«Una mamma non può fare il sindaco». Allora neppure il magistrato o la giornalista, mestieri che ti entrano nel sangue e non ti levi dalla testa nemmeno quando senti nella pancia una nuova vita e poi quando la riconosci e la accogli. «L’ho detto nel suo interesse, come se stessi parlando a mia moglie». La moglie appunto, quella che mi deve fabbricare, lei, un essere con il mio Dna, proprio il mio, perchè un giorno gli passerò il testimone. Questo è il mondo che viviamo, lo stesso che è emerso durante il dibattito sulle unioni civili. Un mondo che si aggrappa come un’ancora alla famiglia patriarcale, al maschio pilastro della società e alla femmina centro di gravità in famiglia.
Non è solo il mondo di Bertolaso e di Bersusconi, se è vero che fra gli amici a 5Stelle le ragazze magre e telegeniche vanno di moda e a quelle “robustelle” si chiede di fare un passo indietro. Basta saperlo. Basta capire che quando il pianeta intero è in subbuglio, quando si dispiega una grande rivoluzione scientifica, industriale, culturale – ed è questo che sta accadendo – molti uomini hanno paura e si fanno tentare dal salto all’indietro, al tempo in cui i ruoli erano chiari e le norme fissate per diritto divino.
Perchè una ragazza danese sceglie di chiudersi dentro un burka, perchè un giovanotto dei sobborghi parigini, che un tempo sognava donne e motori, ora va ad ammazzare suoi coetani colpevoli di ascoltare musica in un luogo del diavolo com’è un teatro, com’è il Bataclan? Per lo stesso motivo che spinge lor signori a gridare “ordine per Dio”. Forse servirebbe un nuovo femminismo che non parlasse meno di quote, che non si compiacesse del politicamente corretto che nasconde – solo nasconde – la voglia di sopraffare, ma prendesse per mano i maschietti, figli, amanti, amici o mariti per dirgli con dolcezza: quel mondo è finito. Meglio per te.
Se «una mamma non può fare il sindaco», forse serve un nuovo femminismo
Un altro SuperTuesday, sarà quello buono per Trump?

Oggi è il giorno in cui forse si chiudono le primarie repubblicane. E forse, ma con ancora più dubbi, quelle democratiche. Si vota in cinque Stati: Florida, Illinois, North Carolina, Missouri e Ohio, si tratta di Stati cruciali anche per la vittoria alle elezioni vere, a novembre almeno quattro tra questi saranno in bilico tra democratici e repubblicani. Il voto di oggi assegna circa 350 delegati, attribuiti quasi tutti – nelle primarie del partito di Reagan – con il sistema del “chi-vince-prende-tutto”. Se un candidato dovesse vincerne tre e altri ne vincessero uno ciascuno, il colpo sarebbe enorme. Specie se il candidato fosse Donald Trump, che a oggi ha un vantaggio notevole in termini di delegati su tutti gli altri. E che ha molte chance di fare un bel colpo anche stanotte.
Il conto è presto fatto: a giudicare dai sondaggi Trump è nettamente primo in Florida e Illinos, North Carolina, insegue per pochi punti in Ohio – dove è in vantaggio il governatore Kasich – e potrebbe vincere in Missouri (dove l’alternativa probabile è Cruz). Se andasse così i risultati chiari sarebbero due: il senatore della Florida Rubio, l’ex astro nascente del partito repubblicano, sarebbe fuori e con lui l’unica alternativa apparentemente moderata rimarrebbe Kasich. Il governatore dell’Ohio si troverebbe a quel punto a essere il candidato dell’establishment. Una specie di miracolo: per mesi in molti si sono chiesti come mai corresse. Mitt Romney, la cosa più simile a una figura autorevole del partito che ci sia, due settimane fa faceva comizi per Rubio, oggi li fa per lui. Certo, se Kasich perdesse nel suo Ohio, sarebbe fuori anche lui. Anche l’estremista religioso Cruz spera di prendersi uno Stato e rimanere l’alternativa a qualunque costo a Trump.

Se il miliardario di New York vincesse in due Stati e arrivasse secondo ovunque resterebbe comunque quasi invincibile, non avrebbe il numero di delegati necessari alla nomination (dovrebbe vincerne circa la metà da domani in poi), ma non superabile da nessuno. Il suo sarebbe un segnale di forza assoluta: in queste settimane, in particolare negli ultimi giorni, il fuoco su di lui, sulla violenza dei suoi comizi, sui toni esagerati, sono stati una costante del rumore di fondo sui media. Se nemmeno stavolta funzionasse scopriremmo che: c’è un pezzo di elettorato che vota anche contro i media (niente di strano) e se ne frega del modo in cui un candidato presidente si esprime. Mashable ha messo assieme un po’ di frasi con cui il miliardario di New York invita la sicurezza o i suoi sostenitori a “spaccare la faccia”, “sbattere a terra”, picchiare i contestatori. Gli episodi violenti si sono moltiplicati e i contestatori come quella nella foto qui sopra sono spesso stati picchiati.
All the times @realDonaldTrump has called for violence at his rallieshttps://t.co/v1qpKYgGbV
— Mashable (@mashable) 14 marzo 2016
5 anni di guerra in Siria, un video per raccontare la storia che nessuno racconta
Un video pubblicato su facebook da The Syria Campaign ripercorre questi 5 anni di guerra in Siria durante i quali sono morte oltre 270mila persone. «Questa è la storia non raccontata di quello che ogni giorno accade in quel Paese» spiegano dal sito dell’organizzazione «La più grande crisi al mondo iniziò come una rivoluzione pacifica nel marzo 2011. In milioni scesero nelle strade per chiedere libertà da una dittatura che durava da 40 anni. Il regime di Bashar al-Assad rispose uccidendo il popolo sceso in piazza per protestare, ma nonostante questo i siriani continuano la lotta per realizzare il loro sogno di libertà. Ad oggi molti civili volontari continuano a salvare le vite delle persone rimaste vittime dei bombardamenti e intrappolate sotto le macerie, i medici anche durante gli scontri a fuoco continuano a curare chi è stato colpito durante gli attacchi chimici, insegnanti coraggiosi continuano a costruire scuole nei seminterrati dei palazzi per mantenere viva la speranza e i giornalisti siriani continuano a rischiare le loro vite per raccontare quello che sta succedendo nel Paese nonostante gli attacchi costanti dell’esercito di Assad, dei miliziani di Isis e Al Qaeda e dei russi. Le donne e gli uomini siriani ogni giorno salvano altri siriani. La Siria è una terra di eroi, sosteniamoli».
Five years ago today a peaceful uprising against dictatorship started in Syria. Share the story.
Pubblicato da The Syria Campaign su Martedì 15 marzo 2016
«La maggior parte dei giorni sono giorni in cui avviene un massacro»
Il Pd stravolge il disegno di legge sull’acqua pubblica. M5S e Sinistra italiana furiosi
Giaceva in Parlamento dal 2007. E i movimenti per l’acqua pubblica avevano fatto più volte pressione su deputati e senatori affinché lo prendessero in esame. Parliamo del disegno di legge di iniziativa popolare sulla pubblicizzazione della gestione dell’acqua fatto proprio dall’intergruppo parlamentare composto da deputati Pd, Sel e M5s. Il testo in questione prevede all’articolo 6 l’affidamento del servizio idrico esclusivamente a enti di diritto pubblico controllati dallo Stato.
Oggi però l’aula di Montecitorio ha approvato due emendamenti presentati da deputati Dem con l’effetto di abolire proprio l’articolo 6: la gestione non sarà più obbligatoriamente pubblica, ma lo sarà soltanto «in via prioritaria». I deputati Cinquestelle e quelli di Sinistra Italiana hanno protestato contro «l’arroganza della maggioranza» e Federica Daga ha ritirato la propria firma al disegno di legge lanciando l’hashtag #lacquanonsivende. Che il governo non avesse alcuna intenzione di assecondare la volontà politica espressa con il voto referendario del 2011 era già emersa con il decreto Sblocca Italia del 2014, il cui mantra è concentrare la gestione in mano a pochi soggetti (un gestore unico che già offra il servizio ad almeno un quarto della popolazione di ciascun Ambito territoriale) e per forza di cose molto strutturati (leggasi multinazionali e grandi multiutility).
Altro che “fuori il profitto dalla gestione dell’acqua”, come recita uno slogan dei comitati. Questi ultimi ricordano il richiamo del presidente del Consiglio all’epoca del voto referendario: «Niente giochini come in passato per far finta di nulla» aveva detto l’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi. E in un certo senso ha mantenuto l’impegno: non ha fatto finta di nulla, ha direttamente fatto un’inversione a U cancellando la volontà popolare.
Michelangelo Pistoletto apre un cantiere sostenibile e partecipato per il dopo Expo

L’utopia come tensione verso la realizzazione di una società più libera e più responsabile è uno dei fili rossi che percorre tutta l’opera di Michelangelo Pistoletto, maestro dell’Arte Povera che dagli anni 50 a oggi non ha mai smesso di fare ricerca. Intrecciando un dialogo costante con le nuove generazioni, che ha assunto una forma concreta nella Città dell’arte, grande cantiere delle arti a Biella, aperto ai giovani di tutto il mondo. «Per me l’utopia si concretizza nel portare l’arte a cambiare non solo le forme estetiche ma anche l’etica», racconta l’artista che dal 17 al 19 marzo ricostruisce la sua mela simbolica a Milano aprendo un cantiere per un futuro partecipato e sostenibile della Milano post Expo.
«L’utopia che si esprime attraverso l’arte non è solo una fatto personale, ma riguarda tutti. L’arte in questo modo diventa un fenomeno interattivo sul piano sociale. Certo – precisa Pistoletto – non avviene per caso, bisogna lavorarci. Pensando a una società rinnovata, resa migliore, più umana, attraverso la capacità di creare». L’utopia artistica di Pistoletto dunque nasce dalla realtà, dal rifiuto dell’ingiustizia sociale, dal rifiuto della violenza e della distruttività umana anche nei riguardi del pianeta. «L’utopia per me non è qualcosa di astratto», spiega l’artista. «È quella cosa che nasce da una problematica di fondo, da una critica, e sboccia in un desiderio, in un pensiero, in una visione che vuole cambiare le cose. Nella storia, va ricordato, ci sono state anche utopie “diaboliche”, negative. La mia idea di utopia è il contrario: è ricerca di equilibrio, di equità, è trasformazione del conflitto distruttivo in una dialettica pacifica, è capacità di convivenza». Ma non c’è telos nella storia per cui tutto questo si realizza da sé. Bisogna avere idee chiare e «darsi molto da fare per trasformare l’utopia in realtà».
Love difference nasce dal progetto di far dialogare tutti i popoli del Mediterraneo?
Love difference, amare le differenze, è un movimento artistico per una politica inter-mediterranea. È nato in un momento in cui c’erano tensioni ma non erano ancora esplose. Ora più che mai diventa importante questa idea di attività interattiva in quella zona del mondo che è diventata cruciale per la società umana. Ma oggi è più difficile proseguire nelle attività che ci eravamo proposti. Buttarsi nella mischia quando c’è violenza non serve molto alla cultura, bisogna lavorare da distante, intorno, soprattutto nell’educazione, nella formazione delle nuove generazioni perché nascano esigenze diverse. E non è facile. I poteri forti delle economie remano contro. Le religioni sono dei retaggi molto pesanti in questa situazione.
Parlando di nuove generazioni a Roma, di recente, lei ha incontrato un pubblico di bambini. Come è stata questa esperienza?
I bambini sono meravigliosi, sono pronti, capiscono tutto. Certo se si comincia a parlargli come fossero dei professori che devono conoscere la storia dell’arte allora non funziona. Bisogna parlare con loro in modo semplice, chiaro. Così finiscono per capire anche gli adulti. Perché non è che gli adulti capiscano poi tanto di quello che l’arte sta combinando oggi. E nemmeno gli artisti sono molto espliciti nel dire quello che fanno. Durante l’incontro erano entusiasti, tutti quanti con le mani alzate per far domande. Vuol dire che il feeling si era stabilito.
Dopo i primi autoritratti su fondo dorato, i quadri specchianti hanno assunto grande importanza nel suo lavoro. I suo primo autoritratto allo specchio nel 1962 è stato un po’ definire il proprio volto, la propria identità come artista?
Lei mi fa una domanda chiave sull’identità per l’artista. Nella storia gli artisti hanno cercato di riconoscersi nell’autoritratto. Il pittore, lo scultore, sono sempre stati in grado di riprodurre fedelmente ciò che vedevano, la vita, la società, ma mai se stessi. Questo separare se stessi dal mondo era un problema che mi toccava a fondo. Nel fare l’autoritratto sono l’uomo della solitudine. Ho visto pian piano che cambiando il fondo, cambiando il materiale, riuscivo a trasformare la tela in un raccoglitore di riflessi che poi muovevo, usando materiali sempre più specchianti. Così sono arrivato alla specularità vera e propria e a vedere l’identità che ha a che fare con il vivere tutti insieme. L’identità che non è più la solitudine, l’identità nell’incontro con l’altro, quella è stata per me l’identità. Nei quadri specchianti entra il pubblico, la vita, lo spazio, il tempo. Da lì è nata la mia ricerca di interconnessione fra arte e società.
Come è nato il progetto re-birth?
È nato quando il 21 dicembre 2012 alcuni volevano credere nella fine del mondo, perché finiva il calendario Maya. Io allora ho pensato che quella data poteva invece segnare un punto di ripartenza, che poteva essere usato per avviare una riflessione sulla nostra stupida volontà di farci del male impattando in modo troppo forte sull’ambiente. Così è nato il re-birth day caratterizzato da un segno che rappresenta una rinascita. All’inizio hanno aderito al progetto artisti e gruppi di persone. Poi strutture pubbliche e private hanno cominciato a fare di quella data, il 21 dicembre, una ricorrenza. Anche quest’anno ci sono stati tantissimi eventi, sono nate le ambasciate del Terzo Paradiso in tutto il mondo e di recente a Cuba. Mentre il disegno del Terzo paradiso è diventato una grande installazione davanti al Palazzo dell’Onu a Ginevra: le pietre di Paesi differenti stanno tutte insieme sotto questa idea della dualità che si moltiplica nella condivisione. Sta diventando un simbolo importante per chi vuole darsi un obiettivo, seppur lontano, per creare una nuova società. Di cui ognuno è partecipe. Ma forse più che ognuno, direi ogni due, perché bisogna essere almeno in due, da soli non si ha potere, in due siamo già società possiamo già realizzare qualche cosa. Da due possiamo essere quattro, otto. Questo movimento è rappresentato da un triplo cerchio, fatto di due cerchi esterni che trovando una connessione creano il terzo cerchio, un nuovo elemento che prima non esisteva.
Terzo paradiso è un titolo ironico per dire qua,su questa terra?
Ho usato il simbolo dell’infinito, una linea che incrociandosi crea due cerchi. All’interno dell’infinito si crea uno spazio, un cerchio, una parentesi, quella della vita umana, che dura un tempo determinato, finito. Un neonato, che prima non esisteva, nasce dal rapporto fra una donna e un uomo. Possiamo anche fare altri esempi. L’ossigeno e l’idrogeno possono essere i due cerchi esterni che creano l’acqua.
L’umano è, spesso, al centro della sua ricerca artistica.
È vero. Prima parlavamo dello specchio, il bambino riconosce se stesso specchiandosi, diversamente dall’animale. Il gatto nello specchio non vede se stesso, tanto che cerca di passare dietro perché pensa che ci sia un altro gatto là. L’umano è creativo. Ma può anche essere distruttivo. Sulla creatività, sulla ricerca di un nuovo equilibrio, occorre far rinascere il concetto stesso di umano.
L’evoluzione è culturale?
Lo è sempre stata, dall’arte alla scienza, alle politiche ecc. A mio avviso tutto nasce dalla capacità di interpretare e di rappresentare, dalla capacità di trasformare la visione in linguaggio, in comunicazione. @simonamaggiorel
I diritti umani di Erdogan e quelli delle donne morte nel fiume gelato a Idomeni

Tre persone sono morte in un fiume gelato che separa la Macedonia dalla Grecia. Non le portavano i trafficanti di esseri umani e teoricamente non correvano rischi. Ma la scelta della Macedonia – e di molti altri Paesi europei, teoricamente più avanzati in materia di diritti umani – ha reso il loro viaggio un inferno. Mille persone hanno provato a lasciare il campo di Idomeni e dopo aver camminato e attraversato un fiume sono state bloccate e ricaricate su dei camion. Come in un gioco di ruolo o in un girone dell’inferno dove la pena è quella di tentare all’infinito di passare una frontiera. Il girone si chiama dei rifugiati e il peccato per il quale devono scontare questa pena è essere nati in Siria, Iraq, Afghanistan e aver deciso di non voler morire sotto le bombe.
Parlando della reazione all’atroce attentato di Ankara, il premier turco Erdogan ha deciso di cambiare la definizione di terrorismo. Terrorista non è chi organizza, cerca di portare a termine o riesce nell’intento di uccidere qualcuno o compiere una strage per ragioni politiche. «Non c’è differenza tra un terrorista con una bomba e uno cche lo sostiene usando una penna. Il fatto che quella persona sia un terrorista non cambia anche se si tratta di un deputato, un membro di una Ong, un giornalista…Dobbiamo ridefinire la nostra nozione di terrorismo e scriverla nelle nostre leggi…o si sta con noi o con i terroristi». Cosa significa questo discorso che ricorda quelli di Bush dopo l’11 settembre? Che oltra a bombardare le postazioni del Pkk, l’esercito e la polizia turchi faranno quel che vogliono nelle città curde, contro l’Hdp (già ci sono stati arresti) che è il partito filo curdo che ha condannato gli attentati e che a sua volta è stato vittima di un attentato atroce l’ottobre scorso e contro la stampa nemica, come già capitato la scorsa settimana – e in quel caso gli avversari politici di Erdogan non erano curdi.
Giovedì i capi di Stato europei si incontrano per discutere dell’accordo sui rifugiati con la Turchia. In cambio di molti soldi (sei miliardi), una corsia libera per la membership europea e una politica dei visti più aperta, Ankara si riprenderà le persone sbarcate sulle isole greche, ne vaglierà lo status e poi, con una politica dell’una persona accolta in cambio di una persona presa in carico dalla Turchia, restituirà i rifugiati siriani all’Europa. L’accordo è già sul letto di morte: è sbagliato, non risolve il problema, è illegale dal punto di vista del diritto internazionale, viene condannato da Onu e grandi organizzazioni per i diritti umani. E poi è contestato da molti Paesi per ragioni egoistiche: i ciprioti non vogliono concessioni ai turchi, la Bulgaria vuole che Ankara prenda anche i “suoi” profughi, la Spagna ne contesta la ratio giuridica.
Le parole sul terrorismo di Erdogan, i suoi atti degli ultimi mesi, consiglierebbero all’Europa di non sottoscrivere accordi che abbiano in qualche forma a che vedere con i diritti umani che il governo di Ankara, che sembra intenzionato a calpestarli ogni volta lo riterrà necessario. Non abbandonare la Turchia a se stessa, certo, è un Paese vicino, una potenziale grande democrazia e la sua stabilità è importante per tutto il Medio Oriente. Ma nemmeno chiudere gli occhi su tutto pur di mettere una toppa a un’emergenza – che l’accordo non è in nessun modo una soluzione alla crisi dei rifugiati.
Quanto ai rifugiati di Idomeni, dalle foto si vede che nella larga maggioranza sono siriani. Persino la pessima bozza di accordo prevede che l’Europa i siriani se li prenderà. Davvero bisogna aspettare la discussione intra-europea e una trattativa con Ankara probabilmente destinata a fallire per occuparsi di 10mila persone perse nella terra di nessuno? Davvero dobbiamo stare a guardare donne che affogano, bambini che sguazzano al freddo nelle pozzanghere e anziani che guardano nel vuoto senza muovere un dito perché abbiamo paura di Orban? Se è così, Orban (e Le Pen e l’AfD tedesco) hanno vinto.

Elezioni? Solo per single e “belle fighe”
Nel brodetto tiepido di un Paese che soffrigge luoghi comuni ieri ci hanno servito il menù del machismo meschino in salsa politica. Protagoniste due donne che nonostante siano l’esatto opposto l’una dall’altra per portamento e fisicità (Giorgia Meloni e Patrizia Bedori) sono riuscite comunque ad esser cotte a puntino: sono donne del resto, e questo è ciò che annusa il macho cacciatore, questo basta per diventare prede commestibili. E anche lo scompiglio creato dalle reazioni delle due è passato, nel quartier generale del bullismo da pisellino, come un normale starnazzare d’ufficio.
Bertolaso, il figliol prodigo della pecorella smarrita Berlusconi, ha deciso che la Meloni non è candidabile in quanto gravida. L’ha detto con parole più merlettate, certo, ma il senso vero è quello di una maternità vista come una debilitante opportunità concessa dal seme del maschio: pensiero peloso e umido, indicibile in quest’epoca eppure naturale vista la sorgente poiché Bertolaso è lo stesso Bertolaso che ha bisogno di cadaveri e macerie per issarsene con tutto il suo orgoglio, Bertolaso è colui che ha militarizzato le solidarietà facendone una macchia mangiasoldi e strizzapotere. Bertolaso, probabilmente, ride anche alle battute di Berlusconi. E la Meloni “dovrebbe fare la mamma”, ci dice, con la faccia di chi si eccita pensando al putiferio delle femministe, tutte insieme, sforzandosi male di precisare scanzonato che non intendeva offendere nessuno. Come non volevano offendere nessuno tutti quelli che tutte le volte hanno marcito questo Paese al cuore.
Dall’altra parte Patrizia Bedori, candidata sindaca a Milano per il Movimento 5 Stelle, si ritira dalla corsa e si toglie “qualche sassolino”. Ma niente sassolini, no: sono le briciole lasciate dalla pietre che il popolo del bianco o del nero, del “funziona” o “non funziona” le ha scagliato contro per farla rientrare nel recinto degli scarti. Paga, la Bedori, quel suo essere dimessa e scapigliata in un’arena in cui si ascoltano cazzate pettinatissime uscire da bocche di gomma e labbra di ceralacca. Se la politica è il turbopalcoscenico di un reality totalizzante capite bene che una cicciona e brutta figa come la Bedori non può funzionare. Ma non solo: in questo caso basta agitare la “Spectre Casaleggio” per convincerci che alla fine lo hanno deciso loro. Anche se rimane brutta lo stesso. Ma l’hanno detto loro. E lei, la Bedori, compie un gesto che in questo circo di sessuomani anabolizzati è una rivoluzione: dice di non esserne all’altezza. «Per forza – rispondono tutti in coro – perché non ha lo spessore politico». E invece forse le è passata la voglia di correre tra le fogne.
Buon martedì.
Putin ritira le truppe dalla Siria. Obiettivo raggiunto. Sì, ma quale?
Restano le basi, le truppe ritornano in Russia: obiettivo raggiunto! L’obiettivo di Putin era rimettere in sella il presidente legittimo della Siria, che è però anche il macellaio Assad, dando un colpo duro a certe milizie islamiche, feroci e fanatiche quanto Daesh, ma in teoria alleate dell’Occidente. Era svelare il doppio gioco dell’Arabia Saudita, che è la fonte ideologica a cui si abbevera il fanatismo islamico e spesso ne è anche il finanziatore. Era mettere alle corde la Turchia, Paese decisivo per la Nato, ma che sembra più interessato a colpire i curdi che a mettere Al Bagdadi in condizione di non nuocere. Obiettivo raggiunto? Direi di sì. E la mossa – l’annuncio del ritiro delle truppe mentre riparte il negoziato di pace per la Siria – è di quelle oculate, pensate, immagino, da Lavrov che è uno dei più abili ministri degli esteri in servizio. Servirà alla Russia per distogliere l’attenzione internazionale dall’Ucraina, dove Mosca ha invaso la Crimea e controlla il Donbass.
Nel prossimo numero, quello in edicola sabato 19, Left pubblicherà una bella intervista di Michela Iaccarino a Kasparov, campione di scacchi e dissidente che dice di Putin, della sua dittatura, dei suoi metodi da uomo del KGB, del suo delirio di onnipotenza e della sua pericolosità, cose durissime. Putin è un dittatore, sia pure accettato dalla maggioranza dei russi. Putin viola i diritti civili e conculca la libertà di stampa. É probabile che i suoi uomini si siano sporcate le mani con il sangue di parecchi oppositori. É giusto indignarsi, protestare, denunciare. Ma tutto si può fare tranne che prendere sotto gamba la politica estera della sua Russia, che ha mostrato di saper sfruttare le contraddizioni dell’Occidente e del suo imperialismo per proporre la Russia come la soluzione a crisi regionali gravissime. L’idea che il problema si possa risolvere con le sanzioni, o armando l’Ucraina e gli stati della cintura ex sovietica con armi della Nato è di cortissimo respiro. Obama lo sa e in una sua recente intervista a The Atlantic ha detto: «dobbiamo capire quali siano per noi i terreni davvero strategici, quelli che al limite possono giustificare l’uso delle armi. E oggi le sfide sono altre, non l’orso russo che sta per festeggiare, proprio mettendo in scena un orso che esce dal letargo, il ritorno della primavera.
Idomeni, la marcia dei rifugiati fermata dalla polizia macedone

In marcia dal campo di Idomeni «Perché siamo stufi di aspettare». Un migliaio di persone che da giorni sono ferme al campo al confine tra Grecia e Macedonia hanno lasciato il campo e si sono dirette alla ricerca di un luogo dove c’è un varco nella rete del confine. Per arrivarci occorre guadare il fiume Suva.
Qualcuno è passato, la maggioranza, dopo una lunga marcia che su Twitter ha preso il nome di marcia della speranza #MarchofHope, sono stati circondati dalla polizia macedone, che ha intenzione di riportarli in Grecia. La stessa polizia ha anche arrestato un gruppo di venti giornalisti che seguivano la marcia e ne documentavano lo svolgimento. Qui sotto qualche immagine dell’attraversamento e due video ripresi da operatori umanitari e giornalisti che mostra i rifugiati che usano una corda per attraversare. L’acqua del torrente non deve essere calda. Stamane la polizia greca ha trovato due donne affogate.
#marchofhope RT@owebb: Thousands of #refugees walking into #Slovenia #refugeecrisis pic.twitter.com/FwHBhJmeaa
— Die_Primel (@Die_Primel) 22 ottobre 2015
Das ist die moderne Völkerwanderung…#refugees #marchofhopepic.twitter.com/TGQsXggyaJ
— Manu Radvan (@Landhimbeere) 28 ottobre 2015
Giovedì i leader europei si riuniranno di nuovo per discutere l’accordo con la Turchia. Ma quella bozza che già presentava molti problemi una settimana fa, oggi appare come destinata a diventare carta straccia. A meno di una forzatura da parte di quei Paesi che la vogliono disperatamente non si vede come se ne possa uscire: Cipro ha promesso il veto sull’avanzamento del processo di adesione della Turchia all’Unione europea, la Bulgaria ha chiesto che l’accordo includa anche i profughi che entrano in Europa passando per i suoi confini, mentre la Spagna ha annunciato battaglia sullo scambio un rifugiato ripreso in carico dalla Turchia, uno il cui status sia stato approvato, ammesso in Europa. La Spagna chiama il patto inaccettabile perché non aderente alle norme internazionali, che prevedono che ciascuna persona che chiede asilo riceva un trattamento individuale e non collettivo. Stesse critiche avanzate dalle organizzazioni internazionali. Amnesty International ha lanciato una campagna indirizzata al presidente del consiglio europeo Donald Tusk chiedendo di respingere l’accordo e ammettere le persone, Potete firmare qui.



Adinolfi contro Kung Fu Panda. Il regista a Left: «la famiglia si definisce su una sola base: l’affetto».
Il panda Po, protagonista del film d’animazione Kung Fu Panda 3, finisce nel mirino di Mario Adinolfi. Ad Adinolfi infatti, da sempre alfiere della cosiddetta famiglia tradizionale e protagonista dei vari Family Day, il fatto che nel terzo capitolo Po si trovi ad avere due padri, uno biologico e l’altro adottivo, non va proprio giù. E secondo il direttore del quotidiano online La Croce, neo candidato a sindaco di Roma per il Partito della Famiglia, dietro a Kung Fu Panda si nasconderebbe uno spaventoso messaggio a ‘tinte gender’ in grado di influenzare pericolosamente le menti dei più piccini.
Volete capire come si fa il lavaggio del cervello gender ai bambini? Ad esempio con il protagonista di Kung Fu Panda che ha due papà. Ne parliamo a Radio Maria ne Il Mormorio di un vento leggero
Pubblicato da Mario Adinolfi su Lunedì 14 marzo 2016
Del “pericoloso messaggio” di uguaglianza e progressismo insito nel cartone animato prodotto dalla DreamWorks abbiamo parlato questa settimana nel numero in edicola in una lunga intervista al regista di Kung Fu Panda Alessandro Carloni, bolognese emigrato in California, che si era detto stupito per alcuni toni oscurantisti con cui si era svolto il dibattito sul ddl Cirinnà e sulla stepchild adoption nel nostro Paese. «Nel film è evidente che il panda Po ha bisogno di tutti e due i suoi padri» ha detto a Left Carloni «Ho seguito il dibattito dall’America e mi sembra che in Italia esistano ancora posizioni piuttosto retrograde, non mi aspettavo fosse così». «Cambiare la mentalità – ha continuato – è sicuramente difficile, ma spero che se un bambino vede insieme ai genitori Kung Fu Panda 3 e sente al tg quello che sta accadendo possa capire che non esistono definizioni per descrivere ciò che è la famiglia. Questo film, per esempio, definisce la famiglia su una sola base: l’affetto che si prova l’uno per l’altro. Un panda può essere figlio di un’oca o avere due papà. Non cambia nulla».
Altro che gender insomma.
Questo articolo continua sul n. 11 di Left in edicola dal 12 marzo







