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In Europa aumentano i casi di volontari processati o multati per aver aiutato rifugiati

epa05215575 Migrants and refugees wait in line for tea, at a makeshift camp at the border between Greece and the Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM) near Idomeni, northern Greece, 17 March 2016. Greek Prime Minister Alxis Tsipras on 15 March called on refugees to allow the Athens government to move them from Idomeni camp to reception centers, stressing that the borders are closed and will not be reopened in the near future. Greece has registered in its territory more of 44,000 migrants trapped due to entry restrictions already imposed by Macedonia in recent months, by denying entry to all those who are considered economic migrants, prohibiting the passage of Afghans, and finally denying entry to all Syrians and Iraqis who are not from combat areas. EPA/NAKE BATEV

I casi di cittadini europei arrestati, multati o processati per aver aiutato rifugiati in fuga dalla guerra in qualche modo si stanno moltiplicando. A lanciare l’allarme dal suo blog (e in un post tradotto da Open Migration) è Nando Sigona, professore a Birmingham che si occupa di migrazioni.
Vediamo qualche caso segnalato da Sigona: in Danimarca 300 persone hanno ricevuto multe o peggio. Lisbeth Zornig, che è stata Ombudsman (garante dei diritti) dei bambini del Paese ha ricevuto una multa da circa 5mila euro per aver dato un passaggio a una famiglia con bambini dopo che questa era stata fatta scendere da un treno in aperta campagna perché il 7 settembre le autorità danesi avevano deciso di chiudere il transito verso Svezia e Germania. L’accusa è quella di traffico di esseri umani. Come lei molti altri che, passando in macchina su una strada hanno dato un passaggio a famiglie di disperati, offerto un caffé e del cibo. «Così criminalizzano la solidarietà», spiega Zornig a The Independent.

A Lesbos i volontari arrestati e messi sotto processo e accusati di traffico di esseri umani sono 5. Tre danesi e due spagnoli che lavorano per TeamHumanity. Sull’isola ci sono spesso tensioni tra Ong e autorità locali, che vorrebbero un afflusso di volontari più coordinato e controllato, ma anche qui, come in Danimarca, l’intento sembra quello di voler scoraggiare i volontari a partire, ad aiutare. I volontari hanno raccolto gente in mare dopo aver avvisato la Guardia costiera, che però non si è presentata: su Lesbos le imbarcazioni ufficiali per raccogliere gente in mare sono solo 5.

Un militare britannico in pensione è invece stato processato per aver aiutato una bambina siriana a lasciare Calais ed entrare in Gran Bretagna dove ha dei parenti: «Ero nel campo di Calais a fare volontariato, costruivamo rifugi e la bambina si era addormentata, non potevo abbandonarla nel fango» ha detto al processo. Assolto, ha promesso di continuare a cercare di aiutare.

Sigona commenta così questo moltiplicarsi dei casi di criminalizzazione dei volontari:

Forse, dunque, dovremo aspettarci altri processi “spettacolari” di questo genere. Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’attuale gestione della crisi da parte dell’Unione Europea è che le cattive abitudini si diffondono in fretta; come nel caso dei muri di filo spinato (…) accolti in un primo momento da forti opposizioni e oggi presi a modello da molti stati europei. La criminalizzazione dei volontari mira innanzitutto a scoraggiare il coinvolgimento della società civile europea, e da ultimo a indebolire e dividere l’ultimo bastione contro una linea dura dell’Ue nei confronti dei rifugiati. È questa linea dura che sta portando anche alla chiusura sistematica di qualsiasi via d’uscita legale dalla Siria, intrappolandone la popolazione all’interno del paese.

Per questo media, società civile, persone comuni devono sorvegliare, informarsi, tenere gli occhi aperti: è in corso in Europa uno scivolamento verso pratiche e idee che il continente ha bandito dalle proprie leggi e abitudini dopo la Seconda guerra mondiale. Fermare la deriva dovrebbe essere la prima preoccupazione di chiunque abbia a cuore il modello europeo, in qualsiasi modo lo si declini.

Tutti gli ostacoli all’accordo Europa-Turchia sui rifugiati

epa05214801 Refugees warm themselves by a fire at the border between Greece and the Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM) near Idomeni, Northern Greece, 15 March 2016. Greek Prime Minister Alxis Tsipras on 15 March called on refugees to allow the Athens government to move them from the Idomeni camp to other reception centers, stressing that the borders are closed and will not be reopened in the near future. Greece has registered more than 44,000 migrants that are currently trapped due to entry restrictions already imposed by Macedonia in recent months, by denying entry to all those who are considered economic migrants, prohibiting the passage of Afghans, and finally denying entry to all Syrians and Iraqis who are not from combat areas. EPA/NAKE BATEV

I leader europei si riuniscono di nuovo oggi e domani per discutere dell’accordo con la Turchia sui rifugiati. Difficile dire se quello che pochi giorni dopo essere stato contrattato appare come un morto che cammina sia ancora una base sulla quale contrattare. I fattori che rendono l’accordo improbabile e difficile da fa approvare ai 28 sono moltissimi. Alcuni interni alla stessa Unione europea, altri riguardano la legalità e praticabilità delle condizioni ottenute dal premier turco Davutoglu. E l’irritazione generalizzata per quello che diversi leader europei definiscono – con ragione, ma per  opportunismo – “il ricatto turco”. Poi c’è il tema vero, quello che riguarda il rispetto delle leggi internazionali: la Turchia è o no un Paese terzo sicuro dove l’Europa può espellere persone in fuga dalla guerra? Il diritto all’asilo dei siriani (e i diritti umani di tutti) sono garantiti in Turchia? Probabilmente no e a Bruxelles sanno che qualsiasi tribunale europeo, la Corte di Giustizia di Lussembirgo o il la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo potrebbero definire l’accordo illegale.

Parlando davanti al Bundesbank Angela Merkel ha difeso l’accordo, attaccato gli Stati d’Europa che hanno chiuso le frontiere per il loro aver agito in maniera egoistica ed unilaterale, ripetendo che la peggior crisi dell’Europa unita si risolve solo affrontandola come Europa. Sia la leader tedesca che il vicepresidente della commissione Timmerman hanno detto: non stiamo dando un via libera alla Turchia.

La commissione intanto, mostra di esistere scrivendo un testo preparatorio che verrà discusso venerdì mattina. Nel testo (qui in inglese) vengono ribaditi tutti i punti della bozza di accordo con Ankara ma per ciascuno vengono fissai dei paletti (liberalizzazione dei visti dopo che la Turchia avrà dato risposte su 72 punti fissati dall’Ue mesi fa, modalità dello scambio di rifugiati un reimpatrio per un siriano in Europa, salvaguardie legali per i richiedenti asilo, modalità di pagamento dei 6 miliardi che l’Europa donerà alla Turchia, ecc.).

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Cosa dice l’accordo con la Turchia e perché è illegale

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Dopo un viaggio a Nicosia e Ankara, il presidente del consiglio europeo Tusk ha dovuto registrare l’irrigidimento di Cipro, pronta a mettere il veto sull’accelerazione del processo di adesione turco. E quindi anche su quello il testo della Commissione frena. Il testo si è reso necessario per frenare le mille preoccupazioni emerse dopo il vertice durante il quale la bozza di accordo è stata contrattata con Ankara, ma non è detto che il quadro che delinea basti a rispondere alle resistenze di alcuni Paesi europei o che non faccia irrigidire i turchi. Ankara è in difficoltà su vari fronti e non vuole dare segni di cedimento, deve vendere l’accordo come un successo.

Diversi problemi vengono da Paesi europei che non sono Cipro e riguardano la crisi dei rifugiati. L’Ungheria di Orban non vuole sentir parlare di redistribuzione dei rifugiati (e con lei ci sono la Polonia, la Repubblica Ceca il cui presidente Zeman ha definito la posizione turca un ricatto. Anche il francese Valls ha usato gli stessi termini. La Bulgaria vuole che l’accordo prevede la possibilità di spedire in Turchia anche i rifugiati che passaranno i suoi confini – che se il passaggio in mare diverrà più difficile, aumenteranno. L’Austria resiste all’idea di una liberalizzazione dei visti temendo un flusso in ingresso e la conseguente crescita della destra xenofoba dell’FPO che fu di Haider in vista delle elezioni presidenziali che si tengono in aprile.  Francia e Spagna, che pure non avevano protestato dopo la prima bozza di accordo, oggi resistono: dopo aver subito critiche da parte della sinistra, Rajoy si è fatto più coraggioso in materia di diritti umani. Lo stesso si dica per Hollande, che pure non ha brillato nel rispetto della dignità delle persone nella “Giungla di Calais”.

Preoccupazioni in materia di rispetto dei diritti umani da parte turca sono venute anche dal commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks, che ha anche aggiunto che l’accordo non fermerà i flussi in ingresso. Più netto ancora il giudizio di una lettera ai leader europei scritta da organizzazioni umanitarie e di assistenza ai rifugiati di 20 Paesi diversi (tra cui Oxfam, Save The Children e l’italiana ASGI) che esprimono preoccupazioni sulla qualità legale dell’accordo con la Turchia.

Ci sono due giorni per trovare una via d’uscita. Difficile. Se questa poi sarà adeguata a rispondere alla catastrofe umanitaria e sarà rispettosa dei diritti umani delle persone che fuggono dalal guerra, lo sapremo solo quando leggeremo un testo e vedremo l’eventuale accordo applicato. A giudicare dalle posizioni di diversi Paesi europei e dal comportamento della Turchia non c’è da essere ottimisti. Al confine tra Grecia e Macedonia, intanto, migliaia di persone vivono in un accampamento di fortuna. E altre potrebbero cominciare ad arrivare dalla Libia, stavolta in Italia. Lo ha detto Federica Mogherini. Servirebbe grande coraggio e impegno umanitario. E invece siamo a discutere di visti e soldi con la Turchia.

Ci vorrebbero impermeabili. Ma noi no

A woman is assisted while crossing the river along with other migrants, north of Idomeni, Greece, attempting to reach Macedonia on a route that would bypass the border fence, Monday, March 14, 2016. Hundreds of migrants and refugees walked out of an overcrowded camp on the Greek-Macedonian border Monday, determined to use a dangerous crossing to head north(AP Photo/Visar Kryeziu)

Deve succedere qualcosa perché il cimitero liquido voluto dagli egoisti d’Europa possa realizzarsi senza troppo disturbo: un lento, sottotraccia, processo di impermeabilizzazione dei cittadini europei. Cioè noi. A ben vedere. Riuscire a tenere ben chiusi tutti i pori in cui possa entrare umanità e misericordia (nel senso laico di dividersi lo stesso cuore) per normalizzare la tragedia. Se accade succederà che i rifugiati si trasformeranno definitivamente in puzzolente sacchetto dell’umido, se noi permetteremo un’etica differenziata.

Succede che se blocchi tutte le strade ad un popolo di genitori spaventati semplicemente aprirai nuove vie sempre più pericolose. Non si ferma il terrore, non si ammansisce: al massimo si nasconde ma continuerà a gocciolare nelle tubature più sommerse. Così un popolo vomitato dal proprio Paese in guerra se è arginato con i muri, le quote, il filo spinato o i respingimenti in qualsiasi forma non dovrà fare altro che trovare un altro pertugio, inventarsi una strada, immaginare un passaggio lì dove nessuno potrebbe prevederlo: così si finisce a fotografare padri appesantiti dal dolore che trascinano figli guadando il fiume appesi ad una corda come scimmie.

C’è solo un modo perché questa Europa non si inzuppi di vergogna: che nonostante tutto noi, questa mattina, ci prendiamo il nostro treno, saliamo sul solito autobus e timbriamo il biglietto non accettando di diventare muti, sordi, impermeabili e distratti. Ogni morto che non ci sfiora è una stelletta in più sulla divisa dei burocrati per cadaveri da portare in discarica. Se noi ci atrofizziamo loro si rivitalizzano nell’impegno di murarsi vivi per potersene fregare dei morti.

Ecco: stamattina basterebbe pensarci un minuto, provare a parlarne alla macchinetta del caffè, condividere una foto qualsiasi di quelle che sanguinano dolore. È resistenza, partigianeria: riuscire ad essere buoni significa armarsi per provare a resistere al fronte. Eroismi strabici, certo, in un tempo di cuori invertiti.

Buon giovedì.

Bruxelles e le ambiguità dell’Occidente che ci hanno portato Bin Laden e al-Baghdadi

Spari a Bruxelles e due terroristi in fuga, a Parigi 4 arresti per sventare un attacco imminente. Tornano? Non se ne erano mai andati. Sono giovani europei che si sono convertiti – termine appropriato, perché se anche i genitori fossero stati musulmani, la fede che loro abbracciano è tutt’altra cosa -, che sognano l’obbedienza assoluta alla parola di Dio, trasmessa e deformata da una tradizione medievale, che detestano i diritti e riducono i rapporti umani alla vecchia dialettica schiavo-padrone: il combattente si prende la donna, l’emiro la vita dei suoi uomini, il credente l’anima dell’infedele.
Le forze di polizia ora vigilano, e ci mancherebbe. Ma non ci libereremo dell’incubo, della possibilità che questi infelici irrompano in un altro Bataclan, sparino contro la terrazza di un altro bar, se non schiacciamo la testa del serpente. E la testa del serpente è oggi tra Siria e Iraq, nelle terre del Daesh, dove i morituri fanno il viaggio iniziatico prima di rompere con la famiglia e con gli amici di un tempo e trasformarsi in kamikaze.
Il punto è come schiacciare il serpente. Con le bombe dal cielo? Con gli scarponi dei soldati nel deserto? La guerra in Medio Oriente la fanno già curdi, iracheni e iraniani, siriani e sciiti libanesi. Ma noi, Occidente, dobbiamo rompere le nostre ambiguità, stare dalla parte giusta, se questa è una guerra giusta come fu quella contro Hitler. La legione d’onore conferita da Hollande a un principe saudita proprio non ci sta, il silenzio della Merkel sulla condotta dell’alleato turco, che combatte i curdi anziché Daesh, non è una bella cosa.
Da 250 anni, dal tempo cioè in cui in Francia scriveva Voltaire, i paesi del golfo sono taglieggiati da una setta fanatica fondata da al-Wahhab, che era il primo è più stretto alleato di al-Saud, fondatore della dinastia che regna sulla Mecca e su Medina. L’imperialismo, prima inglese poi americano, ha fatto affari con i loro discendenti, gli ha reso onore. Ora la mercede che riceve in cambio è Bin Laden e il crollo delle torri gemelle, è al-Baghdadi e il Bataclan.

Obama sceglie un giudice alla Corte Suprema, furore (suicida) repubblicano

Con una mossa molto abile dal punto di vista politico, Obama ha nominato il giudice vacante alla Corte Suprema. Si tratta di Merrick Garland, presidente della corte d’appello del distretto di Washington DC, figura riverita, non particolarmente liberal, ma nemmeno conservatore, divenuto famoso in America per aver condotto le indagini che hanno portato alla condanna di Timothy McVeigh e Terry Nichols, gli estremisti di destra che fecero saltare in aria un edificio federale a Oklahoma City nel 1997 facendo una strage.
Garland è una figura molto stimata, equilibrato e, sembra di capire, più attento alla centralità dello stato di diritto che non alle questioni etiche: non un liberal e non un conservatore, ma un giudice attento alle regole che in passato è stato confermato da commissioni bipartisan ed ha ricevuto elogi da figure politiche e giudici (compreso il capo della Corte Suprema, il conservatore Roberts) di marca repubblicana.

La scelta di Obama è abile e mette in grande difficoltà di repubblicani, che hanno già detto che non vogliono nemmeno prendere in considerazione la candidatura di Garland. Il Senato deve infatti confermare i giudici e i repubblicani sostengono che il presidente non avrebbe dovuto nominare un nuovo giudice a sostituire il defunto Scalia perché il suo mandato è in scadenza. L’argomento non sta in piedi, presidenti repubblicani e democratici hanno nominato giudici durante il loro ultimo anno alla Casa Bianca. Non discutere la nomina di un giudice non particolarmente controverso come avrebbe potuto essere qualcuno con un pedigree liberal sarà un autogol: i democratici e il presidente potranno accusare il partito repubblicano di essere una forza politica che sa solo dire no, anche quando si tratta di favorire il buon funzionamento delle istituzioni. «Chiedo solo ai senatori di ascoltare e votare, Garland merita un trattamento equo, non concederglielo significherebbe che il nostro sistema sta diventando disfunzionale, che in futuro qualsiasi compito istituzionale può diventare un braccio di ferro tra poteri diversi», ha detto il presidente facendo l’annuncio. Da parte repubblicana c’è un fuoco di fila: Obama politicizza la scelta, non è questione di chi, ma di come, il presidente gioca sporco in un anno elettorale hanno detto in serie il leader del Senato McConnell e diversi senatori. La verità è che la mossa di Obama è astuta: se il Grand Old Party rifiuterà di discutere della nomina, darebbe un argomento ai democratici (Clinton ha già dichiarato: «Tutti i giudici sono stati passati al vaglio e nominati in due mesi, il Senato ha un anno prima del passaggio di consegne al nuovo presidente»), se nominasse il giudice si troverebbe una Corte Suprema dove i conservatori sarebbero in minoranza per la prima volta in molti anni.

L’intervista video al giudice Garland dal sito della Casa Bianca. Garland parla delle sue due figlie, del suo concetto di diritto ed equilibrio dei poteri e del fatto che durante l’annuncio di Obama si è come sentito fuori dal proprio corpo, nel senso che gli è sembrato di osservare la scena da fuori, come fosse in Tv. E infine si commuove pensando alle sue origini e al padre.

Messico, la violenza contro i giornalisti inizia dalle donne

Jan. 7, 2015 - Xalapa, Mexico - Mexican journalists stage protest over the disappearance of Moises Sanchez, the fourth reporter kidnapped during the government of Javier Duarte. Some held signs in solidarity with those killed at the Charlie Hebdo office in Paris. (Credit Image: © Raul Mendez Velazquez/Pacific Press/ZUMAPRESS.com)

La violenza contro i giornalisti inizia dalla donne. Secondo l’ultimo report presentato questo mese dall’organizzazione Article 19 che lavora in difesa della libertà di espressione, in Messico il 2015 è stato l’anno più violento per i giornalisti, ma le giornaliste sono quelle contro cui il livello di violenza si sta alzando più rapidamente. Negli ultimi setti anni Articulo 19 ha documentato 356 aggressioni, di cui 84 registrate solo nel 2015.
Mentre si snocciolano dati, cadono certezze. Città del Messico non è più un porto sicuro, ma il posto dove dal 2009 al 2015 si registra il numero più alto di aggressioni contro le giornaliste: 76. Il secondo posto se lo aggiudica Veracruz con 52, con il beneplacido del suo attuale governatore Javier Duarte de Ochoa accusato da organizzazioni civili e giornalisti di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Ruben Espinosa e dell’attivista Nadia Vera, ammazzati a sangue freddo dopo aver lasciato Veracruz e cercato di mettersi in salvo a Città del Messico. Con 27 aggressioni, al terzo posto c’è Oaxaca, stato della repubblica federale in cui sorge Puerto Escondido, meta sognata da molti dopo italiani dopo l’indimenticabile film di Abbattantuono, ed oggi territorio pericoloso per i giornalisti che osano varcare le porte delle inenarrabili concussioni tra il governatore Gabino Cué Monteagudo e il cartel de Los Zetas. La simbiosi tra politica e criminalità si può leggere cammin facendo, lungo tutta quella costa da cui è sempre più difficile sporgersi e guardare un tramonto. Alberghi sempre più alti coprono lo scenario, alberghi sempre vuoti in cui tutti sanno, ma nessuno denuncia, che servono da copertura per lavare denaro sporco di traffici illegali. I giornalisti che cercano e trovano le prove a Oaxaca, così come in qualsiasi altro stato della repubblica federale messicana, devono scegliere se vivere una vita sotto assedio o, per starsene al sicuro, lasciare che tutto si sotterri nel luogo comune: son solo voces de pueblo, sono solo voci del villaggio.
Mentre si snocciolano dati, si capisce di cosa devi avere più paura e di chi non ti puoi fidare. Le giornaliste hanno subito attacchi fisici, nella maggioranza dei casi violenza sessuale, 147; minacce, 82; intimidazioni, 53. I loro principali aggressori non sono il nemico che ti aspetti, sicari, paramilitari o ragazzi di una vita criminale, ma funzionari dello stato. Nella maggiornaza dei casi, 157, le giornaliste hanno segnalato come responsabili proprio funzionari dello stato.
Mentre si snocciolano dati, è un obbligo analizzarli. Le giornaliste sono attaccate in maniera differente non solo per affermare il diritto alla libertà di espressione, per cercare e trovare prove, per mettere sotto accusa un intero sistema, ma perchè esercitano una professione considerata troppo dura e difficile, che rompe con il classico ruolo di madre-sposa. Scardinano l’ingiustizia del sistema a partire dall’affermare la presenza del proprio corpo e della propria voce in uno scenario che vorrebbe affermare solo il privilegio della forza e delle armi. Se a sbatterti in prima pagina è un giornalista, lo torturi e\o lo ammazzi, ma in qualche modo lo accetti perchè è un tuo “pari”. Da una donna non puoi accettarlo, quindi la punizione dovrà essere più dura per degradarla e umiliarla.

Perché non sottovalutare Meloni candidata

Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, durante l'incontro in piazza del Pantheon nel quale ha annunciato la sua candidatura a sindaco, Roma, 16 marzo 2016. ANSA/ ANGELO CARCONI

Mai assist fu migliore. Bertolaso passa a Berlusconi, Berlusconi crossa, Meloni colpisce a porta vuota e corre sotto la curva: «In una città che ha come simbolo una lupa che allatta due gemelli, non sarà un problema una donna sindaco che allatta un bambino». Così Giorgia Meloni conferma la sua candidatura alle prossime elezioni amministrative romane e però si propone anche di unire il centrodestra finora rissosissimo e oggettivamente spaccato, con la candidatura di Bertolaso, voluta da Berlusconi, quella di Francesco Storace, voluta da Francesco Storace stesso – e un po’ da Gianni Alemanno – contro Bertolaso, e ora quella di Meloni, che realizza, in uno scenario non facilissimo, un desiderio covato da tempo, e fa felice Matteo Salvini, che sponsorizzando lei ha compiuto un altro passo nella sua personale conquista del centrodestra nazionale. Ci sarebbe poi anche la candidatura di Alfio Marchini, ma quello sta nel mezzo, un po’ di destra un po’ di sinistra, e quindi negli scenari va lasciato ai margini.

Partono ora le manovre per ricomporre il fronte ed è questa una delle ragioni per cui non va sottovalutata la candidatura della leader di Fratelli d’Italia. A sentire Renata Polverini non c’è speranza («Berlusconi», dice la forzista già presidente della regione Lazio, «non cederà la sua leadership, non dopo questo teatrino»). Ma la trattativa c’è. Sanno tutti che Giorgia Meloni è un candidato più forte di Bertolaso e che d’altronde era lei il piano A di Berlusconi, prima che la stessa Meloni si sfilasse – e lo facesse adducendo proprio la ragione della maternità («Ho sempre detto che la mia candidatura era l’extrema ratio», si difende). Tutto, insomma, può succedere, e troppo presto potrebbero aver brindato 5 stelle e dem, convinti con il centrodestra così diviso di essersi assicurati una corsa a due e il ballottaggio.

«Ho sentito Berlusconi, è stata una telefonata cordiale ma interlocutoria ed aspetto di vedere cosa dirà pubblicamente», dice Giorgia Meloni: «Un ticket con Guido Bertolaso? Lui può decidere cosa fare, è uomo di concretezza e abbiamo bisogno di concretezza». «Storace? Bisogna vedere quali sono i suoi compagni viaggio perché mi dicono che stia fondando un partito con Fini ed Alemanno e questo per me sarebbe un problema perché voglio dare un netta distinzione con il passato», continua Meloni, sempre attenta a smarcarsi da Gianni Alemanno, con cui condivide lo stesso universo missino ma dalla cui esperienza amministrativa deve tenersi molto lontana, suo vero punto debole, l’altra faccia del suo punto di forza, (oltre alla notorietà, che è sicuramente maggiore di quella tanto di Giachetti quanto di Raggi): il suo partito è piccolo, alle ultime amministrative non è arrivato al 6 per cento, ma conta su una rete di militanti ancora attivi, i più legati al capo dei camerati di Colle Oppio Fabio Rampelli, i Gabbiani. Poi ci sono i giovani di Atreju più direttamente fedeli alla Meloni. Tutto sta nel raccontare che con Alemanno, con parentopoli e l’invasione degli ex missini in Campidoglio, non c’entrino nulla. Quanti romani si faranno convincere?

 

We can do it. Quando le donne impararono a costruire aerei al posto degli uomini

donne al lavoro

Ve lo ricordate il famoso manifesto anni 40 che rappresenta una donna che fiera dichiara “We can do it”? Quel poster che ha fatto il giro del mondo, diventando con gli anni un simbolo universale dell’emancipazione femminile, fu realizzato nel 1943, nel pieno della seconda Guerra mondiale, da J. Howard Miller e ritrae di Rosie the Riveter, Rosie la Rivettatrice, fugura che si ispirerebbe a Rose Will Monroe, una rivettatrice della Willow Run Aircraft Factory in Michigan fra le protagoniste di uno spot di propaganda girato proprio durante il secondo conflitto mondiale per incitare le donne a prendere nelle fabbriche il posto degli uomini che erano impegnati al fronte.

We_Can_Do_It!

Le donne si trovarono improvvisamente ad essere al centro della vita produttuva del Paese tanto che quando il governo degli Stati Uniti nel 1942 lanciò un piano per razionalizzare la forza lavoro americana, dichiarò apertamente che la massima efficienza implicava «necessariamente anche la partecipazione delle donne». Per tutta la durata della guerra la Farm Security Administration e l’Office of War Information ingaggiarono una serie di fotografi per ritrarre lo sforzo di un paese che scendeva in campo per combattere l’avanzata delle dittature fasciste nel vecchio continente, l’immagine che si doveva trasmettere al mondo era quella di un Paese produttivo, all’avanguardia, ed emancipato, un Paese in cui ogni braccio e ogni testa era fondamentale per vincere la guerra e non importava se appartenesse a un uomo o ad una donna. Una presa di coscienza forte che pose le basi per le battaglie femministe degli anni successivi. Ecco una selezione che mostra alcune di quelle immagini, scattate nelle fabbriche di aerei della seconda guerra mondiale, provenienti dall’archivio digitale della Biblioteca del Congresso.

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Nel 1941 solo l’1% degli operai impiegati nell’industria dell’aviazione erano donne, nel 1943, a quanto riporta il numero di Life uscito il 9 agosto di quell’anno, la percentuale di donne sale al 65%. Più in generale in quegli anni la forza lavoro femminile negli stati uniti conta circa 16 milioni di donne al lavoro, un quarto di queste è impegnata in industrie che producono commesse belliche.

 

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«Sei arrivata in California, ti sei messa i pantaloni, hai preso in mano la gavetta del pranzo e sei andata a fare un lavoro da uomo. Questo è stato l’inizio per le donne della sensazione che potevano essere qualcosa di più di quello che fino a quel momento erano state»

Sybil Lewis, rivettatrice alla Lockheed

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È Clinton la vincitrice del SuperTuesday 2.0 (e Trump si libera anche di Rubio )

Oggi tutti parleranno di Trump, ma la trionfatrice del SuperTuesday 2.0 è Hillary Clinton. I sondaggi degli ultimi giorni davano Bernie Sanders in ripresa e in effetti il senatore socialdemocratico ha preso molti voti ovunque. Ma per la prima volte TheBern non è riuscito a strappare neppure un Stato (in Missouri siamo ancora alla conta e i due sono pari) o a regalare una sorpresa clamorosa e nella Florida dei vecchietti al sole ha perso male.

A questo punto gli è praticamente impossibile raggiungere Hillary per numero di delegati. Ma ancora una volta, Sanders ha preso molti voti, ovunque più del 40%,tranne in Florida. Il suo messaggio continua a parlare ai giovani e ai bianchi working class. La vittoria di Clinton in Florida è così solida da renderla molto forte anche in termini simbolici: quello era lo Stato con più delegati in gioco, quello è lo Stato che tutti devono vincere a novembre. Ma nella Rust Belt, come testimoniano i risultati di Illinois e Ohio, Hillary avrà bisogno di un Bernie in campagna elettorale. Sanders stanotte ha fatto un comizio in Arizona davanti a 7mila persone che vedete qui sotto, segno che nel West dove si vota in tre Stati punta a vincere. Segno che vuole portare il suo discorso fino alla convention di Philadelphia. Ha molti delegati e ne guadagnerà altri, portandone moltissimi alla fine. ma il vantaggio di Clinton oggi è maggiore di quello di Obama nel 2008 a questo punto. Segno di una campagna che sta funzionando anche dal punto di vista dei calcoli e della strategia sul territorio: si lavora per ottenere più delegati, per ottenere la nomination servono quelli.

Poi viene Trump, che stanotte ha sbaragliato la concorrenza. Gli attacchi, le accuse di violenza contro i contestatori da parte dei suoi sostenitori, gli eccessi sottolineati da tutti quelli che lo vogliono fermare non lo scalfiscono. Ha vinto ovunque tranne in Ohio (in Missouri la conta assegna la stessa percentuale di Cruz, 41%) e non ha più rivali o quasi. Kasich vince il suo Stato e diventa l’ultima frontiera dei moderati, che a questo punto devono convergere in massa su di lui e sperare di arrivare alla convention in una situazione per la quale Trump non abbia abbastanza delegati per superare la soglia dei 1237 (oggi ne ha pochi più della metà).

Il segnale resta lo stesso: un partito molto diviso con il vincitore della nottata il cui miglior risultato è il 46% e che forse perde due Stati, un partito che boccia tutte le candidature dell’establishment. L’ultraconservatore Ted Cruz arriva infatti secondo in 3 Stati su 5 e Kasich, il moderato governatore dell’Ohio, l’unico candidato repubblicano che non spaventa, non era il favorito dei poteri del partito quando tutto è cominciato a gennaio.

Lo sconfitto della serata è Marco Rubio, che ha parlato di “tsunami politico”, che aveva studiato da presidente fin dal 2010 e che oggi si vede sbattuto fuori dalla corsa dal trionfo di Trump in casa sua. Qui il senatore di origine cubana della Florida arriva secondo, il peggior secondo della serata con solo il 27%. Trump nel suo discorso di vittoria dice «ne abbiamo viste di tutte, violenze, insulti, reporter disgustosi…ora dobbiamo unire il partito»,  quello rimane il suo grande problema. Rubio spiega che non è nei piani di dio che lui diventi presidente e Cruz parte all’offensiva contro trump: «Gente che ha lavorato per Marco Rubio, vi accoglieremo a braccia aperte, volete un candidato che condivida i vostri valori o uno che si è opposto per decenni ai vostri valori?». Kasich pure elogia Rubio, i voti da prendere oggi sono i suoi. Come reagirà la testa del partito, se ne rimane una? Si deciderà ad accettare Trump e farà pressione perché gli altri si tolgano di mezzo o propenderà perché questo bagno di sangue continui? La somma dei delegati di Cruz, Rubio e Kasich supera il numero raggiunto da Trump, se alla convention si unissero potrebbero batterlo. In un caso perderà i voti moderati, nell’altro rischia di arrivare così diviso alle elezioni da mettere a rischio anche molti seggi senatoriali.

 

I risultati

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Repubblicani

Florida Trump 46% Rubio 27%

Ohio Kasich 47% Trump 36%

Illinois Trump 39% Cruz 30%

Missouri Trump e Cruz 41%

North Carolina Trump 40% Cruz 37%

 

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Democratici

Florida Clinton 64% Sanders 33%

Ohio Clinton 56% Sanders 43%

Illinois Clinton 50%  Sanders 49%

Missouri Clinton 50% Sanders 49%

North Carolina Clinton 55% Sanders 41%

 

 

Pd: il partito dell’acqua calda che si beve il referendum

È uno stillicidio. Continuo. Tacciono sul referendum-trivelle (si può essere d’accordo o meno ma c’è il dovere istituzionale di parlarne) e intanto si trivella l’acqua pubblica. Se esistesse la possibilità di presentare un emendamento contro il buonsenso probabilmente qualcuno del PD lo farebbe per provare com’è essere renziani e fottersi di tutto il resto. Questo governo ormai è un brutto racconto di Stephen King: il bambino dolce e simpatico si trasforma in mostro grondante di sangue e tutti i lettori si danno di gomito dicendosi sottovoce “non l’avrei mai detto”.

Così come già per l’articolo 18 alla fine Renzi e soci riescono a realizzare il programma elettorale degli incubi peggiori, quello per cui moltissimi italiani avevano deciso di scendere in piazza, di prendersi la briga di andare a firmare, di porsi in prima persona come presidi mobili di un’informazione che latitava: lui, il Matteo più sbruffone del web, ha aspirato l’attivismo, se n’è riempito per gonfiarsi come “nuovo per davvero” e ora ce lo risputa in faccia.

Ma più di tutto lascia basiti la motivazione che potrebbe spingere i democratici a compiere una manovra talmente stupida e impopolare come quella di emendare una legge sull’acqua pubblica sostenuta dalla stragrande maggioranza del Paese: l’impunità. Sì, l’impunità. La stessa con cui Berlusconi ci perculava ogni volta con una legge pro domo sua e fingeva di non essersene accorto, ecco, la stessa con cui oggi questi cercheranno di convincerci che quel piccolo emendamento “non stravolge nulla” mentre i quotidiani allineati (quelli che avevano definita “storica” la vittoria del referendum) si dimeneranno per ridurre la portata della notizia, come un qualunque strizzarubinetti. L’impunità, appunto, che è la deriva peggiore di chi si sente al sicuro per un consenso popolare che non è mai una delega in bianco: come Berlusconi non aveva il diritto di violare la legge per la sua maggioranza elettorale così nemmeno Renzi può permettersi di violare la volontà popolare in virtù di un entusiasmo (mai pesato davvero) che ormai si è coagulato nelle giacche e cravatte dei Verdini di turno.

Io vorrei, se fossi mago, un giorno solo prendere per l’orecchio Renzi (gli altri tanto lo seguono zitti zitti come se ne fossero il mantello) e portarlo in prima serata televisiva a chiacchierare con quel Renzi del flauto magico di qualche mese fa. Vorrei vederli come si guarderebbero, quei due, cha hanno cavalcato l’acqua calda per ottenere un po’ di credito e poi gocciolano bugie da tutti i pori. Mi piacerebbe vederli.

Buon mercoledì.