sono passati circa 70 anni da quando in Italia è stato dichiarato il suffragio universale femminile e le donne hanno potuto finalmente ricoprire ruoli elettivi e partecipare più attivamente alla vita politica del Paese. La prime donne a varcare la soglia di Montecitorio furono prima quelle che fecero parte della Consulta Nazionale e successivamente quelle elette nell’Assemblea Costituente. Le “deputatesse”, come vennero definite sui giornali dell’epoca, erano 21 su un totale di 556 componenti, fra queste spiccano i nomi di Nilde Iotti, che sarà la prima presidente della Camera nella storia della Repubblica e Lina Merlin, promotrice dell’omonima legge sulla prostituzione.

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“La Domenica del Corriere”, anno 48 — 19, Le ventuno donne dell’Assemblea Costituente
Adele Bei Ciufoli, Laura Bianchini, Maria De Unterrichter Jervolino, Maria Federici Agamben, Angela Gotelli, Nilde Iotti, Angelina Merlin, Rita Montagnana Togliatti, Teresa Noce Longo, Elettra Pollastrini, Bianca Bianchi, Elsa Conci, Filomena Delli Castelli, Nadia Gallico Spano, Angela Maria Guidi Cingolani, Teresa Mattei, Angiola Minella Molinari, Maria Nicotra Verzotto, Ottavia Penna Buscemi, Maria Maddalena Rossi, Vittoria Titomanlio.

Jotti e Merlin proseguono poi la loro carriera politica anche durante la prima legislatura, dal 1948 al 1953. Nelle elezioni del ’48 le donne elette sono 39 e per la maggior parte alla Camera dei Deputati dove la percentuale femminile era molto più alta che al Senato: 7% contro 1,4%.

Ma come e quanto è cambiata dopo tutti questi anni la presenza delle donne nei nostri organi di rappresentanza?

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Una prima risposta la si può osservare in questa infografica che mostra come, dopo una prima apertura, la percentuale femminile eletta in parlamento va via via diminuendo rispetto al secondo dopoguerra. Nel 1968 le deputate erano solo il 3% dei membri della Camera e il rapporto impari variava di poco al Senato. Gli anni 70 e 80 inaugurano però un periodo di lotte e di emancipazione che vede le donne più partecipi nella vita politica e maggiormente rappresentate negli organi elettivi. Nel 1987 le presenze femminili alla Camera superano, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, il 10 per cento arrivando a toccare il 12, 7% per ridiscendere poi all’8,4% con la successiva tornata elettorale del 1992. Tangentopoli e la seconda Repubblica, nel 1994, portano in parlamento un numero ancora maggiore di donne che subisce però una lieve flessione fino al 2006. Addirittura nel 2008 la presenza femminile raggiunge il 18% al senato e il 20% alla Camera. È però l’attuale legislatura a fissare un picco positivo per la rappresentanza di genere a palazzo Madama e a Montecitorio dove le percentuali arrivano rispettivamente a toccare il 29,6% e il 31,3%.
Eppure questo record storico, come riporta un recente report di Openpolis, vale all’Italia, fra i 28 paesi dell’Unione Europea, solo l’11 posto per presenza femminile nelle istituzioni. Insomma meglio di noi fanno: Svezia, Spagna, Germania. Peggio Ungheria e Polonia, ma anche Regno Unito e Francia.

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E se anche al Parlamento europeo l’Italia si ferma a metà classifica (vedi tabella sopra), facciamo meglio sul fronte del Governo dove invece ci piazziamo al quinto posto perché il 38% dei nostri ministri è donna. Inizialmente la parità di genere era stata utilizzata come uno spot da Matteo Renzi che ci aveva tenuto a nominare 8 ministri e 8 ministre, ma che con le nomine successive ha provveduto a “riequilibrare” la situazione in favore degli uomini.

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Ad occupare anche qui il vertice della classifica troviamo ancora una volta la Svezia (52%) e all’ultimo posto l’Ungheria che non ha alcun ministro donna, come Grecia e Slovacchia.
«Tra i capi di stato europei le donne sono 5 su 28, ma due di queste lo sono per diritto dinastico: Elisabetta II d’Inghilterra e Margherita II di Danimarca» si legge nel report Trova l’intrusa stilato da Openpolis, e «solo in due paesi dell’Unione europea il capo del governo è una donna la Germania (con Angela Merkel) e la Polonia (con Beata Szydło)».
Sicuramente per quanto riguarda i ruoli chiave la percentuale di donne che arriva a ricoprirli è sicuramente ancora molto bassa. Insomma nelle stanze dei bottoni europee, non solo i primi ministri di genere femminile sono solo due in tutta Europa, ma i numeri sono bassi anche quando si guarda alle percentuali nel consiglio europeo, in quello degli affari esteri o finanziari. «Nelle istituzioni europee cosi` come nella società, dunque, esiste un soffitto di cristallo, che ostacola il percorso verso i ruoli apicali, e un recinto di attivita`, che confina le donne in determinati settori. Le donne rimangono legate agli ambiti ritenuti tipicamente femminili: gli incarichi di governo affidati a loro si fanno piu` numerosi per settori quali cura, welfare, istruzione e cultura. Sono escluse, o quasi, dai ruoli economici. In sostanza, più è importante la delega e minore è la presenza di donne».
Questo ovviamente accade anche a livello nazionale, anzi soprattutto a livello nazionale, ed è per questo che si ripercuote nelle sedi di rappresentanza europee.
Le donne quindi, quando arrivano a ricoprire ruoli di potere, spesso vengono relegate ad ambiti che sono considerati maggiormente in linea con lo stereotipo di genere. Le deleghe che sono loro attribuite appartengono per lo più all’ambito “Lavoro e affari sociali”, pittosto che “Famiglia, giovani, anziani e sport”, “Educazione e cultura” o “Salute”. E se andate indietro con la mente ai vari ministri donna che abbiamo avuto in Italia con gli ultimi governi, sicuramente troverete sfilze di ministre della Sanità, della Scuola (dove si sono succedute per esempio Letizia Moratti, Mariastella Gelmini, Maria Chiara Carrozza e Stefania Giannini, attualmente in carica) o delle Pari opportunità.
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Qualche tempo fa il femminile Elle Uk aveva sottolineato il problema in maniera ironica realizzando la campagna #MoreWomen. Da una serie di foto ufficiali delle stanze del potere e dai luoghi che, molto più in generale “contano” erano stati cancellati tutti gli uomini, rendendo evidente la disparità di genere nei luoghi istituzionali. Ecco il risultato in una gallery:

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E in uno short film, prodotto da Alex Holder e Alyssa Boni.

Ne parliamo anche nel numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA

Referendum trivelle, risposte allo spot del Pd che invita a votare No (o quasi)

Qualche giorno fa, sul suo canale YouTube il Partito Democratico ha caricato un video dedicato al referendum sulle trivellazioni che si terrà il 17 aprile. Prendetevi qualche minuto e guardatelo. Poi leggete.

Il video, rimasto per lo più inosservato (conta poco più di 5 mila visualizzazioni) è uno spot per convincere i sostenitori Pd, proprio quando la sinistra (e non solo) si schiera tutta dal lato opposto, a votare No al referendum o ad astenersi, impedendo di raggiungere il quorum. La strategia comunicativa è piuttosto semplice: una carrellata di volti di tecnici e operai, in qualche caso sinceramente preoccupati per il proprio posto di lavoro, prestano accorati la loro voce alle ragioni del no o dell’astensione (ovvero la posizione assunta dal Pd di Matteo Renzi, anche se in teoria a decidere dovrebbe essere la direzione del 4 aprile). Il problema è che lo fanno spesso senza avere informazioni corrette sul tema. Abbiamo quindi messo in fila dubbi e domande e risposto alle questioni sollevate dai lavoratori del video.

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MARCO. ISTRUTTORE CENTRO FORMAZIONE

«Se vincesse il sì sarebbe una batosta per migliaia di famiglie che fanno girare parzialmente una nazione in difficoltà»

Caro Marco, le piattaforme petrolifere oggetto del referendum sono solo quelle entro le 12 miglia e nessuno intende chiuderle da un giorno all’altro. La stragrande maggioranza delle 92 piattaforme oggetto della consultazione non chiuderà a breve: qualcuna era già a fine vita e tante altre hanno già beneficiato della proroga resa possibile dal governo a fine 2015.
Se vince il sì accade che l’impianto dovrà essere dismesso soltanto alla scadenza della concessione, di regola trentennale, quindi c’è tutto il tempo per ricollocare gli operai e per il governo di dirottare gli incentivi alle fossili su investimenti in efficienza e fonti rinnovabili.

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GRAZIANO. INGEGNERE

«Da tecnico posso dire che le preoccupazioni sull’impatto ambientale sono infondate»

Caro Graziano, su questo punto ti sottoponiamo alcune riflessioni.
L’attività estrattiva di petrolio e gas comporta l’utilizzo di sostanze chimiche e il rischio di rilascio in mare di queste ultime ma anche di greggio, metalli pesanti e altri contaminanti. A questo si aggiunge l’impatto sulla pesca e sull’ecosistema della tecnica dell’airgun, esplosioni prodotte da iniezioni di aria compressa per individuare i giacimenti. Il nostro mare, poi, in particolare l’alto Adriatico, ha già sperimentato le conseguenze della cosiddetta subsidenza, l’abbassamento della superficie topografica del suolo costiero dovuto anche all’estrazione di gas. Questo per non parlare dei pericoli derivanti da eventuali incidenti in un mare chiuso come il Mediterraneo (ti ricordo soltanto che la Deepwater Horizon che ha devastato il Golfo del Messico era a 66 miglia dalla costa). Ed evito di soffermarmi sul contributo dell’estrazione di idrocarburi al surriscaldamento del Pianeta.

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MARIO. SUPERVISIONE MONTAGGI PIATTAFORME

«Ho sentito dire che le cozze sarebbero inquinate. Io sono 55 anni che mangio cozze e sono qua tranquillo e beato che le mangio ancora»

Non può che farci piacere Mario, ma registriamo il fatto che – secondo i dati raccolti da Ispra per Eni e recuperati da Greenpeace presso il ministero dell’Ambiente – le analisi sui campioni di cozze raccolti nei pressi delle piattaforme nostrane mostrano che circa l’86% del totale preso in esame (una trentina di impianti) superava il limite di concentrazione di mercurio. Questo non vuol dire che le cozze sono avvelenate, ma come saprai il problema sono i rischi legati all’accumulo nel nostro organismo di metalli pesanti. Come dice il saggio? Prevenire è meglio che curare!

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ETTORE. DIRETTORE COMMESSE

«Il turismo si è sviluppato nella nostra zona senza avere alcun tipo di problema legato alla presenza delle piattaforme»

Il turismo non ha problemi finché il mare è pulito, gentile Ettore. Pensi che cosa accadrebbe se ci fosse una fuoriuscita di greggio in un bacino, quello del Mare Nostrum, che ospita il 20% della biodiversità marina globale e molte aree protette.

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DAVIDE. MANOVRATORE DI GRU

«Anzi, c’erano delle navi che facevano dei giri attorno alle piattaforme per portare i turisti, per farle vedere».

“De gustibus…” verrebbe da dire, Davide. Personalmente preferisco vedere i fondali senza l’intralcio dell’acciaio dei piloni e mi sento più sicuro senza avere nei paraggi un colosso che pompa gas e petrolio.

MARCO. ISTRUTTORE CENTRO FORMAZIONE

«Prevalentemente si estraggono gas, metano, comunque energia pulita».

Non è proprio così. Le parole “gas” e “metano” non possono essere sinonimo di energia pulita.

GRAZIANO. INGEGNERE

«Al gas metano non possiamo rinunciare e comunque non dà controindicazioni».

Questa delle controindicazioni, Graziano, da un ingegnere non ce l’aspettavamo. Estraendo gas si riduce la pressione nelle riserve sotterranee provocando la subsidenza. Estrazione e trasporto non sono a impatto zero e anche se il gas naturale è quella a minore contenuto di carbonio tra le fonti fossili, la sua combustione produce anidride carbonica e altri gas serra. Ti ricorda qualcosa se ti diciamo accordi sul clima di Parigi?

MARCO. ISTRUTTORE CENTRO FORMAZIONE

«Per non parlare dell’assurdità che altre compagnie e altre nazioni verrebbero a fare vicino a casa nostra quello che possiamo fare noi»

In realtà il governo di centrosinistra della Croazia ha già detto no a nuove trivellazioni e il Montenegro è a un passo dal farlo. E in ogni caso, è preferibile dare il buon esempio e non fare danni a se stessi e al pianeta anche se altri decidono di comportarsi diversamente. Soprattutto quando ci sono a disposizione alternative migliori.

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STEFANO. MAGAZZINIERE

«La soluzione migliore sarebbe farle andare avanti. Non servirebbe a niente chiudere le piattaforme»

Stefano, in realtà siamo l’unico Paese che fa andare avanti le estrazioni petrolifere “ad libitum” (peraltro pagando royalty irrisorie e spesso senza neanche pagarle dati i quantitativi minimi estratti). Lo ha permesso il governo con l’ultima legge di Stabilità andando contro le regole europee per le quali ogni concessione pubblica è soggetta a scadenza. Chiudere le piattaforme a tempo debito (e non certo il 18 aprile!) servirebbe a costringere la politica a spostare altrove le sue attenzioni e, ripeto, a dirottare sussidi e incentivi verso energie pulite ed efficienza energetica.

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BARBARA: CONTROLLO QUALITÀ

«Sono preoccupata per il mio posto di lavoro, visto che ho una famiglia e ho dei figli».

Barbara, comprendiamo la preoccupazione ma non c’è alcun rischio immediato. Le piattaforme, se vince il sì, saranno chiuse soltanto a scadenza della concessione e il governo dovrà farsi carico di garantire intanto nuovi posti di lavoro legati alle ecoenergie e all’efficienza. Se voti sì, magari i tuoi figli da grandi faranno il controllo qualità in un impianto eolico offshore e ti saranno grati per aver superato le tue paure accogliendo al visione di un mondo che per tante valide ragioni smette pian piano di estrarre idrocarburi.

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ALESSANDRO. TECNICO IPERBARICO
«Se dovesse passare questo referendum è a rischio il mio lavoro e anche il mare»

Caro Alessandro, sul lavoro ho già risposto a Barbara ma aggiungo che il trend globale è di aumento dell’occupazione delle rinnovabili (anche in Italia dove il governo le mortifica) e riduzione nel settore degli idrocarburi. Quanto al rischio per il mare, gli esperti del settore e la cronologia degli incidenti avvenuti finora confermano che il vero rischio è tenerle in funzione le piattaforme.