Home Blog Pagina 1189

Fiji, dopo il ciclone i conti con il climate change

Pur essendo tra quelli che hanno inquinato meno, pagano le conseguenze più pesanti del surriscaldamento globale. Accade a molti Paesi, specie i più poveri, che sono i primi a correre ai ripari per scongiurare disastri. Così hanno fatto le Fiji, primo Stato ad aver ratificato, il 16 febbraio, l’accordo sul clima raggiunto a Parigi lo scorso dicembre. Quattro giorni dopo, però, hanno dovuto sperimentare le conseguenze nefaste di un altro primato: quello della peggior tempesta tropicale che si sia mai abbattuta sul piccolo Stato insulare, con il maggior numero di vittime. L’uragano Winston, che ha ucciso 42 persone, su alcune isole è arrivato con una violenza classificata di categoria 5, ben oltre quello del 1985, Eric, che raggiunse categoria 3 e uccise 25 persone nella capitale Suva. Circa 62mila gli sfollati, mentre le persone coinvolte dalla tempesta arrivano a 350mila, oltre un terzo della popolazione dell’arcipelago composto da 322 isole, di cui 106 abitate permanentemente, e 522 isolotti.

Le due isole maggiori, Viti Levu e Vanua Levu, su cui vive l’87% della popolazione, sono state toccate solo parzialmente alla furia di Winston, ma nonostante ciò nella parte nord di Viti Levu c’è la maggiore concentrazione di persone colpite. Scuole e strutture ricettive (il turismo pesa per il 17% sul Pil) hanno riaperto dopo pochi giorni, ma la situazione resta drammatica, anche perché a fronte dei danni provocati da Winston, che ammontano a mezzo miliardo di dollari (il 10% del Pil), soltanto il 2% della popolazione ha un’assicurazione. Un disastro che mette a rischio anche l’obiettivo del governo di raggiungere il 100% di energia rinnovabile entro il 2030. Per dimensionare la situazione dopo il ciclone, è come se gli Usa fossero stati raggiunti contemporaneamente da 15 uragani della potenza di Katrina, che ad agosto 2015 ha provocato i danni maggiori mai registrati in Nord America. Gli elementi per individuare un’anomalia ci sono tutti, a cominciare dalle temperature record registrate nel 2015 e negli scorsi tre mesi. «Anche se non siamo in grado di confermare un rapporto diretto con il cambiamento climatico, gli scienziati vi diranno che le temperature più calde e l’acqua più calda producono tempeste più forti», ha detto Ahmed Sareer, rappresentante permanente delle Maldive alle Nazioni unite e presidente dell’Associazione dei piccoli Stati insulari (Aosis), sottolineando l’urgenza di applicare l’accordo di Parigi. Accordo che, per entrare in vigore, deve essere ratificato da almeno 55 nazioni per un minimo del 55% delle emissioni di CO2. Per il segretario del Climate vulnerable forum, l’esperto filippino di clima e adattamento agli sconvolgimenti climatici Emmauel de Guzman, la questione è legata al contenimento dell’aumento della temperatura terrestre.

Schermata 2016-03-02 alle 12.14.19

«Questo è un altro doloroso ricordo del perché l’azione globale sui cambiamenti climatici è così urgente e vitale», ha commentato de Guzman a pochi giorni dal passaggio di Winston sulle Fiji. «A solo un grado di surriscaldamento sperimentato oggi, i Paesi vulnerabili continuano a sopportare il peso di tempeste record, inondazioni e condizioni atmosferiche estreme. Ci aspettiamo che tutti i Paesi collaborino per salvaguardare la nostra gente, mantenendo il riscaldamento al minimo, entro il limite di 1,5 gradi (rispetto ai livelli preindustriali, ndr), come sancito dall’accordo di Parigi». In Francia le superpotenze hanno respinto ogni ipotesi che aprisse la strada al riconoscimento delle loro responsabilità. Così le misure di mitigazione e adattamento restano deboli e, come hanno denunciato le stesse Fiji a Parigi, i fondi inadeguati per chi subisce perdite e danni. Se arriveranno soldi per i Paesi in via di sviluppo, sarà per la diffusione delle ecoenergie e non certo per i disastri che già subiscono, denunciano gli ambientalisti. Ma a chi giova non prestare attenzione al buon esempio e al dramma dell’arcipelago del Pacifico?

Il SuperTuesday quasi incorona Trump. Bene Clinton, ma in nessun partito c’è un vincitore assoluto

L’elettorato repubblicano è stufo. E anche piuttosto di destra. Il SuperTuesday ha distrutto le speranze del moderato ma non troppo Marco Rubio di essere lui il prescelto per la candidatura alla Casa Bianca e chiarito all’establishment del partito e a tutti noi che Donald Trump è destinato a essere il nome scritto sulla scheda (e sugli schermi delle macchine elettroniche per il voto) il prossimo novembre. Trump vince i sette Stati su undici e arriva secondo negli altri. Cruz ne vince due e arriva spesso secondo, Rubio vince solo in Minnesota. Sull’altro fronte meno sorprese: Clinton stravince negli Stati dove le minoranze pesano molto e porta a casa i tanti delegati di Texas e Georgia, Sanders vince quattro Stati, mostrando di avere la forza per proseguire e una campagna ben organizzata. Hillary ha quasi 1000 delegati, Sanders 371. Ne servono 2300.

Nel discorso alla folla che lo aspettava Sanders dice: «Questa campagna non è solo per l’elezione di un presidente, ma per trasformare l’America». Un messaggio per dire quel che era chiaro: eleggiamo più delegati possibili e andiamo alla convention a influenzare in maniera tangibile la piattafroma elettorale del partito democratico. Bernie ha la forza e i numeri per ottenere questo risultato. Sei mesi fa non ci avrebbe creduto nemmeno lui.

Quanto a Donald Trump, beh, ora qualcuno provi a fermarlo. Non ha vinto e non può cantare defiitivamente vittoria, ma certo ha fatto un bel salto in avanti, soprattutto perché dopo un tornante cruciale la dinamica della corsa repubblicana non è cambiata. Certo, l’elettorato del partito rimane diviso, TheDonald non passa il 50% in nessuno Stato, ma nessuno sembra in grado di impensierire la sua corsa. Alla gente piacciono le sue sparate roboanti e non piacciono i politicanti di Washington. Il successo di Cruz in Oklahoma e Texas e i suoi secondi posti non gli dano nessuno slancio ma lo tengono vivo. E ci segnalano quanto l’elettorato repubblicano (la parte militante che partecipa alle primarie) sia schierato contro e a destra. Cruz è detestato dale alte sfere del partito quanto Trump. Le prossime settimane saranno un bagno di sangue dal quale il Grand Old Party uscirà profondamente trasformato: il discorso di Cruz, che spiega tra i buuuuu della folla l’eventuale vittoria di Trump sarebbe un disastro ci dice quanto profonde siano le divisioni. E il discorso di Rubio è aggressivo, segnala che ci prova. Kasich spiega “non stiamo eleggendo un clown” e arriva secondo in due Stati.

Infine Hillary: guardate i frammenti di discorso qui sotto, dietro a Clinton ci sono giovani delle minoranze. E naturalmente non è un caso. La persona da battere è ancora Sanders e la campagna vuole dare un’immagine di freschezza e cambiamento. I risultati di alcuni Sttai continuano a segnalare una debolezza in alcuni segmenti dell’elettorato (bianchi, giovani e working class). I toni cominciano a essere quelli della campana nazionale contro TheDonald. Sarà uno scontro appassionante. Quanto al discorso di Trump è sempre lo stesso: sono nuovo al mestiere, ma ho prodotto posti di lavoro. È questo che la gente si vuole sentir dire, è per questo che la gente lo ha votato stanotte.

I risultati, Stato per Stato

Alabama Probabilmente il più conservatore e razzista Stato dell’Unione, alle primarie democratiche votano molti afroamericani (16,7% della popolazione)

Trump 43% Cruz 21%

Clinton 78% Sanders 18%


 

Alaska Lo Stato che fu governato da Sarah Palin, repubblicano quanto basta

 Trump 30% Cruz 35% (spoglio in corso)


 

Arkansas Casa Clinton, Bill è stato governatore, oscilla tra repubblicani e democratici, probabilmente non quest’anno se Hilary Clinton sarà la candidata

Trump 33%  Cruz 30%

Clinton 66% Sanders 30%


 

Colorado Un altro Stato importante alle elezioni vere, gli ispanici pesano il 20%, zone molto di sinistra come la repubblica di Boulder e aree evangeliche e di mega chiese. Qui il nominee si sceglie con un caucus

Clinton 40% Sanders 59%


 

Georgia Sud profondo, ma con la metropoli di Atlanta, sede di hub aereoportuali, CNN e Coca-Cola che cambia decisamente il paesaggio. 30% di afroamericani

Trump 39% Rubio 24%

Clinton 71% Sanders 28%


 

Massachussets Il più democratico degli Stati, ha eletto la campionessa della sinistra Warren al Senato. Sanders va molto bene, gioca quasi in casa

Trump 49% Kasich 18%

Clinton 50% Sanders 49%


 

Minnesota Trump e Sanders erano i favoriti

Trump 37%  Cruz 29%

Clinton 40% Sanders 60%


 

Oklahoma Il posto perfetto per la destra repubblicana, povero, isolato, zoticone e repubblicano. Confina con il Texas di Cruz

Trump 28% Cruz 34%

Clinton 42% Sanders 52%


 

Tennessee Ancora Sud, molti neri che votano Clinton, molti conservatori

Trump 39%  Cruz 25%

Clinton 66% Sanders 32%


 

Texas Il più importante Stato repubblicano del Paese, per soldi e delegati. Cruz viene eletto qui. Gli ispanici sono quasi il 40%, se i repubblicani non riescono a conquistare i loro voti, prima o poi diventerà uno Stato democratico

Trump 27% Cruz 44%

Clinton 65% Sanders 33%


 

Vermont Casa di Bernie, che ha fatto il sindaco, il rappresentante e il senatore

Trump 33% Kasich 30%

Clinton 14% Sanders 86%


 

Virginia Il più antico Stato, metà conservatore, metà servizi avanzati e burocrazia (confina con Washington). Importante per le elezioni generali

Trump 35% Rubio 32%

Clinton 64% Sanders 35%

L’inganno universale della povertà come colpa

Ora ci dicono che se non paghiamo il mutuo per troppe rate finisce che sia il caso che la banca si mangi la nostra casa senza passare dal tribunale. Vorrebbe essere l’eliminazione della burocrazia ma alla fine è soltanto l’ennesimo pompino alle banche di un’Italia (e un’Europa) che sembra temere lo spettinamento di qualcuno della finanza più delle scarpe bagnate come unico resto di un bambino. Meglio così, forse: se i diritti sono piuttosto confusi almeno le colpe risuonano chiare. Ed essere poveri, oggi, in Europa dell’anno duemilasedici è una colpa. E le grandi menti di questo mondo appoggiato sull’algebra di quattro numeri sciancati chiamati ‘finanza’ hanno pensato che non potendo eliminare la povertà sia il caso di debellare i poveri. Le grandi menti.

Il modo migliore per farsi perdonare una crisi provocata dalla stortura di una classe dirigente inetta e famelica sta nel convincere tutti gli altri di avere fallito. Se qualche padre di famiglia decide di non essere stato in grado di essere un buon padre, se da qualche parte un lavoratore qualsiasi non riesce a perdonarsi di non essere in grado di onorare un mutuo, se non riuscirei significa avere fallito allora il metodo funziona: scaricare i propri errori come colpe degli altri è il metodo perfetto per amministrare con inganno e con paura.

Però c’è, nell’idea di questa ennesima legge a favore delle banche, il progetto culturale di chi vorrebbe convincerci che il mondo si divida tra vincitori e falliti, tra chi ci è riuscito e chi ha perso, tra chi è abbastanza bravo e chi è troppo poco capace. E tutti quelli che galleggiano in mezzo, secondo questa tirannia di pensiero, sono banalmente soltanto coloro che possono farcela oppure no. Nient’altro. Niente tinte intermedie. Bianco o nero. Bravo o cattivo. Produttivo o costo. Nero e rosso, come lo scontrino sbiadito sputato dal bancomat. «Tu sei la credibilità del tuo conto corrente»: il nuovo comandamento ci è stato infilato senza nemmeno che ce ne siamo accorti.

Eppure tra i vincitori patentati e i falliti senza speranza, lì in mezzo ai due unici modi consentiti di essere europei, c’è tutto il resto del mondo, lì in mezzo: ci sono quelli che si sono svegliati senza lavoro, ci sono quelli che sono in tirocinio da decenni, ci sono i fragili, chi ha semplicemente sbagliato, chi ha studiato poco, chi ha studiato male, chi semplicemente ha avuto meno fortuna. Nella terra di mezzo dei cittadini non ancora marchiati c’è la stragrande maggioranza di una generazione che è nata credendo di poter toccare il cielo e invece si è ammalata presto di un pesantissimo nodo alla gola.

Sarebbe da decidere, tutti insieme, una volta per tutti chi sono i professionisti. Se non sono forse professionisti colo che meravigliosamente “professano i propri valori nel proprio mestiere”. E con un mondo nuovo con questa regola fissa cadrebbero uno a uno questi super manager con la professionalità valoriale di un servo nemmeno troppo astuto e nemmeno gentile. Sarebbe un mondo da provare. Questo mondo qui.

Buon mercoledì.

Tutta la vita dalla parte di chi sfonda i muri

Tutta la vita. E per sempre dalla parte di chi i muri li forza e li sfonda. Ieri ho guardato fino alle due di notte le immagini di quei migranti, trecento tra siriani e iracheni, che prendevano d’assalto quel muro di filo spinato, che si ferivano, che si sdraiavano sui binari, le immagini di quegli elicotteri che li respingevano, dei lacrimogeni… poi ho guardato Human di Yann Arthus-Bertrand (di cui parleremo sabato su Left), un fotografo che si è preso la briga di chiedere a più di 2.000 persone sparse per il mondo (proprio sparse negli angoli più assurdamente remoti del mondo) “cosa ci rende umani?”. Qualunque fosse il Paese, la cultura, l’età o la religione delle persone, la domanda era quella: ti senti libero? qual è il significato della vita? che messaggio hai per gli altri?
E tra le centinaia di volti di donne, uomini di ogni dove, due ve li racconto. Il primo è quello di un giovane profugo afghano nella Jungle di Calais che a Yann dice: «Lasciatemi vivere. Come potete rimandarmi laggiù al mio Paese? Quale Paese? Non è un più un Paese, è un campo di battaglia. Non vi chiedo niente, né cibo né altro… lasciatemi solo vivere».
L’altro è un giovane uomo africano e il suo sorriso : «Alla polizia che mi chiedeva il permesso di soggiorno ho detto: quando sono nato non sono uscito dalla pancia di mia madre con i documenti. Ho diritto di vivere dove desidero, sono cittadino del mondo», ha detto a Yann.
Una settimana fa ero dove volevo essere, a Madrid. Per ascoltare che PlanBEurope preparano le sinistre per questa Europa, di cui scriviamo questa settimana, e Yanis Varoufakis mi ha detto: «Militarizziamo le frontiere, utilizziamo la Nato, blocchiamo i rifugiati, per fare cosa? Per riportarli dove? Indietro da dove scappano? L’unica cosa da fare è lasciarli entrare. Tutti. Quando qualcuno bussa alla vostra porta, nel bel mezzo della notte, qualcuno a cui hanno sparato, che è bagnato, stanco, ha fame, ha dei bambini, non è possibile fare il calcolo costo-benefici se aprire o meno quella porta. Quella porta si apre e basta! È il nostro dovere, insieme a quello delle Nazioni unite. L’Europa è abbastanza grande e abbastanza ricca per farli entrare. Poi, ci preoccuperemo di come fare. Ma prima li facciamo entrare, gli diamo da vestire, da mangiare, ci assicuriamo che non muoiano, che non anneghino e poi troveremo un modo per integrarli. Sono fiero di quello che stanno facendo i Greci». E uno dei cardini di quei tre giorni a Madrid, e di quell’Europa umana e solidale che si progettava, era proprio l’apertura delle frontiere.
Ieri, avrei voluto essere sul confine macedone, a Idomeni, insieme a quei trecento per sfondare quell’assurdo muro di disumanità.

Prove di corridoi umanitari: 93 rifugiati siriani sono atterrati a Roma senza attraversare l’inferno

«Stiamo arrivando», mi scrive Francesco in chat. E invia un selfie che lo ritrae insieme ai rifugiati in partenza per Roma dal Libano dove vivevano accampati a Tel Abbas, un piccolo campo profughi sorto spontaneamente come tanti altri in quella zona per accogliere chi scappa dalla guerra in Siria, distante solo qualche chilometri da lì. Provengono da diverse città siriane: Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous. E noi siamo lì, all’aeroporto di Fiumicino, ad aspettarli. Arrivano alle 7 del mattino, e per quattro ore sono in balìa dei controlli. «Ecco fatto, ora abbiamo dimostrato che i corridoi umanitari si possono fare. E anche senza spese per i governi» dice Francesco Piobbichi, che fa parte della missione di questo viaggio chiamato Mediterranean Hope, il primo corridoio umanitario d’Europa per «impedire lo sfruttamento ai trafficanti di uomini e concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” un ingresso legale con visto umanitario e la possibilità di presentare richiesta d’asilo», spiegano gli organizzatori. Il progetto pilota è stato realizzato grazie all’impegno e all’accordo tra il governo italiano (Farnesina e Viminale), la Comunità di Sant’Egidio, la federazione delle Chiese evangeliche (Fcei) e la Tavola Valdese. È previsto l’arrivo di mille rifugiati in due anni e non solo dal Libano, ma anche dal Marocco e dall’Etiopia.
Il primo a entrare è avvolto in una bandiera della pace, tiene in braccio suo figlio, che non avrà più di 4 o 5 anni. È un attimo, e sono tutti dentro la sala allestita per la conferenza stampa. Si mischiano ai giornalisti, sono loro a prenderci le mani, per ringraziarci di essere qui. In Italia. Del milione e 200mila esuli siriani che vivono in Libano (su una popolazione libanese di 4 milioni), quelli arrivati ieri nel nostro Paese sono 93: ovvero 24 famiglie con 41 bambini che – in una manciata di secondi – ci circondano, scorrazzano per la sala bianca dell’aeroporto, tra agenti in divisa e reporter armati di ogni sorta di telecamera e macchina fotografica. Arrivano da diverse città siriane: Homs, Aleppo, Hama, Damasco e Tartous.

20160229_112139

Tra di loro scorgiamo Mirvat, che ha 24 anni e viene da Aleppo. Parla perfettamente inglese e, avvolta nel suo cappotto blu e nella sua chioma bionda, in molti la scambiamo per un’operatrice. Poi c’è Badee’ah, che di anni ne ha 53 e chi stava con lei a Tel Abbas chiama “mamma”. È scappata da Homs con i suoi parenti, per un po’ di tempo è rimasta accampata in una baracca a Tripoli in Libano vicino alla frontiera siriana. Molti di quelli che sono qui devono a lei la pazienza di aver aspettato il volo per Roma, senza cedere alla disperazione e senza arrendersi a pagare un trafficante per imbarcarsi. Anche Diya arriva da Homs, che ormai è ridotta solo a un cumulo di macerie e per molti è solo una città fantasma. Diya è ancora un bambino e entra nella stanza dell’aeroporto avanzando fiero e sorridente sulle sue stampelle, quelle con le quali è costretto a camminare perché è rimasto ferito durante un’esplosione.

20160229_111336

Tra la folla spunta anche qualche mazzo di fiori, molti parenti sono arrivati da tutta Europa per accogliere i loro cari. Come la nipote di Mariam, la più anziana del gruppo. Ha 71 anni e viene da Al Hasaka, nord della Siria, è scappata non appena è arrivato il Daesh ed è riuscita a raggiungere un campo profughi in Libano, qui a Fiumicino ad aspettrala c’è una sua nipote che adesso vive in Svezia.

20160229_115017

«Non hanno solo viaggiato in sicurezza. Ma sono qui per avere un futuro», tiene a sottolineare Marco Impagliazzo. E adesso verranno ospitati in case e strutture di accoglienza di Emilia Romagna, Lazio, Toscana e Trentino.
«Welcome everybody», ha detto il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, presente alla conferenza stampa per rappresentare il governo. E si è augurato che questo sia un esempio che l’Europa deciderà di seguire. Ma un impegno esplicito da parte del governo non è arrivato. A fine conferenza, poco prima di andare via, un’operatrice comunica – in arabo – le imminenti destinazioni: Trento, Torino, Reggio Emilia, Firenze Aprilia, Roma. Sul pullman troveranno un pranzo al sacco. E una nuova vita, in Italia, che, per almeno questi 93, non ha significato dover attraversare l’inferno blu del Mediterraneo.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Super Tuesday, i repubblicani provano a fermare la valanga Trump. Clinton spera di intravedere la nomination

Republican presidential candidate Donald Trump speaks at a rally at Valdosta State University in Valdosta, Ga., Monday, Feb. 29, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

Ci siamo, oppure no. È il SuperTuesday, gli americani, repubblicani e democratici vanno a votare per scegliere il loro candidato in undici Stati. Normalmente chi esce in testa dal test del SuperMartedì è il nominato del suo partito. Probabilmente andrà così anche stavolta, ma di certo la guerra interna al partito repubblicano e la corsa democratica (che la seconda è più pacata della prima) non finiranno domani.

democratici

I numeri

Ad oggi nella corsa democratica sono stati assegnati 156 delegati, oggi se ne assegnano 859, in tutto marzo 2123, poi, fino a giugno, altri 1600 circa. Per la nomination ne servono 2383.

In campo repubblicano ne sono stati assegnati 133 e oggi se ne assegnano 595. Per la nomination ne servono 1237.

Sanders ha buone possibilità di riuscita in Colorado, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma e nel suo Vermont (300 delegati in totale). Clinton ha un vantaggio grande nei sei Stati del Sud, dove l’elettorato afroamericano pesa molto: Alabama, Arkansas, Georgia, Tennessee, Texas e Virginia. Se dovesse ottenere risultati simili a quelli della South Carolina, dove il distacco rifilato a Bernie è stato di 45 punti, avrebbe un vantaggio enorme: difficilmente Bernie sarà così avanti negli Stati dove è più forte lui. Ma certo il senatore del Vermont potrebbe guadagnare più voti tra i latinos e i neri in Texas e Virginia. In sintesi: Hillary uscirà più forte, ma se Sanders ottenesse qualche risultato a sorpresa la corsa continuerebbe ad avere un candidato probabile vincitore ma resterebbe interessante.

In questi giorni è stato interessante osservare chi visitava quale Stato: ce ne sono con molti delegati in palio e altri con meno, i candidati devono ragionare su ipotesi diverse: cercare di coltivare il popolo che hanno, anche se sono meno i delegati in ballo o cercare di avanzare come in posti come in Texas?

repubblicani vip

Quanto vantaggio manterrà Donald Trump?

Le polemiche recenti su un retweet che citava Mussolini (poi cancellato) e il sostegno non rinnegato di un capo del Ku Klux Klan lo penalizzerano oppure, come capitato fino a oggi, non cambieranno nulla nella sua corsa? In questi ultimi giorni per TheDonald sono arrivati alcuni appoggi molto pesanti (il governatore del New Jersey Chris Christie, molto criticato anche da suoi sostenitori importanti, un senatore dell’Arizona fieramente anti immigrazione, un governatore in pensione) ma anche alcune prese di distanze che lo rendono un candidato potenzialmente debole contro i democratici. Il senatore Sasse del Nebraska ha detto che se trump fosse il nominee, il nominato, lui si darà da fare per cercare un altro candidato, l’ex senatore Coleman lo ha definito “ineleggibile” e Marco Rubio, suo avversario, lo ha attaccato – ricambiato – con parole di tono trumpiano: “si bagna il pannolino”, “si mette lo spray abbronzante” “ha le mani piccole e non ci si può fidare di quelli con le mani piccole”. Comunque vada per i repubblicani sarà un bagno di sangue destinato a durare fino alla convention.

Rubio o Cruz: chi arriva secondo?

Continuano ad ottenere percentuali simili (e quindi ad annullarsi a vicenda) oppure uno dei due riesce finalmente a diventare l’alternativa di partito a Trump? Se il ruolo toccasse a Cruz, in fondo, sarebbe un guaio simile a Trump per il Grand Old Party: il senatore del Texas è troppo conservatore. Se invece Rubio uscisse molto bene dal SuperTuesday, potrebbe provare a incalzare Trump: dietro di lui pioverebbero i milioni di quei miliardari preoccupati dall’ipotesi di una candidatura Trump. Non sarebbero pochi. A oggi, nei sondaggi nazionali, TheDonald è avanti di 25 punti e ha radunato circa 25mila persone a un comizio in Alabama (sono tante). Gli inseguitori sono appaiati attorno ai 20 punti. Per Rubio e Cruz è cruciale vincere negli Stati di appartenenza, non è detto sia facile. Oggi tocca a Cruz, la Florida di Rubio vota il 15 marzo. Poi ci sono John Kasich e Ben Carson, che se domani si ritireranno come probabile, favoriranno Rubio, il primo, e Cruz, il secondo.

repubblicani 2

 Da sapere: contano i delegati, non le percentuali

i numeri contano più delle percentuali. Alle convention si vince eleggendo delegati. E siccome ogni Stato ha le sue regole, l’importante non è solo vincere, ma anche, a seconda del luogo, ottenere una percentuale importante, arrivare secondi, eccetera. Ci sono Stati che distribuiscono i delegati solo ai candidati che superano una certa soglia percentuale, altri che usano il proporzionale, altri ancora che usano la seconda scelta per attribuire i delegati di quei candidati che non hanno superato una soglia (se sei sotto il 10% vieni escluso e per i voti che ai preso si contano le seconde scelte fatte dagli elettori). Infine, dopo marzo, le primarie repubblicane assegnano i delegati con il metodo winner takes it all: il primo dello Stato prende tutto. Questo rende le cose più complicate perché in teoria, se qualcuno uscisse molto forte da marzo ma arrivasse secondo ovunque da aprile in poi, il suo avversario potrebbe anche raggiungerlo.donkey-elephant

 

The Calais Session, i rifugiati cantano la Giungla di Calais

The Calais Session rifugiati la giungla

Da ieri la Giungla di Calais, il campo profughi che ospitava secondo le Ong circa 3000 persone, è sotto sgombero e demolizione. Una notte di scontri e stamane di nuovo tensione e ruspe. I suoi “ospiti” verranno trasferiti.
In questi mesi a Calais però gli abitanti con il supporto di alcune organizzazioni hanno tentato di costruire strutture (un teatro, una scuola, dei luoghi di culto) e di realizzare qualcosa che desse un senso a quel limbo, a quello stare insieme lì accampati ad aspettare. The Calais Session è un progetto che cerca di fare proprio questo, fra le persone che hanno vissuto alla Giungla infatti ci sono musicisti che insieme ad artisti venuti a visitare il campo hanno registrato la loro musica. Tutto il loro talento, le loro speranze e i loro brani sono raccolti in un album che può essere acquistato sul sito http://www.thecalaissessions.com. Qui sotto alcuni video da vedere e da ascoltare.

Kurdish songs of resistance and hope from The Calais Sessions on Vimeo.

 

Live from the ‘jungle’; Ismail and Amin from The Calais Sessions on Vimeo.

 

Live from the ‘jungle’; Mohealdeen from The Calais Sessions on Vimeo.

 

Live from the ‘jungle’; The London musicians, feat Bogdan from The Calais Sessions on Vimeo.

 

Oltre ai video musicali sono state anche raccolte storie e testimonianze in grado di spiegare cosa significava stare nella Giungla. Qui sotto, in una di queste testimonianze, un rifugiato racconta il suo incontro con una donna francese e cosa si sono detti quando lei gli ha confessato che, per quanto potesse capire la situazione di estrema difficoltà in cui si trovano i profughi, istintivamente provava un senso di paura nei loro confronti:

Truths from the ‘jungle’ 1 from The Calais Sessions on Vimeo.

 

Qui, dove i figli consolano i padri

Guardate la foto qui sopra.

Un figlio consola il padre. Piange, il padre, probabilmente perché ha sempre sperato di poter garantire la dignità, almeno. Almeno la dignità. Dando per scontato che la sopravvivenza sia il risultato minimo per un genitore. Sia con la guerra, la tempesta, il sole, il caldo, lo scirocco, le pallottole, le malattie ogni genitore nel mondo, qualsiasi legge e qualsiasi religione, qualsiasi genitore ha il dovere di preservare i propri figli, è un bisogno che sente connaturato com il respiro, la sete e il sangue. Qui il padre cede il posto alla disperazione, che non è altro che l’esaurirsi della produzione della speranza, e si arrende, chiedendo scusa al suo dio, se ne ha uno e con qualsiasi nome lo chiami. Questa foto è la sindone di una sconfitta collettiva.

Il figlio, lui, ha uno sguardo preoccupato ma nemmeno troppo. I bambini hanno una bilancia tutta loro dei dolori, delle gioie e delle sconfitte e spesso ci insegnano a noi adulti a non prendersi mai troppo sul serio, a non disabituarsi a vedere la bellezza intorno. Quel bambino sta pensando probabilmente che niente di così terribile può succedere finché suo padre è lì. E lui con lui, e anche qualcosa da mangiare.

Per questo mettere su una barca dalla morte probabile il proprio figlio è un gesto che condanna tutti gli stati della terra ferma: quando un genitore gioca a carte con la vita dei figli e quando i padri e i figli sono così numerosi significa che s’è perso il limite potabile delle possibilità, significa che da qualche parte rischiare è l’unico atto di protezione possibile. Roba da perderci la testa. Roba da restarci secchi per la distanza tra il dolore che si arriva a scrivere e quello che ci sbrodola in giro. Senza nemmeno il vocabolario per poterle scrivere.

E allora mi chiedo, e me lo chiedo senza provocazioni, me lo chiedo in questo tempo di preoccupazione pelosissima per ogni bambino del mondo, ecco sarebbe bello, mettiamola così, riversare tutta questa polifonica preoccupazione su questo bambino qui e su tutti quelli (sono tantissimi) come lui. Quelli che hanno passato la notte con le ortiche nel naso per i fumogeni della polizia oppure quelli che hanno avuto una scarpa impigliata nel filo spinato. Ecco, io penso che se davvero fosse diventato di moda preoccuparsi di tutti i bambini del mondo, se davvero lasciassimo da parte le posizioni pregiudiziali e decidessimo che tutti, davvero tutti, laici o cristiani o cattolici o islamici o evangelisti, tutti per davvero, se tutti ci interessassimo come ci interessiamo in queste ore dei bambini, ecco credo che sapremmo bene che Paese desolato è quel Paese in cui i figli consolano i padri e mica il contrario. E sarebbe già un profumo di primavera. Prima del tempo.

Buon martedì.

Lo sgombero della Giungla di Calais e come era prima

La Giungla di Calais vista da dentro: non solo una baraccopoli ma una piccola città con i suoi servizi e il tentativo di creare una vita normale grazie alla capacità di auto-organizzarsi e all’aiuto delle organizzazioni internazionali. Da oggi il campo viene demolito, non nelle sue parti comuni (il teatro, la scuola, i luoghi di culto) e i suoi ospiti, che le autorità dicono essere massimo 1500, mentre le Ong dicono essere più di 3000, trasferiti. Le autorità francesi spiegano che non ci saranno fermi e che le persone verranno trasferite in container riscaldati nella stessa Calais o in altri campi del Paese. Alcune Ong sostengono invece che gli accessi sono chiusi e che i volontari non sono stati lasciati entrare ad assistere alle demolizioni. Qui sotto alcuni tweet con foto di Good Chance, il gruppo che ha creato il teatro dove nei mesi scorsi sono passati anche personaggi famosi come Jude Law. Più sotto ancora un video a 360 gradi del campo e delle sue struttre nel bel reportage di Associated Press.


 

Un abbecedario per bambini del 1846 per lottare contro la schiavitù

schiavitù

Nel dicembre del 1846, più di 15 anni prima dello scoppio della Guerra civile americana avvenuto nel 1861, la Philadelphia Female Anti-Slavery society tenne un convegno e durante questo evento venne venduto un libretto per bambini scritto da Hannah e Mary Townsend e pubblicato da Merrihew & Thompson intitolato L’Alfabeto Anti-Schiavitù. Lo scopo del libro infatti era insegnare ai più piccoli l’importanza del movimento abolizionista e soprattutto cosa significa essere tutti uguali. Copia del libro è consultabile presso l’archivio storico del Mississippi il cui archivio è anche disponibile in versione digitale. Qui sotto le pagine del libro e la storia che raccontano.

[huge_it_gallery id=”151″]