Madonna Badger è una pubblicitaria importante. Ma un giorno del novembre 2015 ha pensato di googlare la frase “mercificazione delle donne” ed è rimasta male guardando i risultati video e fotografici che ha trovato: Burger King, Tom Ford, Budweiser e tanti altri vendono (sorpresa, sorpresa) le loro merci utilizzando immagini femminili fuori contesto. Badger ha pensato allora di realizzare uno spot come quello che vedete qui sotto. La campagna #Womennotobjects funziona: quasi due milioni di click in un mese
Questo il video della campagna diretto dalla pubblicitaria, che ha l’efficacia di uno spot, ma un messaggio esplicito e duro. «Adoro fare sesso orale in cambio di panini» dice una delle donne che parlano. E così via. «Siamo le tue sorelle, figlie, madri, colleghe, manager, non parlarci in questo modo». Il messaggio è rivolto ai colleghi della Badger: pubblicitari cambiate registro. Un buon messaggio in vista dell’8 marzo.
Questo invece è il video postato sulla pagina Facebook di #womennotobjects che ci mostra come sarebbe una campagna pubblicitaria sexy fatta utilizzando uomini di mezza età. Fa ridere e rende bene l’idea della mercificazione: la prima parte ci appare come normale, la seconda la troviamo ridicola.
If the media objectified middle-aged men the way it objectifies young women.
Pubblicato da Sam Kalidi su Lunedì 22 febbraio 2016
«Se fossi stato un parlamentare, l’avrei sottoscritta subito. Invece un impegno immediato non c’è stato». È un po’ amareggiata Filomena Gallo, presidente dell’associazione radicale Luca Coscioni che ieri, 3 marzo, ha presentato in una conferenza stampa alla Camera una proposta di legge sulla gestazione per altri che dà una regolamentazione precisa e che spazza via l’affitto dell’utero in quanto è gratuita e si basa sul dono. Entro lunedì il testo, con tanto di relazione e spiegazione articolo per articolo, arriverà a tutti i parlamentari e chissà, forse qualcuno avrà il coraggio di prendere una posizione e di sottoscriverla. Possibile di Civati che era l’unico gruppo presente, per il momento non si è sbilanciato e lo stesso Civati scrive nel suo blog di voler «aprire una riflessione collettiva», vista la delicatezza del tema. Un dibattito concitato, fatto di pro e contro, ha caratterizzato anche la sinistra in cui si è distinto l’intervento di Stefano Fassina (Sinistra italiana) che in una intervista ad Avvenire si è dichiarato contrario alla maternità surrogata. Alla conferenza stampa di ieri alla Camera erano presenti anche delle donne, come Novella Esposito, una infermiera napoletana che ha una storia particolare. Vent’anni fa si stava sottoponendo alla fecondazione assistita, poi si ammalò e le venne asportato l’utero, allora la madre si offrì di accogliere l’embrione fecondato, la gravidanza non andò in porto ma fu un gesto d’amore che contrasta con il quadro a tinte fosche che adesso viene dipinto attorno alla questione “utero in affitto”.
Avvocato Gallo, in cosa consiste la proposta di legge?
Questa proposta di legge prende ad esempio le normative di altri Paesi che hanno legiferato disciplinando in modo adeguato sia l’accesso alla gestazione per altri che la gestazione per altri in senso stretto. Prevede l’accesso a queste tecniche ai single, alle coppie di sesso diverso, dello stesso sesso, modifica la legge 40 nella parte dell’accesso alle tecniche, affronta anche la questione di chi va all’estero e che quando ritorna si vede immediatamente un processo penale in corso e interviene sul presente e anche sul futuro. E dà le garanzie adeguate sul fatto che non ci deve essere alcun sfruttamento economico. Come le sembrano le reazioni da parte dei politici?
Noi in questo periodo sentiamo solo commenti di chi si dichiara contrario, solo alcuni che sono a favore. Ma di fronte a tematiche così delicate, servirebbe un sentimento che dovrebbe portare le persone a fermarsi ad ascoltare. Invece questo atteggiamento è del tutto assente dal dibattito politico. Abbiamo preso atto solo di secche opinioni sulle unioni civili. Come se la gestazione per altri fosse un argomento esclusivo per le coppie dello stesso sesso. Non è così. Infatti ieri in conferenza stampa sono venute due persone dalle storie diverse che hanno fatto vedere quello che accade nella vita di ognuno di noi. Quando ci sono situazioni di salute che non ti permettono di portare avanti una gravidanza, come nel caso di Novella. Ma quante persone che si sono pronunciate in senso contrario anche all’epoca sanno davvero cosa significa? Le persone comuni, a differenza dei politici, conoscendo la sua storia le davano sostegno. In quel caso qualcuno si è fermato ad ascoltare ma era qualcuno che stava fuori delle aule del Parlamento. Torniamo all’oggi. Come se ne parla?
Adesso ne parlano solo in modo strumentale, invece dobbiamo creare un dibattito e noi cerchiamo di farlo proponendo una legge che dia delle regole. Poi, è chiaro, siamo contrari allo sfruttamento delle donne ma siamo tutti favorevoli alle scelte consapevoli e responsabili. Tra i punti fondamentali della proposta di legge abbiamo inserito le parti legali, le parti di verifica della volontà della persona che accede e della persona che si sottopone a queste tecniche per portare avanti la gravidanza. Non a caso abbiamo preferito il termine gestazione per altri, l’utero non si affitta. In questo caso viene prestato. Come dimostra la storia di Novella e della sua mamma. La politica ha dato prova di schieramenti tipo tifo calcistico. Che ne pensa di Fassina e della sua intervista a l’Avvenire?
Intanto io rispetto le posizioni degli altri. Sono la prima a cambiare idea se mi confronto con qualcuno e comprendo che nel mio ragionamento c’è qualcosa che non va. Quindi sono pronta a cambiare idea. Ma quando si parla di libertà, di vita delle persone, nel momento in cui non vado a invadere le vite degli altri è un po’ diverso se siamo nel ruolo del legislatore, nel ruolo della politica che deve dare un orientamento. In questo caso presentare il disegno di legge significa parlare della vita reale, dei fatti concreti. Vediamo se con una legge in Italia riusciamo a ridurre i problemi che ci sono andando all’estero, non favoriamo alcun mercato. Sono le proibizioni che creano situazioni di illegalità. Gli italiani non vogliono l’illegalità, gli italiani adesso se possono andare all’estero e se hanno la possibilità di spendere dei soldi, lo fanno, altrimenti rinunciano ad avere un bambino e lo fanno all’interno delle mura di casa propria, come scelta personale e individuale. Nel momento in cui all’esterno però chiedono l’affermazione di diritti di libertà, la risposta non può essere “per me non è lecito, per me non è morale e non lo deve essere anche per te” se parliamo di questioni che possono essere normate.
A proposito della maternità surrogata fa paura lo sfruttamento delle donne nei Paesi poveri.
Io sono la prima a dire che non va bene. Sono contraria a ogni forma di sfruttamento, ma bisogna fare la differenza, io non sono contraria ad andare in un Paese dove la gestazione per altri è prevista, è normata, dove ci sono regole chiare. Questo è il ragionamento che dovrebbe fare il legislatore in un Paese del terzo millennio, dove però purtroppo tutte le volte che si parla di libertà e di temi connessi alla sessualità c’è sempre chi dice è immorale. Se vogliamo parlare su base religiosa ognuno ha i suoi credi, se vogliamo parlare su base morale, qual è la migliore? Ce n’è una unica? La mia può essere diversa dalla tua. Io, forse per deformazione professionale, amo parlare su base di diritto e di legalità.
Come vede altre battaglie future come quella sul testamento biologico?
Un minimo cambiamento in questi ultimi anni c’è stato a proposito di eutanasia, testamento biologico, unioni civili. Al Senato si sono ripresi i lavori per una riforma della legge 40. Speriamo che quest’agenda politica che riporta i tema delle libertà crei anche un giusto dibattito su questi temi e non leggi che poi devono tornare nei tribunali.
Le associazioni Lgbt non ci stanno. E, dopo che Alfano ha definito il ddl Cirinnà “un regalo all’Italia” perché impedisce ai gay di avere un figlio, apostrofando la battaglia per il matrimonio egalitario e soprattutto la stepchild adoption “una rivoluzione contro natura”, il 5 marzo scendono in piazza per protestare contro la legge al ribasso che è stata approvata in Senato. La manifestazione, prevista per le 15.00 a Roma, in piazza del Popolo, riunirà ben 29 sigle di associazioni per la tutela dei diritti degli omosessuali.
Associazioni giustamente arrabbiate per un ddl che sembra essere una magra, magrissima, consolazione, piuttosto che una conquista capace di mettere l’Italia sullo stesso piano degli altri Paesi europei in termini di diritti civili. «Pd e M5S sono responsabili di aver varato una legge che non è né buona e innovativa e che sicuramente non è all’altezza della nostra Costituzione» hanno spiegato in un comunicato congiunto le 29 sigle. E continuano: «Una legge sulle unioni civili che, caso rarissimo nell’intera Europa ed unico tra i Paesi fondatori, ignora completamente l’esistenza e le esigenze dei figli e delle figlie di coppie omosessuali chiedendo alla magistratura di sbrigare da sola questo incredibile vulnus della nostra legislazione. Ponzio Pilato non sarebbe riuscito a fare di meglio.
Non abbiamo aspettato 30 anni per questo: l’incapacità del Pd e del Movimento Cinque Stelle di varare una legge nemmeno buona e innovativa, ma quantomeno decente, è la dimostrazione che il partito di Matteo Renzi è un’anomalia nel panorama della sinistra europea, infestato com’è da componenti inaccettabilmente omofobe e retrograde, mentre quello di Beppe Grillo è un accrocchio di cinismo e dilettantismo inadatto a risolvere qualsiasi problema concreto dei cittadini italiani. Ora la nostra battaglia» – concludono le associazioni – «continuerà nelle piazze e nei tribunali. Ma non solo: il movimento si impegnerà a far sì che i partiti responsabili di questa incredibile débacle dei diritti paghino caro, anzi carissimo in termini di consensi, la loro incapacità di dare a questo Paese una legge che sia all’altezza della sua Costituzione». Il numero di persone che scenderanno in piazza dunque sarà un segnale forte per un governo sempre molto attento (al punto da varare una legge elettorale fatta su misura come l’Italicum) a sondaggi e risultati elettorali. E anche per la sinistra che di questa battaglia dovrebbe farsi carico.
A favore della manifestazione si sono espressi anche personaggi del mondo dello spettacolo, l’ultimo appello è di Carmen Consoli che ha postato un video messaggio sulla sua pagina facebook invitando le persone a scendere in piazza sabato 5 marzo.
"Io credo che l'amore sia il legame più forte, quello che trasforma una relazione tra persone in una famiglia.Che nessuno sia mai un cittadino di serie b, perché i diritti non appartengono soltanto ad una parte."5 marzo, Piazza del Popolo, Roma"Ora basta: l'Italia laica alza la voce".
Anche Amnesty International Italia parteciperà alla manifestazione in Piazza del Popolo. «Il testo approvato dal Senato – ha dichiarato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, che interverrà alla manifestazione – «costituisce un primo passo verso la realizzazione dei diritti umani delle persone LGBTI, ma continua a essere necessario, allo scopo di eliminare ogni forma di discriminazione, che l’ordinamento giuridico italiano riconosca finalmente le famiglie costituite da persone dello stesso sesso e dai loro figli attraverso il matrimonio egualitario, unico istituto giuridico in grado di garantirne il pieno riconoscimento dei diritti».
In occasione della manifestazione, Amnesty International Italia rilancia la petizione sul matrimonio egualitario #Lostessosì diretta ai Presidenti del Consiglio, della Camera e del Senato: http://appelli.amnesty.it/lostessosi/
I diritti civili per le coppie Lgbt nel resto del mondo
I labirinti metropolitani sono il filo conduttore dell’undicesima edizione di Obiettivo Donna, manifestazione ideata e prodotta da Emilio D’Itri con il patrocinio del Municipio VIII di Roma Capitale. La rassegna, un omaggio alla produzione fotografica femminile, da venerdì 4 marzo alle Officine Fotografiche a Roma e propone per tutto il mese di marzo un fitto programma fatto di mostre, presentazioni editoriali e appuntamenti aperti a tutti.
Ad aprire la rassegna due mostre, in esposizione presso la sede di Officine fino al 01 aprile 2016: Marseille, di Joan Liftin, a cura di Lina Pallotta, e Sei piani di storie, di Sara Camilli, a cura di Annalisa D’Angelo. Un’affermata fotografa americana e una giovane esordiente a confronto, linguaggi che, se pur diversi, sanno indagare i labirinti metropolitani, fisici e sentimentali, della città di Marsiglia e di Roma.
Per tutto il mese di marzo, inoltre, Officine Fotografiche Roma sarà protagonista di iniziative culturali, di tipo editoriale, come le presentazioni di Marseille, di Joan Liftin (Damiani editore, gennaio 2016); di Somnambulism, di Lara Ciarabellini (Kehrer Verlag, 2015) e del saggio Oltre l’immagine. Inconscio e fotografia, a cura di Sara Guerrini e Gabriella Gilli (ed. Postcart, 2015), nonché della proiezione del documentario Family Love, di Darcy Padilla, di una serata dedicata alla street photography al femminile curata dal collettivo Spontanea e un appuntamento live, organizzato in collaborazione con Female Cut. Il programma è sul sito di Obiettivo donna
[huge_it_gallery id=”154″] Immagine in evidenza: “Sei piani di storie” di Sara Camilli, a cura di Annalisa D’Angelo.
(a cura di Monica Di Brigida)
Slovacchia al voto il 5 marzo per rinnovare il Parlamento. Il piccolo Paese, che ha adottato l’euro nel 2009, registra una piccola crescita economica ma ha poco di che sorridere: disoccupazione alle stelle, produzione industriale monotematica (settore automobilistico). Sul piano politico-diplomatico, sulla collocazione in Europa, poi, Bratislava è tutta orientata alla nuova alleanza all’interno del gruppo di Visegrád, insieme a Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. E il tema caldo della campagna elettirale è – neanche a dirlo – quello dei rifugiati. Due i candidati favoriti, l’uscente Robert Fico e lo sfidante Radoslav Prochazka (ancora più a destra); una la politica migratoria, chiusura delle frontiere e contrasto dei flussi migratori; e uno il nemico, Bruxelles. «Bisogna proteggere le frontiere esterne del trattato di Schengen, la Grecia non adempie al suo dovere», ha detto l’uscente Fico. Lo sfidante Prochazka rincara: «Bisogna permettere alla Grecia di uscire da Schengen e dall’eurozona, perché è un paese che fallisce». Ma l’orbai slovacco non si lascia certo superare a destra, e nelle ultime ore – reduce degli incontri di Viségrad – approfitta di un’intervista a Hospodarske Noviny per tornare sul tema: «La Grecia deve sacrificarsi per il bene dell’Unione Europea. Tsipras se non fai tutto quello che puoi allora ci sarà un solo enorme hotspot con il nome della Grecia». La risposta di Atene è stata durissima: il ministero degli Esteri greci ha diffuso una dichiarazione (che vedete qui sotto) nella quale dice: «È evidente che il premier slovacco, in campagna elettorale, investe su una campagna al vetriolo e centrata sul dramma umano. Siamo incapaci di osservare il suo delirio e capire come possa sperare di portare avanti – se rieletto – il compito di presidente di turno dell’Unione».
Con buone probabilità, sarà l’astensionismo a vincere: alle scorse europee ha raggiunto quota 87%. Ecco i candidati.
Bratislava, 2010. La campagna del settimanale slovacco “.tyzden” contro la ricandidatura di Robert Fico
Chi è Robert Fico. Lo chiamano l’Orban slovacco. Presidente uscente al suo secondo mandato e capo dei socialdemocratici di Smer-Sd. Nato nel 1964 da una famiglia operaia di Topolcany, si laurea come avvocato e si fa le ossa nella Cecoslovacchia comunista. Si unisce al Partito Comunista di Cecoslovacchia nel 1987 e, dopo la Rivoluzione di Velluto del 1989 (la rivoluzione nonviolenta che rovescia il regime comunista), entra nel Partito della Sinistra democratica (Sdl). Per sei anni (dal 1994 al 2000) rappresenta il suo Paese alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Intanto, nel 199 fonda il suo partito (con il quale è attualmente al potere): il socialdemocratico Smer-Sd. Un partito politico difficile da definire. «La Slovacchia non ha bisogno di politiche di sinistra o di destra, ma di una politica in grado di risolvere i problemi», ha detto Fico nel 2000. E così vince le elezioni per ben due volte. Nel 2006 viene rieletto sotto le vesti di socialista europeo che combatte le politiche di austerity. E intanto si allea con la destra, per queste sue alleanze – nel 2006 – viene anche sospeso dal Pse. Ma Fico ha perso il pelo ma non il vizio, e il suo principale alleato a oggi è fuori dal suo Paese: è Viktor Orbán, il capo ungherese che alza i muri di filo spinato per fermare l’invasione dei rifugiati. Anche Fico, come il presidente ungherese, fa della questione rifugiati un motivo di scontro culturale: «La Slovacchia è un Paese cristiano, non possiamo tollerare l’afflusso di 300mila, 400mila immigrati musulmani che vorranno iniziare a costruire moschee nella nostra terra, cercando di cambiarne la natura, la cultura e i valori dello Stato».
Radoslav Procházka
Gli altri candidati. Sfidante numero uno per Fico è Radoslav Procházka. Capo del partito di opposizione, i centristi di Siet (Rete), secondo i sondaggi, si piazzerebbe al secondo posto con il 14,5%. Alle scorse elezioni, sempre contro Fico, aveva raggiunto il 20%. Classe 1972, di Bratislava, giurista, ex deputato cristiano democratico ed ex candiato presidenziale, da meno di un anno ha fondato il movimento Siet del quale è alla guida. Il pallino di Rado? Escludere la Grecia, sia da Schengen che dall’Eurozona, perché – dice – «è uno Stato fallito».
Al terzo posto, poi, si attesterebbe il Partito nazionale slovacco (Sns) di estrema destra, con il 10,5%. Già al governo con i socialisti dal 2006 al 2010, gli ultranazionalisti sulla loro strada verso l’allenza hanno un ostacolo: la loro retorica anti-ungherese cozza con i buoni rapporti stretti tra Fico e l’Ungheria di Orbàn.
La Gran Bretagna starebbe meglio fuori dall’Unione europea se il Transatlantic trade and investment partnership (Trattato transatlantico di liberalizzazione di commercio e investimenti, Ttip) andasse in porto. Parola di Joseph Stiglitz, statunitense “europeista” e premio Nobel per l’Economia nel 2001. Parole pesanti che il Nobel decide di ribadire alla vigilia del Brexit, il referendum che il prossimo giugno chiederà agli inglesi di esprimersi sull’adesione all’Unione europea. Stiglitz, ingaggiato come consulente da John McDonnell (il “Cancelliere dello scacchiere ombra” e cioè responsabile delle Finanze nell’esecutivo che i laburisti contrappongono a quello istituzionale di David Cameron), lo dice senza peli sulla lingua: se l’accordo transatlantico di libero scambio tra Unione e Stati Uniti (Ttip) fosse simile a quello già raggiunto tra Usa e Pacifico (Trans-Pacific Partnership, Tpp) «nessuna democrazia» dovrebbe sostenerlo.
24 settembre 2014, Stiglitz spiega cos’è il Ttip e perché non bisogna firmarlo
Insomma, anche se Stiglitz ritiene che il Regno Unito non dovrebbe abbandonare l’Ue, avverte che un passaggio importante come quello del Ttip potrebbe fargli cambiare idea: «Le restrizioni imposte dal Ttip avrebbero delle ripercussioni decisamente negative sull’operato del governo, cosa che probabilmente potrebbe influenzare le mie opinioni sulla questione», ha detto il Nobel. «Potrebbero farmi ricredere sul fatto che aderire all’Unione europea sia una buona idea». Perché? C’è in ballo la sovranità nazionale, spiega il Nobel: il Regno Unito, per esempio, potrebbe essere citato dalle imprese ogni qualvolta decidesse di approvare un regolamento per limitare l’impatto di sostanze tossiche come l’amianto, o per affrontare il cambiamento climatico. «Non c’è nulla nel Ttip – spiega – , che impedisca di approvare delle regole. È possibile mantenere le regole. Solo – ironizza Stiglitz – ogni anno bisognerebbe firmare un assegno alla Phillip Morris, per ripagarla del profitto perduto rispetto a quello che avrebbero realizzato se avessero potuto uccidere le persone come in passato».
Londra, proteste contro il Ttip
Il leader laburista Jeremy Corbyn e il premier David Cameron
Mentre i funzionari europei e statunitensi provano a concludere il Ttip entro la fine dell’anno, in Europa monta la protesta (la prossima mobilitazione è annunciata dalla campagna StopTtip per il 7 maggio a Roma). Anche all’interno del Parlamento europeo. Il premier David Cameron difende il Trattato – «Le opportunità per la Gran Bretagna di negoziazione più con gli Stati Uniti d’America sono chiare» – e il leader laburista Jeremy Corbyn avverte che l’accordo potrebbe «spazzare via molti servizi pubblici su tutto il continente». E intanto continua a sostenere l’importanza della permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione.
Riecco Frank Underwood e sua moglie Claire, con i loro intrighi, accordi, scontri, perversioni, morti. La quarta serie di House of Cards è disponibile da oggi su Netflix e ci porta dritti nella campagna elettorale del protagonista, l’ex speaker della Camera divenuto presidente senza essere eletto. Stavolta Kevin Spacey/Underwood è alle prese con il consenso e con il tentativo di tornare alla Casa Bianca votato dagli elettori. I trailer che lanciano l’appuntamento ci fanno intuire che tra i vari ostacoli che Underwood dovrà superare per riuscirci (è già prevista la produzione di una quinta serie) c’è proprio sua moglie, che, alla fine della terza serie, fa saltare l’accordo su cui si reggeva la loro coppia e che sembra sempre più stufa di essere imbrigliata nel ruolo di first lady, soprattutto dopo aver perso il posto di ambasciatore alle Nazioni Unite. La quarta serie è dunque quella della guerra interna a casa Underwood, i due non sono quasi mai assieme sullo schermo e Claire cerca di conquistare il proprio spazio autonomo sulla scena politica americana con l’aiuto di alcune donne, tutte new entry nel cast. Tra queste c’è anche Neve Campbell, protagonista alla fine degli anni 90 della serie cult horror Scream. Di fronte al complotto il presidente darà i numeri e spesso le allucinazioni prenderanno il posto dei monologhi rivolti direttamente al pubblico ai quali ci eravamo abituati nelle scorse stagioni.
Vi siete chiesti perché Donald Trump è così forte e vincente quando spara addosso a Washington? E perché tra le mille serie tv americane, una tra quelle che più ha fatto discutere in Italia sia proprio House of Cards? È un caso da studiare: molte parti del racconto che vede Underwood protagonista rimandano ai meccanismi e alle procedure astruse della politica e delle istituzioni statunitensi. Eppure funziona anche qui. Le due domande hanno la stessa risposta. Dal 2011 a oggi la percentuale più alta di approvazione del Congresso è 20% (oggi siamo sotto il 15). Ovvero 8 americani su 10 disapprovano quel che succede a Washington. Obama, che va meglio, non supera il 50% da tempo. E il fatto che Hillary sia in corsa e che i suoi nemici repubblicani continuino a dipingerla come una persona disonesta e falsa, che venderebbe sua nipote pur di tornare da presidente alla Casa Bianca è tutto parte del successo di Donald Trump e prima di lui Obama e del Tea Party: chiunque dica Hollywood è marcia e io la cambierò, se è nuovo in città, avrà un suo momento di gloria. Cosa c’è di più simile a questo ritratto trash repubblicano della ex first lady se non Claire/Lady Macbeth che vuole prendere il posto del marito? Nell’anno elettorale che c’è di meglio che produrre una serie sulla campagna con una donna per protagonista? C’è un pezzo di America che guarda a Washington come un luogo di intrighi, persone disoneste, peccatori, assassini. House of Cards è la trasposizione di quell’immaginario in puntate Tv. C’è un elettorato che vota Trump perché pensa che Washington sia il punto di incontro tra Sodoma e Gomorra. C’è un altro elettorato che crede che il potere delle lobby finanziarie, delle armi o agroalimentare abbiano il controllo totale sugli atti legislativi. Questo secondo elettorato vota Sanders, è più colto ma un pochino gode anche lui nel guardare a Frank e Claire Underwood come alla rappresentazione di un potere marcio fino al midollo.
E a guardare il dibattito Tv di ieri notte tra Trump, Rubio, Cruz e Kasich (l’unico dignitoso tra i candidati repubblicani, quello più indietro nei sondaggi) è difficile non pensare a una versione grottesca di House of Cards: Rubio, il bravo ragazzo, insulta il miliardario newyorchese, che risponde alludendo a una battuta sulle sue mani piccole fatta dall’avversario: «Ha alluso alle mani ma poteva alludere ad altro, guardate le mie mani, non sono piccole e non ho problemi altrove». Come se essere campioni del mondo tra le lenzuola (un attributo che Trump si intesta) fosse determinante per guidare la prima potenza mondiale. Tra repubblicani è guerra totale, con Trump che è un candidato grottesco e vincente e tutti gli altri che hanno cominciato a giocare al suo gioco: insulti, attacchi, poca sostanza, per cercare di acciuffarlo nei sondaggi. Se questo è quel che ci vogliono mostrare, penserà l’elettore X americano, chissà cosa non vediamo.
Lo stesso discorso vale per noi: non sono solo Kevin Spacey e Robin Wright a bucare gli schermi dei nostri salotti, ma è quell’immaginario “tutto uno schifo” che aleggia sulle nostre teste da anni – e che ha portato il Movimento 5 Stelle al 25% e Renzi a prendersi il Pd – che ci fa apprezzare gli intrighi di House of Cards. La telenovela Bunga-Bunga, i governi non eletti in serie e il cinismo connaturato al cittadino-elettore-telespettatore hanno fatto il resto. E così, invece di entusiasmarci per altro, ci siamo appassionati per il Riccardo III in veste moderna interpretato da Kevin Spacey.
Poi ci sono tutti i cinici appassionati di cinismo che si identificano con Frank Underwood e nella frase che dice alla fine del primo trailer di lancio della quarta serie di House of Cards: «Si dice che abbiamo i leader che ci meritiamo. Io credo che l’America si meriti Frank Underwood e in cuor vostro sapete che ho ragione».
È un’istituzione che trasuda sangue. Mica in senso figurato ma sangue proprio con la forma e il colore del sangue, basterebbe chiedere ai figli orfani lasciati in giro o a qualcuno dei parenti sopravvissuti. La commissione antimafia è qualcosa di terribilmente serio, uno di quei luoghi che anche se non lo porti ti viene voglia di toglierti il cappello.
C’è da dire, tra l’altro, che pur essendo stata talvolta sporcata da qualche presenza non proprio all’altezza (ma è un problema generale di molte delle stanze del Parlamento) la commissione antimafia ha ospitato menti prestigiose di questa battaglia così feroce e annosa.
Per questo leggere in giro che le soffiate (che nell’era Renzi sono spesso prevedibili venti astutamente veicolati) indicano la commissione antimafia come prossimo campo del duello tra Renzi e Rosi Bindi, con le voci di una possibile sostituzione della presidente attuale con il deputato PD Emanuele Fiano, fa passare la voglia di leggere. Non che non sia possibile un regolamento di conti interno al PD (a proposito: avete notato che impennata di litigiosità nonostante se ne siano andati Fassina, Civati e tutti quelli che avrebbero dovuto essere i colpevoli?) ma se in tutte le passate legislature non si è mai assistito ad una sostituzione del Presidente della Commissione Antimafia probabilmente significa che un po’ tutti hanno pensato al valore anche simbolico che l’antimafia rappresenta.
Ma questa commissione è anche la stessa stanza in cui si è pensato bene di bastonare i nemici politici con una serie di audizioni più utili alla conferenza stampa che altro. Ma davvero in un Paese come il nostro c’è qualcuno che crede che il “caso Quarto” possa essere significativamente importante per lo studio della criminalità organizzata? Ma davvero esiste una democrazia matura in cui un candidato Presidente di una regione (in questo caso De Luca) può permettersi di chiamare “mafiosi” i componenti di un organo così delicato?
Ecco, sarebbe il caso forse di pretendere rispetto. Di chiederlo a gran voce. Perché qui la criminalità è organizzata e l’antimafia sempre meno.
«Una contaminazione grave e diffusa» nei sedimenti e nelle cozze in prossimità delle piattaforme di estrazione di gas davanti alle coste italiane. La denuncia arriva da Greenpeace, che questa mattina ha pubblicato il rapporto “Trivelle fuorilegge”, spiegando che oltre a sussidi ed agevolazioni, molti impianti offshore in Adriatico spesso fanno registrare concentrazioni di sostanze chimiche oltre i limiti di legge.
L’associazione ambientalista ha preso a riferimento i dati riferiti al triennio 2012-2014 ottenuti dal ministero dell’Ambiente riguardanti 34 impianti – 33 nel 2012 e 2014 – che estraggono gas, tutti di proprietà di Eni (il ministero non ha concesso agli ambientalisti i dati relativi alle alre 100 piattaforme operanti nei mari italiani). Dall’analisi delle informazioni ottenute, è emerso che in tre quarti dei sedimenti marini adiacenti alle piattaforme si registra la presenza di concentrazioni oltre i limiti per almeno una sostanza chimica: almeno una sostanza “fuorilegge” è stata rinvenuta nel 76% dei casi nel 2012, nel 73,5% nel 2013 e nel 79% nel 2014.
«Ci sono contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace. «La situazione si ripete di anno in anno ma ciò nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari».
La mappa delle piattaforme “analizzate” da Greenpeace
Le analisi sui campioni di cozze raccolti nei pressi delle piattaforme mostrano che circa l’86% del totale superava il limite di concentrazione di mercurio. E circa l’82% dei campioni presi in esame presentava valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa). Per bario, cromo e arsenico la percentuale di campioni con valori più alti era inferiore (37%, 27% e 18% rispettivamente).
Oltre all’esito delle analisi, quello che preoccupa gli ecoattivisti è la genesi dei dati ricevuti facendo istanza al ministero. I monitoraggi, infatti, sono stati effettuati da Ispra su commissione di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. In sostanza, denuncia Greenpeace, il controllore è a libro paga del controllato.
«Quel che a nessun cittadino sarebbe concesso – dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace -, è concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca. Sono motivi più che sufficienti per spingere gli italiani a partecipare al prossimo referendum sulle trivelle del 17 aprile, e a votare Sì per fermare chi svende e deturpa l’Italia».
Tutti contro Trump. Dopo mesi passati a osservare l’ascesa del miliardario newyorchese nelle preferenze dell’elettorato repubblicano, la testa del partito – o meglio, una sua parte – si sta organizzando per cercare di impedire la sua nomination.
Mercoledì scorso il senatore della South Carolina Graham era andato alla CBS per spiegare che «Trump farà vincere Clinton e che, non mi sarei mai aspettato di dire una cosa del genere tutti sanno che non vado d’accordo con Ted, ma il partito deve coalizzarsi attorno a Ted Cruz» (Graham è un moderato ed è un nemico della testa matta senatore del Texas). Oggi è la volta di Mitt Romney, ala miliardaria del Grand Old Party, ex candidato presidente e figura che incarna quella relativa moderazione che una parte della base repubblicana detesta – la base più ampia a giudicare dai risultati delle primarie. Parlando in un’università a Salt Lake City, nel suo Utah mormone, Romney ha pronunciato un discorso dopo averlo diffuso ai media:
«Non ha proposte serie, dice di ammirare Putin e ha chiamato George W. Bush un bugiardo, parla dei sondaggi quando gli fanno comodo ma non dice mai che quelli che lo vedono candidato contro Clinton lo danno perdente…Trump è una frode e un falsario, inutile quanto un diploma della Trump University (la para-università di business online di proprietà del miliardario)…Le sue politiche porterebbero alla recessione e le idee sulla politica estera renderebbero l’America meno sicura. Non ha né il temperamento, né il giudizio per fare il presidente e le sue caratteristiche personali toglierebbero all’America lo status di città sulla collina (l’idea messianica del destino manifesto del Paese). Se non fosse una figura importante dello stesso partito, verrebbe da pensare che è il suo più duro avversario».
La risposta è arrivata prima del discorso con un tweet e un video che ne contesta le credenziali conservatrici: «Pare che il due volte sconfitto Romney voglia spiegare ai repubblicani come si vince. Non il messaggero migliore».
Looks like two-time failed candidate Mitt Romney is going to be telling Republicans how to get elected. Not a good messenger!
Nel frattempo, in una conference call di cui parla il Washington Post, alcuni strateghi e finanziatori repubblicani hanno cercato di elaborare una strategia milionaria anti-Trump producendo uno sforzo per aiutare le campagne avversarie e spendendo soldi in pubblicità negativa. Complicato: tanto più che pezzi importanti del Grand Old Party, a cominciare dal governatore del New Jersey, sono con Trump. Non solo: la difficoltà è anche quella di convincere anche quelli che sono contro TheDonald, il frontrunner è lui e fermarlo sarebbe suicida, pensano in molti.
Primi passi fondamentali impedirgli di vincere in Ohio e Florida. Facile a pensarsi, molto difficile a farsi: il campo anti Trump è diviso in tre, con Cruz da un lato e Rubio e Kasich dall’altro che rappresentano fronti molto diversi. Come convincere i moderati che vogliono Kasich (o Rubio) e i conservatori religiosi a scegliere lo stesso nome? O, addirittura, come convincere qualcuno a ritirarsi? Praticamente impossibile. Ma questa sarebbe l’unica strada sensata, arrivare in fretta a uno scontro uno contro uno. La testa del partito si è svegliata molto, troppo tardi e se l’establishment del partito riempirà gli schermi di spot contenenti attacchi contro Trump, a questo punto non farà che favorire l’avversario democratico.