I funzionari olimpici che stanno organizzando le olimpiadi a Rio De Janeiro per quest’estate hanno identificato 43 candidati per formare una squadra di atleti rifugiati. «Questi rifugiati – hanno dichiarato i membri del Comitato Olimpico Internazionale di Rio 2016 – non hanno una nazionale in gara della quale far parte, non hanno una bandiera né un inno nazionale con i quali sfilare all’apertura dei giochi. È per questo che abbiamo deciso di dare il benvenuto a questi atleti rifugiati per farli partecipare alle Olimpiadi con la bandiera delle Olimpiadi e accompagnati dall’inno ufficiale dei Giochi Olimpici». Tre dei potenziali atleti sono stati identificati a dicembre mentre percorrevano, assieme a un’ondata di altri migranti, la rotta che dalla Siria e altri Paesi colpiti dalla guerra porta verso l’Europa. Altri invece provengono da alcuni campi profughi spari in vari stati dell’Ue. «Vogliamo dare un messaggio di speranza – ha dichiarato Thomas Bach il presidente del Coi – per tutti i rifugiati del mondo».
Per il momento non sono stati forniti ulteriori dettagli sulla nazionalità dei membri del team, o sulle discipline sportive nelle quali gareggeranno.
Nella foto in evidenza: Thomas Bach, presidente del Comitato Olimpico Internazionale (Coi) nel corso di una visita al campo Eleonas di Atene, che ospita per lo più rifugiati afghani e iraniani
Berta Caceres at the banks of the Gualcarque River in the Rio Blanco region of western Honduras where she, COPINH (the Council of Popular and Indigenous Organizations of Honduras) and the people of Rio Blanco have maintained a two year struggle to halt construction on the Agua Zarca Hydroelectric project, that poses grave threats to local environment, river and indigenous Lenca people from the region.
La hanno uccisa in casa, mentre dormiva. E ferito suo fratello. Berta Cáceres la leader indigena honduregna è l’ennesima vittima della violenza contro chi si batte per i diritti degli indigeni e difende le terre ancestrali in quel Paese e in tutto il centro America. Avevamo intervistato Berta pochi mesi fa, quando aveva ricevuto il premio Goldman 2015. Ecco quel che ci aveva detto
Donna, madre e indigena mesoamericana. Berta Cáceres, leader del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (Copinh), da oltre vent’anni rischia la vita per difendere lo straordinario patrimonio culturale e ambientale del popolo Lenca, tra i più antichi del continente. Lo scorso aprile è stata insignita del Premio Goldman per l’Ambiente, il più alto riconoscimento assegnato agli ecoattivisti per le vittorie conseguite nel proprio contesto comunitario. Alla guida della comunità di Rio Blanco, Cáceres ha estromesso l’impresa nazionale Desa e i maggiori costruttori di dighe al mondo, i cinesi di Sinohydro, dalla realizzazione del complesso idroelettrico Agua Zarca, previsto sul Rio Gualcarque, nell’Honduras Nord-occidentale. Un fiume sacro nella cosmogonia Lenca, fonte d’acqua per circa 600 famiglie che vivono nella foresta pluviale d’alta quota compresa fra i dipartimenti di Santa Barbara e Intibucà. Senza il loro consenso, l’impianto era stato autorizzato contravvenendo alla Convenzione Ilo 169 del 1989 sul diritto all’autodeterminazione dei popoli indigeni.
Per oltre un anno, i nativi hanno bloccato l’accesso al cantiere resistendo a sgomberi, aggressioni, arresti, torture. Presentato ricorso all’International finance corporation (Ifc), ente finanziatore e braccio privato della Banca Mondiale, la leader indigena ha portato il caso fino alla Commissione dei diritti umani interamericana. L’ennesimo omicidio di un membro del Copinh ha convinto la Sinohydro a sciogliere il contratto e l’Ifc a ritirare i fondi. Un traguardo importante, strappato col sangue.
Cáceres ha subìto minacce di morte e portato i figli in Argentina per scongiurare il rischio sequestri. Accusata di terrorismo, è stata arrestata e perseguitata giuridicamente dal governo. Ciò nonostante, è diventata un riferimento per la causa indigena, da lei perorata di fronte alla Corte europea di Strasburgo, alla Banca Mondiale e lo scorso novembre in Vaticano. Le abbiamo parlato al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti, un tour di consultazioni presso la Casa Bianca, l’Epa (Agenzia per l’ambiente) e il Dipartimento di Stato. Ci ha raccontato l’Honduras di oggi e le nuove sfide che attendono il Copinh e il popolo Lenca.
Cosa è emerso dai suoi incontri negli Usa?
Ci siamo confrontati con diversi esperti della Casa Bianca e membri del Congresso, presentandoci per quello che siamo: un popolo indigeno che con dignità rivendica la sovranità sulla propria terra. Abbiamo denunciato le responsabilità del governo statunitense nell’aggressione al nostro territorio. Dalle politiche egemoniche alla transnazionalizzazione, fino alle misure di sicurezza imposte con l’Alleanza per la prosperità del Triangolo Nord. Siglata lo scorso febbraio da Honduras, El Salvador e Guatemala per stabilire una zona di libero scambio, l’Alleanza è finanziata dagli States con l’intento di foraggiare investimenti privati, creare lavoro e scoraggiare l’immigrazione. Considerando il livello di corruzione e impunità della classe politica e la sistematica violazione dei diritti umani, l’accordo andrà a esasperare la già drammatica situazione sociale e la militarizzazione del territorio. Abbiamo espresso preoccupazione anche per la base militare di Soto Cano, nota come Palmerola, che ha avuto un ruolo chiave nel golpe militare del 2009. Lo scorso aprile è stata ampliata con l’Unità di forze speciali aria-terra e marina-sud che sarà operativa da giugno.
Come vive oggi il popolo Lenca?
Quello dell’Honduras è un contesto socio-politico difficile, con una politica di forte repressione nei confronti dei nativi, a monte di un progetto di depredazione delle ricchezze del sottosuolo. L’impoverimento, seguito a espropri e privatizzazioni, ha dato impulso all’esodo dei giovani, che affrontano viaggi durissimi verso il Nord America pur di sostenere le famiglie. Attraversano il Messico a bordo della Bestia, il treno della morte al quale, ogni anno, si aggrappano centinaia di migliaia di indocumentados rischiando mutilazioni, arresti o sequestri di massa. Fenomeno che interessa tutto il Paese, afflitto dalla disoccupazione e dalle maras, le gang criminali legate al narcotraffico.
Come ha pesato sul territorio honduregno il colpo di Stato del 2009?
Ha dato il via libera al neoliberismo più sfrenato, radicalizzando corruzione e abusi di potere. Le oltre 470 concessioni minerarie a multinazionali estere hanno svenduto il 31 per cento del territorio, compromesso ormai da cianuro, mercurio e arsenico usati nei processi di lavorazione. Per soddisfare il fabbisogno energetico del settore estrattivo, sono stati privatizzati 47 fiumi, con il via libera alla costruzione di 27 dighe, fra cui quella di Agua Zarca. Una pioggia di decreti ha autorizzato impianti turistici ed eolici su grande scala e concesso migliaia di miglia della Mosquitia honduregna, ecosistema protetto, per l’estrazione di petrolio. Per non parlare delle monocolture dell’agro-combustibile, che minacciano biodiversità e sovranità alimentare. Questi interessi e capitali sono legati al narcotraffico e all’élite governativa. Per questo è sempre più rischioso esprimere dissenso.
Dopo la vittoria di Agua Zarca la vostra battaglia contro le dighe prosegue. Perché?
Fermare il colosso cinese Sinohydro è un precedente importante. La Desa però vuole spostare l’impianto un chilometro più avanti sempre con concessioni illegali. Poi c’è un’altra minaccia chiamata Blue Energy, impresa di capitale honduregno, statunitense e canadese, decisa a costruire su un altro fiume sacro, il Rio Cangel. E con la firma del Plan Mesoamerica, piano di gestione idroelettrica, si prevede la costruzione di 300 nuovi maxi-progetti.
Voi denunciate la militarizzazione del Paese. Ci spiega in che cosa consiste?
La difesa di interessi tanto grandi e la guerra ai narcos ha giustificato l’aumento delle basi militari. Nel 2013 sono sorti tre centri operativi Usa per il training delle truppe in Iraq. L’Honduras è diventato l’area di addestramento dell’esercito colombiano e israeliano, principale fornitore di armi, che sta beneficiando dell’instabilità interna. Il presidente Juan Orlando Hernandez ha creato le zone di impiego e sviluppo economico (Zede): enclave coloniali dotate di legislazione, sistema migratorio e esercito proprio, al servizio esclusivo del capitale. La prima è prevista in prossimità del Porto di Amapala, nel Golfo de Fonseca, dove si affacciano El Salvador, Honduras e Nicaragua.
Quindi si può parlare di una vera e propria deriva autoritaria del governo.
Lo scorso aprile, la Corte Suprema ha abrogato l’articolo 239 della Costituzione, dando il via alla rieleggibilità del capo dello Stato. Un abuso di autorità degno di un governo dittatoriale, in contraddizione con le accuse mosse nel 2009 dal Partito nazionalista all’ex presidente Manuel Zelaya, espulso perché tacciato di voler modificare con referendum la Carta costituzionale per prolungare il suo mandato. Vista la macchina dei brogli che le forze di estrema destra sono in grado di azionare, è chiaro che sarà Juan Orlando Hernadez il prossimo presidente. Per finanziare le elezioni del 2013, il Partito Nazionale ha sottratto indebitamente milioni di lempira dalle casse dell’Istituto honduregno di previdenza sociale (Ihss), lasciando senza assistenza tremila persone. Scandalo che, nelle ultime settimane, ha scatenato un’ondata di mobilitazioni in tutto il Paese.
Un video che racconta la figura di Berta Cáceres
Anche l’Italia è coinvolta in alcune speculazioni ai vostri danni. Ce ne può parlare?
Durante la programmazione dell’Isola dei Famosi ho denunciato al governo italiano e alla Commissione europea l’attività della Astaldi, ditta costruttrice del complesso turistico Indura Beach, a Baia Tela, di fronte alla location del reality. Il villaggio sorge su un’area protetta abitata da secoli dalla comunità afrocaraibica, sgomberata nel 2014 e portata in giudizio, lo scorso mese, per aver protestato contro gli espropri. Controllata dall’italiana Goldlake Group e specializzata nello sfruttamento minerario, l’Eurocantera è responsabile invece di aver inquinato e deviato il corso dei torrenti nella comunità di Agalteca. Al momento siamo impegnati in un’inchiesta su diverse società coinvolte nella privatizzazione dell’acqua e nel settore dell’estrazione. Dal 7 all’11 luglio si incontrano a Tegucigalpa per il primo “Congresso internazionale minerario dell’Honduras”. E non mancheranno le proteste.
Quali sono i vostri rapporti con la società civile internazionale?
Il Copinh è portatore di un’alternativa centrata sulla dignità umana, sul rispetto dell’ambiente e su una visione di giustizia sociale ed economica antipatriarcale, anticapitalista e antirazzista. Crediamo che la solidarietà non abbia frontiere, parte di una visione condivisa che lega tutte le realtà che si battono per la vita e il rispetto dei beni comuni. In Italia, abbiamo marciato al fianco del movimento No dal Molin, a quello No Tav e, lo scorso ottobre a Roma, per i curdi del Rojava. Il nostro appello è quello di unirci per una globalizzazione delle lotte, tesa a osteggiare la distruzione dei popoli indigeni per mano degli interessi corporativi.
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Il movimento
Fondato a La Esperanza nel 1993, il Copinh raccoglie circa 200 comunità Lenca. Ha fermato speculazioni minerarie, contribuito alla nascita di aree forestali protette, vigilato sulle violazioni dei diritti umani e promosso processi di autonomia, istituendo scuole, radio comunitarie, centri medici, antiviolenza e di formazione professionale. Un movimento spesso minacciato dagli squadroni della morte al soldo delle imprese (101 gli omicidi di ecoattivisti registrati nel Paese dal 2010 al 2014). Soprattutto dopo il colpo di Stato del 2009, seguito dall’impennata dei mega-progetti idroelettrici e minerari approvati.
Il quadro delle prossime elezioni romane è desolante e non solo per la prova canora dei candidati alle primarie del Pd. Con il centrodestra che litiga – Matteo Salvini dopo averlo accolto sta cercando di bidonare Bertolaso – e la coalizione del Pd impegnata nelle primarie più ignorate di sempre, si prevede un’affluenza lontana da quella che nel 2013 assegnò la candidatura a Ignazio Marino: nel Pd sono pronti a sorridere se domenica si dovesse arrivare alla metà dei 100mila che votarono l’ultima volta.
Pesa ancora l’affaire Marino e poi certo la caratura dei candidati. L’altra volta oltre al futuro sindaco, in campo c’era un futuro ministro, Paolo Gentiloni, molto legato alla città e vero vertice dei renziani a Roma, e David Sassoli, europarlamentare con ancora addosso la notorietà del Tg1. Roberto Giachetti e Roberto Morassut, i due favoriti di questo giro, invece non riescono a far parlare molto di loro. L’unica notizia della corsa ai gazebo è così il possibile aiuto di Denis Verdini al candidato renziano, Giachetti, e l’orso di Gianfranco Mascia, candidato outsider dei Verdi, che ha basato la sua campagna sul celebre cartone.
Una scossa al quadro potrebbe però arrivare da Massimo Bray che a quanto risulta a Left sarebbe tentato di cedere ai molti appelli che lo invitano a candidarsi, come indipendente. Su Bray potrebbero convergere i civatiani e i vari pezzi della sinistra, compreso Stefano Fassina che è per ora il candidato ufficiale di Sinistra Italiana. Per l’ex ministro della cultura sono giornate di riflessione, e di riunioni per capire cosa è meglio fare. La porta però è tutt’altro che chiusa e l’idea è che con un centrodestra così ridotto e il Pd così poco entusiasta il secondo turno possa essere a portata di mano.
Amìsci, concittadini, romani, prestatemi le ‘recchie: seguite @facceinnamora, così fàmo capi’ a @massimobray che se deve da candida’ a Roma!
«La profondità e oscurità di quella voce era quel che Nina aveva nell’anima e ti toccava immediatamente», spiega George Wein, che gestiva uno dei primi locali dove Nina Simone – da Niña e Simone Signoret, nome d’arte scelto per non apparire con il proprio sui manifesti che pubblicizzavano il suo lavoro di pianista e cantante in un bar di Atlantic City, non un posto raccomandabile per una ragazzina battista del Sud.
La profondità e oscurità di una voce e di una vita difficile sono quel che traspare da What Happened Miss Simone? il bel documentario prodotto da Netflix e passato a Berlino sulla vita della pianista cantante con la voce da donna e da baritono allo stesso tempo – come dice nel film il suo chitarrista.
Le origini umili, la voglia di essere la prima pianista classica nera a esibirsi in una importante sala concerti e suonare Bach – suonerà alla Carnegie Hall di New York, ma non musica classica come sognava – l’amore per la figlia e la poca voglia di andare in tour lasciandola a casa, le botte del marito produttore dalle quali, sembra quasi capire, era in una qualche forma dipendente, il movimento per i diritti civili a cui aderisce scrivendo Mississippi Goddam dopo le stragi di Birmingham Alabama del 1963, la scoperta di una forma di disordine bipolare negli anni 80 sono tutte raccontate con la voce di protagonisti e della stessa pianista cantante.
In un’ora e quarantadue What Happened Miss Simone? di Liz Garbus (e di cui Lisa, la figlia di Nina è produttrice) ci si appassiona alla figura di una artista profonda, contraddittoria, complicata, arrabbiata e violenta, raramente sorridente e capace di far sentire le ferite e il dolore (o la gioia) con la propria musica.
«La mia maestra di musica – che mi aveva ascoltato suonare nella chiesa dove mia madre predicava e si era proposta di farmi studiare – era bianca e la cosa mi spaventava: per andare a lezione dovevo attraversare la ferrovia, che al Sud era il confine tra i bianchi e i neri, non conoscevo la vita dei bianchi, mi spaventavano». Il rapporto con il colore della propria pelle e con i bianchi è uno degli aspetti dominanti del film e della vicenda personale di Nina. Così come la rabbia per un sistema di non detti (razzista) che le impedisce di diventare una pianista classica nonostante la fatica fatta per arrivarci. L’educazione musicale è un pezzo della via all’isolamento: studiando musica Eunice Waymon, nata nel ’33 in North Carolina, vive sola, non con i ragazzi bianchi e men che meno con i neri: «L’unica cosa che mi chiedevano era di suonare per poter ballare». Le vicende narrate sono tante, compresi gli ultimi anni devastanti e una identità sessuale complicata. Confusa. Il film è per certi aspetti tragico e molto buono. Ed è abbastanza coraggioso per essere una produzione Netflix, segno di come il sistema di produzione della settima arte stia cambiando in maniera rapidissima grazie alle tecnologie e alla rete (questo è un caso positivo, c’è naturalmente di peggio). Il fatto che sia prodotto dal gigante del consumo audiovisivo online significa che potete vederlo a casa.
Una risposta al documentario è un bio-pic che ha avuto mille traversie durante la produzione e che non è piaciuto alla figlia perché lega troppo il ritorno sulle scene di Nina alla relazione con Clifton Henderson. Il film racconta un’altra storia ed ha attirato su di sé diverse polemiche anche prima di essere distribuito.
L’account Twitter ufficiale di Nina Simone (gestito da un incaricato della famiglia) ha risposto con durezza a Zoe Saldana, l’attrice che interpreta il ruolo della cantante. E la figlia di Nina, a cui il film e l’idea di personaggio che c’è dietro non è piaciuta e non è piaciuta la storia: «È pieno di cose non vere, a cominciare dalla relazione tra mia madre e Clifton Henderson» ha detto a Time. Simone Kelly ha comunque difeso Zoe Saldana, pur spiegando che sarebbe stato meglio scegliere un’attrice nera per interpretare la madre. Certo è che Nina non esce sotto i migliori auspici.
Ci sono frasi e spezzoni di frasi che sentiamo in entrambe le versioni cinematografiche della storia di Nina Simone, ad esempio la sua definizione di felicità («Non avere paura»). Ma i due film non si somigliano affatto.
Quel che c’è di buono è che, assieme a molte altre opere, libri, dibattiti e articoli di giornali, il biennio 2015-2016 sta diventando forse un momento di passaggio per la storia degli afroamericani. Più racconti dei grandi personaggi di quella storia e delle loro contraddizioni, più interesse, più interesse in una storia raccontata come la storia d’America. Un interesse che probabilmente dobbiamo a Black Lives Matter e che probabilmente avrà delle ricadute anche sul ciclo elettorale.
David Rossi, the spokesman of Monte Paschi di Siena, is seen in this undated photo. Rossi, found dead on March 6, 2013, was under pressure over an investigation into alleged corruption and fraud that has rocked the world's oldest bank, reporters who knew him said. REUTERS/Stringer (ITALY - Tags: BUSINESS OBITUARY)
Una marcia senza comizi o bandiere di partiti. Con un appello che suona come un incitamento: “Rompete il silenzio, alzate la testa. Per David, per la nostra città, per la verità”. L’appuntamento è per il 6 marzo alle 17.30 a Siena, in piazza Salimbeni, il cuore pulsante del Monte dei Paschi, “babbo Monte”, amato e venerato da tutti i senesi che negli ultimi anni hanno assistito costernati al suo rapido declino e agli scandali giudiziari che hanno coinvolto i vertici della banca. Ma soprattutto, quegli stessi senesi, hanno assistito alla morte, avvolta poi dal silenzio, di David Rossi, giornalista e responsabile della comunicazione del Mps. A poche decine di metri da piazza Salimbeni, la sera di 3 anni fa in un vicoletto buio dietro il palazzo della banca, venne ritrovato il suo corpo senza vita. Caduto su quelle pietre antiche da una finestra del palazzo del Monte che incombeva là sopra.
Fino a novembre 2015 la morte di David era stata liquidata semplicenente come “suicidio”, nonostante alcuni elementi suscitassero interrogativi che i familiari avevano sempre fatto notare agli inquirenti. Ma poi il 16 novembre la Procura di Siena decide di accettare la richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla vedova Antonella Tognazzi con l’avvocato Luca Goracci. Nuove perizie (grafologiche, medico-legali e dinamico-fisiche) presentate dal legale potrebbero gettare una luce diversa su quelle ore del 6 marzo che David trascorse nel suo ufficio (v.Left n.45 del 21 novembre 2015, articolo di Giulio Cavalli). «Finora la magistratura non ci ha fatto sapere nulla», dice Antonella Tognazzi, la moglie di David. Sono lei e sua figlia Carolina ad aver raccolto da alcuni cittadini l’idea della marcia silenziosa e dell’incontro in quel “salotto buono” di Siena. Forse adesso qualcosa è cambiato, almeno nella percezione che i senesi hanno della vicenda, anche perché in questi tre anni sono venuti a conoscenza di così tante magagne all’interno del “babbo Monte” da lasciarli sotto choc. «Abbiamo cominciato ad agire perché finalmente abbiamo visto che intorno c’era una reazione», continua Antonella. Tutti quei like al video postato dal Movimento Cinque stelle sull’audizione dell’avvocato Goracci nella Commissione regionale d’inchiesta sulla Banca Antonveneta forse volevano dire qualcosa. L’incontro di domenica per Antonella ha un significato particolare. «Non ho bisogno di commiserazione, ma di condivisione, ecco, questa è la migliore espressione in questo momento. Prima le persone parlavano della morte di David magari al bar, adesso mi sembra che ci abbiano messo la faccia. Una prova d’orgoglio che significa “io non ci sto più a stare zitto” ». Non è che i senesi possano aiutare le indagini – questo appare proprio difficile – ma che esigano la verità per far luce su questa dolorosa storia, questo sì, sarebbe un bel passo avanti. Perché la morte di David Rossi coinvolge tutta la città.
«Io sento e cerco di far capire a tutte le persone, che è vero, è un’immane tragedia personale ma in realtà è l’espressione di un sistema malato. A me ha tolto la persona amata ma a Siena molte persone sono state danneggiate, nella città la situazione è terribile. David è una vittima, ma lo è anche la città », dice accalorata Antonella. Lei ci tiene a dirlo e lo ripete spesso: «Della banca non mi importa nulla. La famiglia chiede solo risposte a determinate domande su aspetti che non vengono dati per importanti o che comunque hanno delineato quell’ipotesi che ci hanno voluto far credere fino ad oggi». Domenica sarà un appuntamento “sobrio, silenzioso”, spiega Carolina, figlia di Antonella. «E’ un momento importante per ricordare David, il primo in tre anni. Ma non sono previsti comizi o dibattiti o pellegrinaggi con fiaccole. Noi speriamo che sia un’occasione per la città nel sentirsi una comunità». Contradaiolo della Lupa, giornalista, tifoso del Siena calcio, David era un personaggio conosciuto a Siena. E non solo, naturalmente, visti i suoi ultimi incarichi nel Monte dei Paschi. Il silenzio che ha inghiottito la sua morte, in quella sera del 6 marzo, sembra qualcosa di innaturale. Tre anni dopo, con la riapertura delle indagini, qualcosa è cambiato. Si legge, nella locandina che Carolina sta facendo girare in rete: “Uniti solo per chiedere giustizia”.
Credo che SEL abbia interpretato la sincera energia di sinistra in questo paese. Credo anche che Nicola Fratoianni (il dopo Vendola dopo Vendola) sia una delle facce più fresche ma preparate di una stagione che ha fatto cadere vecchi frutti avvizziti piuttosto che presentare germogli. Credo anche che il bastian contrario per missione sia un figuro abbastanza stufoso del giornalismo nostrano: per esempio leggo Rondolino contro Il Fatto e le risposte de Il Fatto contro Rondolino e L’Unità e ogni tanto ho il dubbio che masturbarsi in compagnia sia una rischiosa ma funzionale pratica per alienarsi dal mondo.
Però questa cosa che a Milano SEL alla fine si sia piegata ad appoggiare BeppeSala scritto tutto attaccato come vuole il suo marketing, questa cosa che lo stesso partito che aveva avuto il piglio di raccontare il vigore gentile di Pisapia quando non ci credeva nessuno, questo fatto per cui i duri e puri sono i moderatori appena spretati sacerdoti della mediazione, questa sinistra che non riesce a non calciare di destro per i goal a porta vuota, un poi mi stinge. Mi contrae. Mi lascia perplesso, almeno. Ecco.
Perché se è vero che SEL è stato il partito che ha deciso di tagliare i ponti del governo nel momento più coraggioso, quando ancora si poteva liberamente fingere di credere che il Partito della Nazione fosse un inciampo risolvibile in tempi brevi, sapere che oggi quello stesso partito decide di appoggiare il totem di EXPO per la corsa a sindaco di Milano mi provoca qualcosa di molto simile al prurito incazzoso. Perché io davvero voglio capire quale sia il percorso ritenuto valido per renderci potabile quel Beppe Sala che è stato l’orsetto pubblicitario di un EXPO venduto in pratiche confenzioni monouso. Lo stesso EXPO che, guarda caso, Giuliano Pisapia indicava come inevitabile, quello stesso EXPO che l’opera intelligente di Nando Dalla Chiesa e la commissione antimafia di esperti (di antimafia, eh, mica di mafia come quegli altri) ha demolito punto per punto per le sue lacune organizzative.
Mi piacerebbe sapere, ma davvero, che pensiero sia rimbalzato in testa a Fratoianni o ai suoi dirigenti lombardi, per convincersi che davvero il “patto delle primarie” debba essere vincolante anche per prendere la rincorsa verso il precipizio. Trovare sbavatura di sinistra nella storia e nel pensiero di Beppe Sala è un po’ come scommettere sulla verginità degli uomini di chiesa: una questione di fede fuori da ogni logica di reale possibilità. E avere fede in Beppe Sala, mi sia concesso questo mio pensiero personalissimo, è un po’ come credere nella conversione ai diritti di Roberto Formigoni: accadrà prima che Matteo Renzi si scopra umile piuttosto che Giuseppe Sala riesca ad indovinare uno slogan qualsiasi che possa accontentare un “sinistro” non medio borghese milanese.
I dirigenti di SEL, dopo essere riusciti ad allontanare la candidatura di Civati con tutte le loro forze, dopo aver contribuito al feticcio per la Balzani, dopo aver perso delle primarie che avrebbe vinto anche Violante, hanno deciso di rispettare a livello locale lo stesso patto stracciato a livello parlamentare: contano più gli intenti degli elettori. Una cosa così.
E mi spiace perché lì dentro ci sono le stesse forze che hanno sostenuto Giuliano Pisapia quando Pisapia davvero non se lo filava nessuno. Sono gli stessi che hanno provato a raccontare un’alternativa di governo in Lombardia mentre tutti gli altri giocavano allo sputo più lungo contro Formigoni. È quel partito che continua a darsi da fare per raccontare una possibilità piuttosto che concentrarsi sul marketing dell’opposizione.
Invece ora SEL sta con Sala. E intanto la sinistra dura e pura ripiega su quello stesso Curzio Maltese. A sinistra del PD, a Milano, si riesce a fare peggio del PD. Poi dici che basta poco per essere credibili. Pensa te. Nella Milano che credeva di avere solo mutande arancioni. Buona fortuna. Già.
«Il più intenso desiderio di un fotografo di guerra è la disoccupazione».
Robert Capa, in Life, grandi fotografi
Fu un straordinario viaggio in Italia quello che Robert Capa fece durante la guerra. La resistenza, la lotta antifascista, l’Italia devastata dai bambardamenti furono raccontate in 78 memorabili immagini in bianco e nero dal 5 marzo al 10 luglio alla Galleria d’arte moderna e contemporanea Raffaele De Grada di San Gimignano. Il fondatore dell’agenzia Magnum che era arrivato nella penisola “embedded”, al seguito dell’esercito americano. Nonostante il nome d’arte che si era dato e l’ingaggio non era un cittadino americano. Robert Capa, infatti, era lo pseudonimo, il nome d’arte di un intraprendente giovane ungherese di origini ebraiche, che a diciotto anni era emigrato in Germania. Il suo vero nome era Endre Ernő Friedmann, era nato nel 1913 e, giovanissimo, si era avvicinato al partito comunista. Le sue simpatie politiche quanto l’origine della sua famiglia gli resero la vita impossibile in Germania. Nel 1933, con l’ascesa del nazismo al potere, dovette lasciare il lavoro in uno studio fotografico di Berlino e scappare all’estero. Riparò in Francia e qui con la compagna Gerda Taro cominciò un’intensa e avventurosa carriera da freelance.
Quando Capa arrivò in Italia aveva già trascorso un anno in mezzo al conflitto sino-giapponese e la Guerra civile spagnola (1936-1939), realizzando scatti entrati nella storia della fotografia. Alcuni anche discussi come la foto in cui si vede un miliziano repubblicano colpito a morte. «Coloro tra noi che hanno conosciuto Capa sanno che non avrebbe mai truccato una foto, era del tutto impossibile» ha scritto il fotografo della Magnum John G. Morris in una lettera che il New York Times non ha mai pubblicato ma che è pubblicata ad incipit della monografia Robert Capa, tracce di una leggenda pubblicata da Bernard Lebrun e Michel Lefevre in Italia per i tipi di Contrasto. La mostra ideata dal Museo Nazionale Ungherese di Budapest e Fratelli Alinari e ripercorre dgli anni in cui Robert Capa arriva in Italia come corrispondente di guerra. Capa racconta in presa diretta la vita dei soldati e dei civili, dallo sbarco in Sicilia fino ad Anzio, lungo un arco di tempo che va da luglio 1943 al febbraio 1944raccontando le persone, i loro sguardi, la paura, la fatica, lo smarrimento, ma anche un grande coraggio e tenacia. È quello che si legge nel volto arso del sole di operai e contadine, di donne anziane che camminano a fatica fra le macerie, ma che non si danno per vinta. È un’umanità toccante e priva di retorica, quella che Capa riesce a fotografare «spingendosi fin dentro il cuore del conflitto».
Le immagini colpiscono ancora oggi per la loro immediatezza e per l’empatia che scatenano in chi le guarda. Lo spiega perfettamente John Steinbeck in occasione della pubblicazione commemorativa «Capa sapeva cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino».
Ed è così che Capa racconta la resa di Palermo, la distruzione della posta centrale di Napoli o il funerale delle giovanissime vittime delle Quattro Giornate di Napoli. E ancora, vicino a Montecassino, la gente che fugge dalle montagne dove infuriano i combattimenti. E i soldati alleati, accolti a Monreale dalla gente, o in perlustrazione nei campi.
Il racconto della guerra in Italia fino alla liberazione non sarebbe stato il suo ultimo teatro di guerra. Capa documentò anche il conflitto arabo-israelian (1948) e la Prima guerra d’Indocina (1954), dove prematuramente perse la vita per le ferite riportate dall’esplosione di una mina. Lasciando non solo le sie straordinarie immagini, ma anche una storica agenzia come la Magnum. Robert Capa l’aveva fondata a Parigi insieme con Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour, George Rodger e William Vandivert. In quegli anni il genere reportage conobbe il momento di massima espressione: finita la Seconda guerra mondiale c’era la necessità di capire, di vedere e provare a ricostruire i fatti della storia anche attraverso il racconto fotografico.
Da quando l’industria cinematografica per la realizzazione dei film di animazione ha virato sulla CGI, la grafica generata al computer, gli spazi in cui è ancora possibile sviluppare e realizzare film con tecniche artigianali si sono sempre più ridotti. I film d’animazione realizzati con carta, matite e pennelli sono sempre più un ricordo che appartiene al passato, e anche se il processo rimane molto laborioso anche con l’aiuto (enorme) dei computer, l’aura finale del prodotto, per dirla con Walter Benjamin, sembra essersi quasi del tutto smarrita nella nuova era della riproducibilità tecnica. Ma non tutto è perduto, un nuovo progetto basato sulla vita di Vincent Van Gogh sta infatti attirando molta attenzione. Loving Vincentè un documentario realizzato dalla regista polacca Dorota Kobiela e dal produttore inglese Hugh Welchman, e sarà il primo film la cui pellicola è stata ridipinta completamente a mano per ricreare il gioco visivo tipico dei capolavori del pittore olandese. La trama si presenta come un’indagine sulla vita di Van Gogh raccontata attraverso 120 dei suoi dipinti e costruita sulla base di 800 delle lettere che lui stesso scrisse nell’arco della vita fino ad arrivare al giorno della sua morte, ancora avvolta nel mistero, che lo vuole suicida in un campo di grano.
L’ispirazione per dare il via alla realizzazione del film è venuta alla regista dopo aver letto una corrispondenza fra Vincent e il fratello in cui l’artista olandese raccontava di come secondo lui fosse possibile esprimersi completamente solo attraverso la propria opera. Il documentario, attualmente ancora in fase di lavorazione, richiederà all’incirca 57mila fotogrammi dipinti per arrivare agli 80 minuti di durata previsti dalla scenografia. Produttori e regista fanno sapere che è gradita la collaborazione di quanti più artisti possibili, quindi se siete dei pittori e avete voglia di farvi un viaggio in Polonia per realizzare un film unico nel suo genere potete segnalare la vostra disponibilità qui
Nascere in una parte del mondo piuttosto che in un’altra è per certi versi come vincere o perdere alla lotteria. Quante volte vi è capitato di fermarvi a riflettere e chiedervi “come sarei stato io, come sarebbe stata la mia vita, se fossi nato in un altro posto del mondo?”. Quanto sarebbero diverse le vostre esistenze? In che casa vivreste o meglio avreste una casa? Sareste più poveri o più ricchi? Il sito ifitweremyhome.com cerca di fornirvi delle risposte dandovi la possibilità di confrontare gli standard di vita di altri paesi con quelli del luogo in cui vivete.
Se per esempio foste nati in Siria pittosto che in Italia:
Avreste un’aspettativa di vita inferire di circa 14 anni
Il tasso di mortalità infantile sarebbe quasi 5 volte più alto
Avreste il 43,55% di possibilità in più di essere disoccupati
La vostra disponibilità economica sarebbe inferiore dell’82,77%
Spendereste il 96,55% in meno di denaro in cure mediche
Usereste il 60,18% in meno di elettricità
Consumereste il 38,98% di petrolio in meno
Avreste il 31% di possibilità in più di finire in prigione
Avreste il 66,67% di possibilità in meno di contrarre HIV/AIDS
Avreste 2,6 volte in più dei figli
Se invece foste nati negli Stati Uniti:
Avreste un’aspettativa di vita inferire di circa 2,47 anni
Il tasso di mortalità infantile sarebbe dell’ 86,4% più alto
Avreste il 41,13% di possibilità in meno di essere disoccupati
Avreste il 78,38% in più di possibilità di guadagnare
Spendereste 2,9 volte in più il vostro denaro in cure mediche
Avreste 4,7 volte in più la possibilità di essere assassinati
Usereste il 60,18% in meno di elettricità
Consumereste il 2,5 volte più petrolio e 2,4 volte in più di energia eletrica
Sperimentereste il 41% in più le divisioni sociali di classe
Avreste il 8 volte in più la possibilità in più di finire in prigione
Avreste il doppio delle possibilità di contrarre HIV/AIDS
Il tasso delle nascite sarebbe del 51,81% in più
Ma il team di If It Were My Home ha fatto anche di più creando una sezione della piattaforma dedicata ai disastri ambientali per permetterci di visualizzare e capire meglio che impatto avrebbero avuto sulle nostre vite se li avessimo subiti in prima persona. Il 20 aprile 2010 per esempio avvenne un’esplosione sulla piattaforma petrolifera BP Deepwater Horizon, uccide 11 membri dell’equipaggio e scatena il più grande disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti. Le stime indicano che la quantità di petrolio che veniva estratta e che si è riversata in mare dopo l’esplosione era pari a circa 1milione 470mila galloni al giorno, ogni gallone corrisponde a circa 3,7 litri.
Nella zona colpita vivevano circa 400 diverse specie. Nell’area in cui era dilagato il petrolio sono state trovate morte 464 tartarughe marine e 60 delfini. La perdita è stata fermata solo il 15 luglio del 2010, in 3 mesi sono stati riversati nel Golfo del Messico e sulle coste della Lousiana circa 190 milioni di galloni, ovvero 703 milioni di litri, di pertrolio. Ecco l’area che sarebbe stata colpita se la stessa cosa fosse successa per esempio in Basilicata.
Altro che alleanza. In Spagna è scontro tra socialisti e Podemos. Questa mattina, 2 marzo, il leader del Psoe Pedro Sanchez si è presentato davanti al Parlamento spagnolo con il suo programma di governo. Dopo aver raggiunto l’accordo con la destra populista di Ciudadanos, Sánchez non può più contare sul sostegno di Podemos. «L’accordo fra Sanchez e Rivera non è compatibile con noi», ha subito avvertito Podemos, per bocca di Inigo Errejon, perché Sanchez «ha frustrato una opportunità storica per milioni di spagnoli». Podemos voterà contro questo governo basato su un’intesa (quella tra Psoe e Ciudadanos), che prevede una riforma costituzionale “express”: non sarà necessario interrompere la legislatura come invece avverrebbe per emendamenti più fondamentali o di carattere generale.
Pablo Iglesias saluta a pugno chiuso i suoi colleghi di Podemos, alla fine del suo intervento
Pallottoliere alla mano: il Psoe e Ciudadanos hanno 90 e 40 deputati su 350 seggi, perciò la loro somma è ancora lontana dalla maggioranza (176 seggi). Servirebbe Podemos (65 seggi) che però ha escluso il sostegno a Sanchez dopo l’accordo con Ciudadanos. Il Pp di Rajoy? Ha 123 deputati, e voteranno tutti contro.
È botta e risposta tra Sanchez e Iglesias. Il socialista Pedro Sanchez attacca Podemos: «Se vota No insieme al signor Rajoy, si sarà convertito in ciò che diceva di voler cambiare». E nei tre minuti di Podemos, Iglesias risponde: «A lei è stato proibito di governare con noi» e interrotto da una voce tra i banchi dei socialisti, quella del deputato Felipe González, Iglesias gli risponde: «Ti arrabbi perché dico la verità?». Ma il Parlamento spagnolo ormai è una corrida. E Iglesias non riesce nemmeno a terminare il suo discorso, perché le urla interrompono il suo intervento.
Mentre Albert Rivera difende, dai banchi di Ciudadanos, il suo patto con i socialisti – «C’è un piano contro la povertà e un piano di riforma per gli autonomi in questo accordo con il Psoe» – e poi “la butta in economia” e dice a Iglesias: «Abbiamo pensato che un economista della London School of Economics (Garicano, ndr) è meglio di Juan Carlos Monedero». E il Pp gongola con Mariano Rajoy, che attacca Sanchez: «Le cose non si fanno così. Questa è una frode, non c’è un programma. Lei non ha interesse per la Spagna».
Pedro Sanchez, durante l’intervento di Mariano Rajoy
E adesso? Dopo le repliche in aula di questa mattina, è previsto il voto in tarda serata. Senza maggioranza assoluta Sanchez dovrà cercare una maggioranza semplice (per la quale basterebbe l’astensione di Podemos) a partire dalla seconda votazione (sabato 5 marzo). E se entro il 3 maggio nessun esecutivo otterrà la fiducia si procederà allo scioglimento delle Cortes e a nuove elezioni politiche. Che potrebbero tenersi in una data successiva al 26 giugno.