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Perché il Pd attacca Raggi, fortissimo

La candidata sindaco di Roma del M5s Virginia Raggi prima di entrare nella sede dell'Anac per incontrare il commissario dell'Autorita' Anticorruzione Raffaele Cantone. Roma, 21 marzo 2016. ANSA/MASSIMOPERCOSSI

La metro di Roma, la C, come nota il collega Andrea Managò è costata un miliardo e mezzo più del previsto. E non è finita. Si potrebbe ridimensionare così la polemica innescata dal Messaggero e cavalcata dal Pd contro Virginia Raggi, accusata di aver causato il crollo del titolo in borsa di Acea con due frasi dette durante un’intervista rilasciata a Sky. Ma è interessante capire perché il Pd alza così i toni.

Virginia Raggi avrebbe imprudentemente detto che lei, se mai sarà sindaco, metterebbe mano alla dirigenza Acea. Lo ha detto, Raggi, perché Acea è sì in attivo e distribuisce utile, ma – appunto – per Raggi la gestione partecipata «non rispetta l’esito del referendum del 2011». «Il Pd difende Caltagirone», può così facilmente contro-replicare. La polemica diventa un autogol, con il Pd che si scopre nuovamente sul fronte sinistro? Può essere, ma non importa, ovviamente. Così si svela la strategia con cui Roberto Giachetti intende affrontare la campagna elettorale: spaventare gli elettori delusi tentati dal votare 5 stelle.

La verginità che può avere un suo fascino in una città commissariata, passata per parentopoli e mafia capitale, deve diventare così pericolosa inesperienza. Giachetti così spera di crescere nei sondaggi, che oggi non escludono neanche il rischio di non andare al ballottaggio. Giorgia Meloni, per dire, ci spera.

Ecco che il Pd ha bisogno di trasformare le elezioni in una gara a due. Loro contro le bufale dei 5 stelle. Loro contro gli strafalcioni della Raggi. Nessuno deve notare Stefano Fassina (per ora l’alternativa a sinistra di Giachetti), nessuno deve concentrarsi su Giorgia Meloni.

Maxi processo Aemilia, un patto fra lo Stato e la ‘ndrangheta

Un patto Stato-‘ndrangheta: si apre così il processo Aemilia. Con le frasi del pentito Giuseppe Giglio, imprenditore imputato e collaboratore di giustizia da poco più di un mese. Referente nelle istituzioni, secondo la Dda, dell’organizzazione criminale riferibile alla cosca cutrese dei Grande Aracri: il consigliere comunale di Fi Giuseppe Pagliani, imputato per concorso esterno. Dichiarazioni che creano molto più scalpore dell’udienza in sé.
In un colloquio del 2012 ricostruito dagli inquirenti e messo a verbale tramite le confessioni di Giglio, il rappresentante della ‘ndrangheta emiliana (per i quali i pm hanno chiesto 20 anni) viene informato da Alfonso Diletto, per i pm uno dei capi del clan, sullo stato degli accordi: «Guarda abbiamo fatto un patto con il politico Pagliani che ci darà del lavoro in regione, provincia e comune. In cambio noi gli dobbiamo trovare dei voti e finanziamenti», oltre ad «un quieto vivere diciamo per il prefetto, perché il prefetto aveva alzato un pò un polverone» con le interdittive antimafia. «Questo – spiega Giglio – era tutto, l’accordo e il patto politico, diciamo, che c’è stato».

Accordo poi non andato in porto a causa del clamore giornalistico che la vicenda stava alzando. Ma l’interlocuzione – e l’intenzione – c’era, a Reggio, così come c’è in Emilia-Romagna.

Non a caso, c’erano il Presidente della Regione Stefano Bonaccini e diversi sindaci costituitisi parte civile, nell’aula bunker costruita ad hoc per ospitare un processo di dimensioni storiche: decine di enti, istituzioni e associazioni costituitesi parte civile, circa mille testimoni, e soprattutto 149 imputati, la metà dei quali emiliani.
Fra questi, per esempio, la famiglia dell’imprenditore Augusto Bianchini, titolare di numerosi appalti nella ricostruzione post terremoto e accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Bianchini avrebbe avuto rapporti costanti con le figure apicali della famiglia. Giglio, ne curava fatturazioni – rigorosamente false, a sua detta, come tutto il colossale giro da lui curato, usato per “oliare”. «Tangenti?», chiede il pm. «Esatto». Chi, ancora non si sa.

le famiglie di mafia in regione

Nelle carte, Giglio parla anche del sistema “familiare” (così definito) ‘ndranghetista: gli affiliati, i metodi e perfino del “battesimo” per entrarvi. Parla dei capi, come Diletto, Nicolino Sarcone, Francesco Lamanna, Antonio Gualtieri, Gaetano Blasco e Antonio Valerio, e dei “fratelli” come lo stesso Blasco, l’imprenditore intercettato il 29 maggio 2012 mentre rideva con Antonio Valerio, un altro indagato, del terremoto e sul lucro che avrebbe comportato.

Questo è solo l’inizio. Ma la rilevanza economica e politica della ‘ndrangheta, negli affari emiliani è una realtà che dev’essere ormai acquisita e che questo processo sta scoperchiando. Processo ampiamente preannunciato nelle pagine del dossier Tra la via Amilia al West, redatto dagli storici gruppi antimafia come AdEst di Bologna, lo Zuccherificio di Ravenna o il Gap di Rimini, di cui abbiamo parlato nel numero 10 di Left.

Mentre sul numero in edicola da sabato, uno sfoglio ad ampio raggio sul fenomeno mafioso e le sue diramazioni, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la XXI Giornata di Libera.
Le udienze riguardanti le 70 persone che hanno richiesto il rito abbreviato, si sta ancora celebrando a Bologna. La prossima udienza ordinaria di Reggio Emilia invece, sarà il 20 aprile.

Molenbeek, dove il Belgio non è più uno Stato

«La gente oggi qui a Molenbeek ha una paura fottuta. Tutti, musulmani e non. All’aeroporto, nella metro, lavorano in tanti del comune e ancora non sappiamo se ci sono vittime o feriti». Annalisa Gadaleta ci parla al telefono a poche ore dagli attentati che hanno colpito Bruxelles. Parla in fretta in un italiano perfetto, e del resto lei è una immigrata pugliese che dal 1994 vive in Belgio. Eletta per i Verdi, è assessore alla Cultura e all’Istruzione di Molenbeek, il comune di 97mila abitanti diventato famoso dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. È proprio questo, infatti, il quartiere dove vivevano gli attentatori del Bataclan ed è sempre questo il luogo dove è stato arrestato pochi giorni fa Salah Abdeslam, il terrorista sopravvissuto. A lei, che per il suo incarico è in stretto contatto con le famiglie musulmane, chiediamo come viene vissuto questo momento dalla comunità islamica. «Tutti sono toccati: nell’essere belga, nell’essere abitante di Bruxelles e anche nell’essere musulmano. Era già successo dopo gli attentati di Parigi, ma temo che adesso sarà di nuovo la comunità musulmana a pagare il prezzo per un gesto terrorista con cui non ha niente a che fare. Il 99 per cento dei musulmani qua ne soffre, non ne può più. Si vive un dramma umano, il clima è pesante. Una mia amica musulmana è stata malissimo durante una perquisizione con un agente che puntava la pistola contro il suo bambino», ricorda Annalisa ancora turbata. Ma da parte dei musulmani c’è una reazione, una condanna? «Tutti condannano il terrorismo così come condannavano anche Salah. Questi terroristi vanno presi, messi in galera. Lo Stato si deve difendere. E io io sono la prima a dire che i network che hanno protetto Salah, che gli hanno fornito armi e documenti falsi vanno smantellati». Ma l’assessore tiene a sottolineare: «Sia ben chiaro che non è il comune o la comunità islamica ad averlo protetto, no, sono dei gruppi precisi che l’hanno fatto. E noi adesso dobbiamo coinvolgere tutti, e abbiamo bisogno dell’appoggio della comunità musulmana perché la logica non deve essere solo quella della lotta al terrorismo ma anche quella di prevenzione». […]


 

Questo articolo continua sul n. 13 di Left in edicola dal 26 marzo

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Bruxelles, le moschee pagate dall’Arabia Saudita e la diffusione del wahabismo in Europa

La storia dell’influenza dell’islamismo salafita in Europa un giorno andrà fatta. È una storia legata a doppio filo al commercio internazionale di petrolio e riguarda tempi lontani in cui la costruzione di moschee e centri islamici non spaventava nessuno. Prima del terrorismo religioso e prima persino delle paure anti-immigrati che lo hanno preceduto di qualche anno. E risale alla creazione del regno, con uno scatto dopo la crisi petrolifera del 1973, quando la Muslim World League di ispirazione saudita ha aperto uffici e cominciato a finanziare la nascita di moschee in ogni angolo del mondo e la edizione più diffusa del Corano, stampata in milioni di copie, è diventata quella approvata dai religiosi wahabiti di stanza in Arabia Saudita.

L’independent ci ricorda oggi la storia della grande moschea di Bruxelles, una scelta risalente al 1967: si decise di restaurare un 800esco padiglione orientaleggiante un po’ in rovina. In cambio di un contratto petrolifero con l’Arabia Saudita il re del Belgio acconsentì a concederlo in affitto per 99 anni e a farlo gestire da religiosi sauditi. Il costo ricadeva su Riad. La nascita della Grande moschea contribuì, scrive il quotidiano britannico, a cambiare la cultura religiosa di una parte della comunità islamica del Belgio, cresciuta a dismisura negli anni 60 e 70 a causa di una forte immigrazione maghrebina incoraggiata da Bruxelles per riempire le fabbriche del Paese. Il fatto è che la forma prevalente di religiosità in Maghreb era ed è meno tradizionalista e fondamentalista del salafismo insegnato dai clerici sauditi. La loro presenza in Belgio ha plasmato il modo di concepire la religione di qualcuno.

Nei giorni scorsi il reggente della Grande Moschea di Bruxelles, il saudita Jamal Saleh Momenah, è stato più volte intervistato dai media ed ha più volte dichiarato che no, i reclutatori e propagandisti dell’Isis nel suo luogo di culto non entrano. Possibile e probabile. Anche Riad negli ultimi mesi ha scelto di provare a fermare l’influenza potenzialmente pericolosa anche per casa Saud. E comunque nessun imam di moschea centrale può permettersi di ospitare reclutatori di terroristi che di certo i servizi di intelligence locali un occhio sui grandi centri islamici lo tengono. Nel 2012 il reggente dela moschea Khalid Alabri venne rimosso dopo che il governo belga aveva protestato per i suoi sermoni anti-occidente e antisemiti.

Il tema no è quindi un collegamento lineare e diretto tra terrorismo e Paesi del Golfo (anche Qatar ed Emirati sono molto generosi), ma, appunto, la diffusione finanziata a suon di petrodollari, di un certo tipo di islam nelle moschee europee e del mondo.

A dicembre scorso il leader dei socialdemocratici tedeschi e vice-cancelliere Sigmar Gabriel ha criticato Riad dichiarando: il tempo di guardare da un’altra parte è finito, le moschee wahabite vengono finanziate in ogni angolo del mondo dai sauditi e in Germania molti individui pericolosi escono proprio da queste comunità». La dichiarazione veniva in seguito a un rapporto interno che sosteneva che la politica estera di Riad – che passa anche dal finanziamento delle moschee, perché è soprattutto volta all’influenza regionale – si è fatta più aggressiva anche in questa direzione. Per qualche tempo è circolata la voce – smentita dai sauditi – che l’Arabia volesse finanziare la costruzione di 200 moschee per i nuovi arrivati in Europa.

Nei mesi scorsi l’Austria ha approvato una legge che viete il finanziamento della costruzione di moschee da parte di stranieri. Il ministro degli Esteri e dell’integrazione, il giovanissimo conservatore Sebastian Kurz, ha sostenuto che la legge non è punitiva perché in realtà aggiorna una legge asburgica, riconoscendo lo status ufficiale di religione, le tombe islamiche e le feste religiose come vacanze e nega solo il finanziamento. Rispondendo al premier turco Erdogan, Kurz ha detto: basta imam pagati dal governo turco (che evidentemente gareggia con Riad in alcuni Paesi centro europei).

Il governo norvegese, a sua volta, ha negato il finanziamento di una mosche a Tromsø: non accettiamo la costruzione di moschee da parte di un Paese dove non c’è libertà religiosa, hanno detto le autorità di Oslo.

Un vecchio articolo del 2001 di un settimanale vicino a casa Saud dettagliava gli sforzi sauditi in termini economici: Riad ha speso miliardi di dollari per finanziare centinaia di scuole, 1500 moschee, 210 centri islamici. Un dispaccio diffuso da Wikileaks ci racconta di come la propaganda in Pakistan finanziata da Emirati Arabi e Sauditi sia volta a ridurre l’influenza dei clerici sufi e a diffondere il wahabismo. Come altrove, i quartieri e i Paesi poveri sono oggetto di finanziamento: le madrasse e le moschee sono anche centri di servizi che abbinano sostegno e lavoro sociale al proselitismo.

L’influenza passa anche per vie indirette, come la creazione di un fondo da 50 milioni di euro investiti dal Qatar nelle banlieue parigine per creare imprese.

Tutto questo lavorìo per influenzare le popolazioni musulmane d’Occidente, d’Asia e d’Africa non è volto necessariamente a finanziare il terrorismo, sebbene i legami tra Isis, talebani, al Qaeda e almeno qualche importante famiglia regnante del Golfo siano stati apertamente nominati anche da Hillary Clinton ai tempi in cui era Segretario di Stato. Il tema è più generale: per contrastare lo sciismo e altre forme sunnite di islam, i regnanti sauditi hanno speso miliardi di dollari, alla maniera dei sovietici e degli americani che si facevano guerra culturale e fredda a partire dal 1948, per diffondere la loro versione del Corano. Una conseguenza è stata – assieme a molte altre cause complicate e generate in Occidente – la diffusione di una religiosità più conservatrice e assoluta di quanto non fosse prima nelle comunità islamiche in Europa e negli Stati Uniti. Questo regalo lo dobbiamo ai Sauditi e agli altri staterelli del Golfo.

Bruxelles: parole, parole, parole

epa05228235 Paper butterflies are stuck on a wall alongside messages as people gather to pay tribute to the victims of multiple terrorist attacks accross Brussels on 22 March, at Place de la Bourse, Brussels, Belgium, 23 March 2016. Security services are on high alert following two explosions in the departure hall of Zaventem Airport and one at Maelbeek Metro station in Brussels. At least 31 people died and hundreds more were injured in the attacks which Islamic State (IS) has since claimed responsibility for. EPA/YOAN VALAT

Valanghe di parole sui morti ammazzati. Se si potessero seppellire con la retorica i morti di Bruxelles sarebbero almeno dieci metri sotto terra. Politici da Vespa, politici durante la giornata televisiva, pareri sparati a cazzo, esperti dell’ultima ora, salvini che salvinano in ogni dove.

Ogni volta che scoppia un attentato la televisione nostrana si riempie di esperti. Ieri sera da Vespa il direttore (sigh) della Stampa Molinari ci ha addirittura detto che il tassista di Bruxelles avrebbe dovuto “avvisare al primo semaforo un vigile urbano” per sventare l’attentato. Feltri (sempre più infeltrito da se stesso) ha compiuto un’analisi antropologica sugli “islamici moderati” (che suona un po’ come gli “italiani poco mafiosi”) arrivando alla conclusione che sono troppo moderati, gli islamici moderati. Ecco.

Hanno sezionato le schegge delle bombe: ne hanno raccontato il profilo, la sostanza, i rimbalzi e le ferite nella pelle delle vittime. La necrofilia è l’ingrediente principe del menu quotidiano, centellinato come se fosse un prezioso beveraggio, un accompagnamento nobile e una spezia indispensabile per dare gusto.

Così oggi, in tivù è stata la giornata delle parole vomitate mentre nessuno ha trovato il tempo di spiegare che il reato di terrorismo, ad esempio, non è omogeneo nel resto d’Europa. Abbiamo una federazione di stati che non riesce nemmeno a mettersi d’accordo sul codice penale. Ma finge di continuo di volerlo fare.

Nel giorno dopo del terrorismo il proscenio è tutto dei bigotti. Bigotti di ogni specie che partono da direzioni opposte per ritrovarsi tutti nella Piazza del Populismo. Parole sprecate, menti soffritte, giudizi banalissimi e intorno tutto un Paese che crede senza giudizio.

Brutta cosa il giorno dopo al terrorismo. Qui da noi.

Buon giovedì.

Attentano alle nostre vite, ma possono poco contro un belga testone

Conoscerli per combatterli. Ibrahim El Bakaoui è uno dei tre uomini che avete visto in foto sui giornali mentre spingono altrettanti carrelli carichi di esplosivo nella hall delle partenze dell’aeroporto.

Ibrahim, prima di farsi esplodere, aveva lasciato un messaggio vocale in un sacco della spazzatura. “Mai come Salah”, diceva. L’onta del “martire” designato, Salah appunto, che il 13 novembre a Parigi ha avuto paura del nulla, si è tolto la cintura esplosiva e ha scelto di vivere è la colpa disonorevole che gli attentatori -e i loro mandanti- dovevano a qualunque costo cancellare.

“Non so più che fare (che altro fare)” avrebbe detto anche questo, nel suo ultimo messaggio, Ibrahim. Dopo una vita senza futuro. Condannato nel 2011 a nove anni di prigione, per una rapina a mano armata finita male, in cerca di una nuova vita si era convertito finendo nella setta Is. Il viaggio iniziatico nel paese della Daesh, la decisione finale di ammazzarsi ammazzando.

Il fratello Khalid non era con lui nella foto. Si sarebbe fatto saltare poco dopo nella metropolitana. Gli altri due dell’aeroporto, non sono ancora stati identificati. Uno sarebbe forse l’altro kamikaze dell’aeroporto, il terzo ancora in fuga. Però la polizia è entrata nel “covo” dei fratelli El Bakroui e ha trovato 15 chili di esplosivo, 150 litri di acetone, 30 di acqua ossigenata, detonatori. Una bomba che avrebbe fatto chissà quante altre vittime. Ma che non è arrivata a destinazione.

E questa è una storia davvero belga, come nelle barzellette sui belgi o in una bande dessinée belga. I terroristi avevano chiesto un pulmino capiente, quella mattina per poter svolgere il loro lavoro di morte. La centralinista del servizio taxi, però, non aveva capito. Così si vedono arrivare sotto casa una utilitaria. La morte ha fretta e loro cercano di convincere il tassista a caricarsi tutte e tre le valigie bomba. Ma un tassista belga è un belga al cubo: niente da fare, la terza, la più grossa rientra nel covo.

Intanto il belga alla guida si fissa bene in mente quelle facce, quelli che lo volevano convincere a fare una cosa che non voleva fare. E che alla fine non aveva fatto. Subito dopo il macello all’aeroporto e nella metropolitana, li riconosce nelle fotografie diffuse in televisione: chiama la polizia e la porta nel covo.

Sono fatti così. Attentano alle nostre vite ma possono poco contro un belga testone.

Brasile in piazza con e contro Lula. Che succede a San Paolo? Intervista a Breno Altman

Il 18 marzo più di un milione di persone hanno manifestato, nelle principali città del Brasile, contro l’impeachment e per dare solidarietà a Lula. La concentrazione maggiore si è registrata a San Paolo, dove 200mila persone hanno sfilato nella principale via della città. La società brasiliana appare nettamente divisa: la destra compie l’impresa e riunisce la classe media, specialmente i suoi strati più elevati, mentre la sinistra conserva i suoi militanti e può contare ancora su settori importanti della classe lavoratrice. Ne parliamo con Breno Altman, giornalista brasiliano e direttore di OperaMundi.

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Breno Altman

Direttore, abbiamo visto piazza contro Lula e in piazza per Lula. Da che parte sta il Brasile?

Finora, nelle piazze vincono le forze conservatrici, anche se le sue fila sono meno organizzate e più dipendenti dai mass media, che fungono da vero e proprio partito di opposizione al governo petista. In particolare le Organizações Globo, uno dei maggiori monopoli di informazione del mondo. Il settore progressista, anche se minoritario nello scenario attuale, ha una maggiore capacità di mobilitazione permanente e lotta per attirare nella disputa politica i settori più poveri urbani e rurali, ovvero i principali beneficiari di quel processo di mutazione iniziato nel 2003. Di fatto, questo settore, con un reddito fino a cinque salari minimi (circa un migliaio di euro), è ancora il grande assente nel conflitto in corso, pur avendo votato per il Pt in tutte le ultime elezioni presidenziali a partire dal 2002.

Perché chi ha votato il partito di Lula e Dilma adesso non va in piazza a difenderli?

Questa assenza si spiega, almeno in parte, con la svolta liberale attuata da Dilma dopo la rielezione del 2014, con l’adozione di una politica economica che ha tagliato la spesa pubblica, limitato i diritti sociali ed elevato fortemente i tassi di interesse, spingendo il Paese verso la recessione e un aumento della disoccupazione. Senza un cambiamento di questa politica economica, difesa dal Pt e Lula, sarà molto difficile attirare a sé la maggioranza degli strati popolari per allinearli contro il colpo di Stato in corso.

Lula parla di attacco politico. Chi lo attacca? ci sono già politici candidati alle presidenziali 2018?

C’è una alleanza tripartitica che sta attaccando il petismo: l’opposizione di destra, i monopoli della comunicazione e frazioni dell’apparato repressivo dello Stato (incorporati nella Polizia giudiziaria, nel pubblico ministero e nella Polizia federale). In apparenza non esiste una direzione centrale del movimento antipetista, ma è chiaro che il cuore di questa escalation risiede nel ruolo svolto dalla stampa conservatrice, che da risalto tanto ai partiti dell’opposizione quanto a giudici, procuratori e agenti di polizia impegnati in presunte investigazioni in casi di corruzione che riguardano il governo o l’ex presidente Lula. Oltre al rovesciamento del governo, attraverso l’impeachment (la sinistra non raggiunge più di 120 membri su 513, se si votasse senza l’appoggio dei parlamentari centristi e del Pmdb e altri piccoli partiti) risulta evidente l’intenzione di criminalizzare Lula impedendogi di partecipare alle elezioni del 2018.

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il pm Sergio Fernando Moro

Chi sono i giudici e i pm di cui parli?

Il giudice dell’Operazione Lava Jato, Sergio Fernando Moro, si ispira al magistrato italiano Antonio Di Pietro e ha con lui un’identità politico-ideologica somigliante: cattolico e di centro destra, nel corso delle indagini, adulato dalla stampa e dall’opinione pubblica conservatrice, è andato adottando sempre più un profilo antipetista. Attualmente è presentato come il grande eroe delle classi più reazionarie che manifestano nelle strade per rovesciare il governo di Dilma e criminalizzare il Pt. E, poco a poco, adotta misure che i suoi pari considerano abusi legali e costituzionali. Una di queste è stata la conduzione forzata dell’ex presidente Lula per la testimonianza senza che avesse prima ricevuto una qualche conovocazione per deporre volontariamente, come prevedono invece le norme giuridiche brasiliane. Un’altra è stata quella di divulgare le intercettazioni telefoniche dell’ex presidente, incluse le conversazioni con l’attuale capo di Stato, quando già era definita la nomina di Lula al ministero, cosa che da sola potrebbe bastare per finire sul tavolo della Corte Suprema. Moro rappresenta una corrente di “giustizializzazione” della politica molto attiva in Brasile, che in ultima istanza cerca di trasferire il comando dello Stato ai pubblici ministeri e al potere giudiziario, che iniziano a interferire, deliberare e legiferare su tutti gli aspetti della cosa pubblica.

Scandali e inchieste a parte, come vanno le cose in Brasile?

Il Brasile è in recessione dal terzo trimestre del 2014. Lo scorso anno, il Pil è diminuito del 3,8%. E altrettanto è previsto nel 2016. Anche il 2017 potrebbe essere un anno compromesso in questo senso. La disoccupazione ha raggiunto il 9% alla fine del 2015, con un aumento del 41% del numero di persone senza un’occupazione fissa. Anche il salario reale è stato ridotto, del 2%, dopo dieci anni di continua crescita.

Cosa è cambiato a tal punto da determinare un tale disastro?

Dietro questi numeri ci sono diverse ragioni. Una di queste è il rallentamento dell’economia mondiale, con l’abbassamento dei prezzi delle merci, fonte principale delle esportazioni brasiliane. Ma la più importante delle ragioni è stata l’insieme delle politiche, moderatamente adottate dal 2011 e radicalizzate a partire dal 2015, per ampliare il ruolo degli investimenti privati e combattere l’inflazione. Le misure più importanti in questo senso sono state l’aiumento dei tassi di interesse e la riduzione sia della spesa che dell’investimento pubblico, paralizzando l’economia e limitando il mercato interno, invece di aumentare la tassa progressiva sul consumo dei più ricchi e incoraggiare i consumi delle famiglie. Questa politica economica è imparentata con l’austerità europea, ma esacerbata dalla crescita brutale dei trasferimenti delle risorse di Stato alle grandi corporazioni. Una politica che confonde e restringe la base di appoggio del governo petista. Da questa fragilità trae origine la crisi politica che sta attanagliando il Brasile. Poiché ha permesso l’accelerazione dell’offensiva conservatrice, resa in grado di mobilitare la classe media e favorita dalla relativa neutralizzazione dei lavoratori.

Varoufakis a Roma per presentare DiEM25. La diretta streaming

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Oggi a Roma la presentazione del nuovo movimento fondato da Yanis Varoufakis. Qui sotto potete seguire la diretta a partire dalle 19.00.

Per quanto, a livello globale, manifestino preoccupazione verso questioni come l’immigrazione e il terrorismo, le potenze hanno un solo vero spauracchio: la Democrazia!
Si autoproclamano paladini della democrazia ma solo per negarla, esorcizzarla e sopprimerla nella pratica. Quello che un tempo fu il governo dei popoli europei, il governo della demos, oggi è il loro incubo.
L’Unione Europea avrebbe potuto essere la tedofora della democrazia, dimostrando al mondo come la pace e la solidarietà possono essere strappate dalle fauci dei fanatismi e dei conflitti secolari. Disgraziatamente una burocrazia e una moneta comune dividono i popoli europei che iniziavano a sentirsi uniti malgrado la diversità delle nostre lingue e delle nostre culture diverse.
In seno al collasso dell’UE si cela un inganno illegittimo: un processo decisionale, fortemente politico, opaco e imposto dall’alto viene presentato come “apolitico”, “tecnico”, “procedurale” e “neutrale”. L’obiettivo è impedire agli europei di detenere il controllo democratico su denaro, finanza, condizioni lavorative e ambiente.
Il prezzo di questo inganno non coincide solo con la fine della democrazia ma anche con politiche economiche insufficienti. […]
Ci deve essere qualche altro percorso praticabile. E, infatti, c’è! «L’Europa sarà democratizzata, o si disintegrerà!».
C’è una citazione di Edmund Burke che si adatta perfettamente all’Europa di oggi: «la sola cosa necessaria perchè il male trionfi è che le brave persone non facciano nulla». Così i democratici impegnati devono decidersi ad agire per tutta Europa. È per richiamare questo impulso, che ci stiamo riunendo per fondare un movimento, il DiEM25.Veniamo da ogni parte d’Europa e siamo uniti da diverse culture, lingue, accenti, affiliazioni politiche, ideologie, colori della pelle, identità di genere, credi e idee per una società migliore. […] E la parola chiave di questo movimento è: democratizzare l’Europa.

Dal manifesto del DiEM, Movimento per le Democrazia in Europa

Il Q&A con Yanis Varoufakis in attesa di DiEM25 questa sera a Roma

In diretta dall’incontro della mattinata organizzato da DiEM25 delle brevi schede grafiche con domande e risposte su Europa, democrazia, Grecia, economia e crisi in Nord Africa.

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(infografiche realizzate da Giorgia Furlan)

«Portare il caos ovunque», il manuale di strategia dei terroristi e la strage di Bruxelles

Se c’è un aspetto che spaventa nelle stragi di Bruxelles e prima in quella di Parigi e di San Bernardino, è la capacità di alcune idee di arrivare a distanza, parlare a chi non è stato coinvolto nella guerra in Iraq, né ha parenti che vivono sotto le bombe di Assad delle potenze che bombardano in Siria. La forza dell’Isis è quella di costruire un luogo geografico del conflitto militare, un fronte per il quale partire, l’idea di uno Stato islamico che amministra ed è la realizzazione di una profezia – il regno di dio in terra – e, al contempo, la possibilità di consegnare una missione a chi sceglie il Califfato ma vive a migliaia di chilometri di distanza.

Con un messaggio efficace e un’ottima organizzazione della propaganda in rete, la macchina di al Baghdadi è riuscita ad arruolare migliaia di foreign fighters occidentali (in Afghanistan erano uzbeki, mediorientali, arabi) e, grazie a questi, a seminare la paura in occidente. Una paura così, per quanto sia possibile misurarla, non c’era stata dopo l’11 settembre, non dopo le bombe di Madrid e neppure dopo quelle di Londra.

Gli attentati in serie, e gli episodi minori come le coltellate nella metropolitana di Londra costringono a tornare a interrogarsi sulla natura del Califfato e dei suoi seguaci in Occidente – foreign fighters di ritorno dalla Siria o a questi legati, come a Bruxelles e lupi solitari che siano. A che gioco sta giocando Daesh e come mai il suo messaggio produce tanti coscritti volontari nelle capitali d’Europa? E perché la risposta bellicista ed emergenziale del presidente Hollande e quella dell’opinione pubblica francese che ha votato in massa il Front National sono esattamente quello che gli strateghi del Califfato cercavano?

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Il frontespizio di Management of savagery

Per rispondere a queste domande sarà utile tornare a leggere Idarat at Tawahoush, un manuale di strategia politico-militare il cui titolo possiamo tradurre in La gestione della ferocia (o della barbarie). Disponibile online dal 2004 – e tradotto qui in inglese da William McCants, un analista di Brookings Institution – il volume è firmato dallo sconosciuto Abu Bakr Naji, nome che ricompare solo su qualche articolo di Inspire, il magazine online di al Qaeda in Arabia Saudita, ed è una guida pratica alla realizzazione pratica della feroce utopia apocalittica professata da Daesh.

Le 250 pagine saccheggiano a piene mani da teorici e pratiche occidentali: tra gli autori citati c’è, nel prologo, lo storico Paul Kennedy, che scrisse della crescita eccessiva degli imperi come causa della loro implosione (gli Stati Uniti sarebbero in questa fase, secondo Abu Bakr Naji ). Il testo più menzionato è invece The war of the flea, un classico sulle tattiche della guerriglia scritto da Paul Taber nel 1965. Il libro di Taber comincia così :«La guerriglia combatte la guerra della pulce, mentre il suo nemico militare subisce gli svantaggi del cane: troppo territorio da difendere; troppo piccolo, onnipresente e agile il nemico con il quale ha a che fare».

Leggendo La gestione della barbarie e confrontando il testo con gli accadimenti delle ultime settimane sembra di ritrovare la messa in pratica della strategia contenuta nel volume. Una strategia che ha funzionato in due modi diversi: per la costruzione e consolidamento del Califfato nel caos iracheno-siriano e come arma di propaganda e reclutamento in Occidente. E che prevede la violenza brutale e la sua diffusione online come strumento per diffondere paura e trovare nuovi seguaci. Le decapitazioni e le esecuzioni di massa, non sono il frutto della violenza sanguinaria di un gruppo di selvaggi, ma parte di un disegno di propaganda moderna. E l’autore non è un chierico che commenta il Corano, ma uno che legge in inglese e sa come va il mondo. Del resto i documenti pubblicati da The Guardian la scorsa settimana, che illustrano i piani per il consolidamento del Califfato, il suo farsi entità statuale compiuta, sono un ulteriore segnale di questa capacità di pensiero strategico e pianificazione.

Partiamo dal Califfato ricordando come a metà anni Duemila la strategia globale di al Qaeda e la sua rete sono in seria difficoltà. I vuoti di potere in Iraq e altrove vanno incoraggiati e creati perché sono lo spazio dove insinuarsi per riportare l’ordine – dice in sintesi Abu Bakr Naji – Per questo è utile colpire gli interessi economici degli Stati deboli (turismo, petrolio) in maniera da portare eserciti e polizie a difendere quei luoghi e lasciarne incustoditi altri – vengono in mente la notte di Parigi e le bombe allo Stade de France, così come alcuni omicidi mirati in Yemen. Negli spazi occupati occorrerà usare la violenza per generare terrore nelle popolazioni che abitano i territori del Califfato e perché in quegli spazi vuoti si sarà in competizione con altri gruppi jihadisti e con le mafie. Con questi gruppi criminali occorrerà fare alleanze o sconfiggerli militarmente, si legge ancora nel volume.

Anche queste scelte sono state fatte: il commercio di armi e petrolio, il traffico di opere d’arte non si fanno senza alleanze con le mafie. E legami – stavolta militari – fatte con le tribù sunnite vessate dal governo iracheno guidato dal filo-iraniano al Maliki fino al 2014 e con gli ex baathisti legati a Saddam Hussein sono una costante. In questo, come sull’uso di alcune forme di violenza contro i nemici inermi, Daesh ha molto poco della purezza dottrinaria della al Qaeda di Osama bin Laden e somiglia semmai alla rete irachena di al Zarqawi, fatta di combattenti cresciuti dopo il devastante assedio di Falluja, in un ambiente di guerra, passati per le carceri irachene e sottoposti alle torture ad Abu Ghraib o alle immagini di queste. Daesh e i suoi strateghi si nutrono del contesto nel quale sono cresciuti: l’Iraq di Saddam, la Siria di Assad e poi le violenze delle milizie sciite divenute esercito iracheno sui sunniti. Colpire a Beirut significa vendicarsi ma anche alimentare lo scontro inter-confessionale con gli sciiti, scontro cruciale per mobilitare la umma in Iraq.

L’uso della violenza viene teorizzato anche come strumento per creare spaccature nelle società, fare in modo che tutti e ciascuno entrino in guerra, con o contro gli eserciti che combattono dalla parte giusta, non va lasciato spazio al dialogo, né alla neutralità.

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isis_0Leggi anche “Nella testa del foreign fighter”, l’intervista a Scott Atran 

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Altro punto in cui la strategia proposta da La gestione della barbarie e la realtà si incrociano è dove si legge che occorre far pagare ai nemici le conseguenze delle loro azioni: gli attentati di Parigi, Beirut e l’abbattimento dell’aereo russo sono esattamente questo. Azione e reazione brutale, che serva a spaventare i nemici, ma anche a farli reagire, magari inviando truppe in Siria. Non c’è da temere per queste, la gestione della barbarie passa anche per sconfitte militari che contribuiscano a indebolire gli imperi nel lungo periodo e a coinvolgere un numero crescente di musulmani d’Occidente: «Diversificare e amplificare le vessazioni contro il nemico crociato-sionista dentro e fuori il mondo islamico per disperdere i suoi sforzi».

E qui veniamo alla presa sui foreign fighters. Le attività vanno pensate anche per «motivare folle di persone e portarle a combattere nelle regioni che governiamo. I giovani in special modo» che questi sono naturalmente propensi alla rivolta. Specie quelli cresciuti nelle periferie urbane delle metropoli del Nord Europa, verrebbe da dire, che, come ha scritto l’antropologo Scott Atran, che ha condotto decine di interviste tra estremisti occidentali e foreign fighters catturati, «La maggior parte di queste persone sono “rinati nel jihad”» non attraverso l’avvicinamento da parte di reclutatori o familiari, ma per percorsi individuali o con amici «Molti di questi giovani non si identificano con il loro Paese e neppure con quello di provenienza dei genitori. Ogni altra identità che posseggono è debole (…) Per chi ha faticato a darsi una ragione di vivere l’ISIS è una causa eccitante che promette gloria e stima presso gli amici e un rispetto e ricordo eterni (…) Non si tratta di assumere l’identità del musulmano devoto, ma di diventare un mujahid, un combattente, fare un salto rapido e immediato che cambia la vita e le fornisce senso attraverso il sacrificio». L’idea di partecipare alla costruzione di un’utopia e al compimento di profezie attraverso la rivolta contro il sistema non è male come risposta a una crisi di identità.

Ricapitolando: farla pagare al nemico, polarizzare le società e chiamare ogni fazione alla guerra, usare la violenza per terrorizzare e far crescere la paura. Ora, ripensate alle settimane passate e chiedetevi se questo libro del 2004 non sia incredibilmente attuale. E se una parte consistente dei gruppi dirigenti occidentali – Hollande in testa – non stiano facendo esattamente quel che Daesh cerca.