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Il romanzo a fumetti dell’adolescenza

Un gruppo di amici cresce insieme in una periferia che è quasi campagna. Al tecnico industriale si susseguono brutti voti e bocciature. La vita è fuori: tra bar, giri in macchina, scazzottate e “mischioni” di alcol e droghe leggere. Davide Reviati ambienta in un luogo indefinito tra Ravenna e Parma, le sue due città, il romanzo a fumetti Sputa tre volte, arrivato a sei anni di distanza – «gli ultimi due di full immersion», ci racconta – da un’altra opera che ha riscosso molti consensi: Morti di sonno. Stavolta al centro della narrazione c’è l’adolescenza, con i suoi sogni e le inquietudini. «Mentre disegnavo mi è venuto da pensare che stavo raccontando quel tassello che in Morti di sonno mancava. Lì c’era una cesura tra l’infanzia e l’età adulta che inconsciamente ho colmato qui, raccontando la prima giovinezza». Un racconto che sa di vita vissuta: Guido, il personaggio narrante, si dedica alla pittura e al disegno dopo un «36 e due figure» alla maturità, proprio come Reviati. Ma che ha l’ambizione di restituire una storia universale, di andare «al di là del luogo e del tempo» pur descrivendo il quotidiano. «Il tentativo non è quello di raccontare la verità storica – spiega -, legata ai fatti per come si sono svolti, ma di cercare l’autenticità della storia. Se qualcuno mi chiede se i fatti sono realmente accaduti gli dico di no, ma se mi chiede se è tutto vero gli dico di sì». Una verosimiglianza sostenuta, paradossalmente, dall’inserto di numerose scene fantastiche, spesso legate ai sogni del protagonista. Uno sfogo all’interiorità, alle paure e alle aspirazioni dei personaggi, reso magnificamente dalle tavole. Basta guardare quelle in cui Guido, dopo aver fumato e bevuto, vomita un intero stormo di uccelli neri o, più avanti, a quelle in cui sfrecciando in bici trasforma i pensieri in volatili che gli cingono la testa. Allo stesso modo, nel racconto neorealista delle bravate e degli incontri-scontri con gli Stancic – gli zingari accampati accanto a un vecchio casolare nelle campagne frequentate dai ragazzi -, entrano “eroi a cavallo” come John Wayne. «Era il mito di quelli che, come me, sono cresciuti con i film western» spiega il disegnatore. «È un personaggio forte, non per forza acuto, anzi. Però la sua non è un’ottusità cattiva: è quello zio che non ti inquieta perché ha un cuore e non è giudicante. Nell’immaginario di un ragazzino fa da contraltare alla figura paterna». Il padre del protagonista (qui, riconosce l’autore, il tratto è autobiografico), ma anche quello adottivo del suo amico Grisù, sono infatti figure severe, quasi arcaiche, che pur comparendo più volte nelle tavole si caratterizzano per la loro assenza, per il vuoto che lasciano nelle vite dei figli.
In questa autobiografia «molto romanzata» trova spazio anche la riflessione sul rapporto con il diverso, con l’estraneo. È l’incontro con una giovane zingara “fuori di testa”, Loretta, l’unica figlia femmina degli Stancic, ad aprire uno squarcio nella narrazione. «Questa persona mi era rimasta in testa fin da quando ero molto giovane», spiega il fumettista. Traendo spunto dalla sua storia, Sputa tre volte racconta da una parte i «selvaggi ladri e senza dio incapaci all’adattamento sociale» e dall’altra il Porrajmos e la follia della persecuzione nazista. «Ho sentito l’urgenza di introdurre nella narrazione alcune informazioni storiche, per inquadrare quelle persone nell’alveo delle generazioni che le hanno precedute. So che mi sono esposto al rischio di alterare il ritmo del racconto, o di far pendere il libro dalla parte degli zingari, ma non potevo non farlo» dice. «La questione del Porrajmos, dell’Olocausto dei rom, non è così conosciuta come credevo. Mi interessava molto far entrare in una storia a fumetti il racconto dei lager italiani, perché arrivasse a chi non sa». […]


 

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Hey Merkel, open the borders!

rifugiati idomeni

(Idomeni – Grecia) Né i colpi di pistola uditi al confine iraniano, né le urla della polizia greca che gli impedivano di attraversare il confine greco-macedone di Idomeni hanno fermato Javid, afghano di 24 anni. «Abbiamo visto la morte in faccia diverse volte», racconta a Left. «Non potevo rimanere in Afghanistan perché sono Hazara (una minoranza sciita, ndr) e i talebani credono di andare in paradiso se ci uccidono». Javid è in viaggio con la sua famiglia verso «l’Austria, la Germania, ovunque ci accettino», dice. Ma alla stazione di Polikastro, a 20km dal confine di Idomeni, Javid e una cinquantina di altri rifugiati sono costretti a resistere alle intimidazioni della polizia, che cerca in ogni modo di farli salire su un autobus diretto ad Atene. Anche con la violenza, quando i giornalisti non vedono. I bambini piangono. Le donne cominciano a urlare. Gli uomini restano uniti e non si fanno convincere dai poliziotti, che a un certo punto, per ingannarli, dicono loro che l’autobus è diretto al confine macedone. In un lampo il gruppo di afghani, zaino in spalla, si incammina lungo la superstrada che conduce alla frontiera: 20 chilometri a piedi con i pochi possedimenti che si sono portati appresso, attraversando le colline verdi e i villaggi dimenticati di queste terre di confine. Qualche ora dopo, le poche speranze rimaste si estinguono davanti alla schiera di poliziotti greciche intimano loro: «Non potete passare». In quei concitati momenti, le forze armate stanno rimuovendo dal campo tutti i rifugiati afghani, indipendentemente dalle loro storie e dalle loro situazioni personali, per caricarli su autobus diretti ad Atene, impedendo alla stampa di avvicinarsi per diverse ore. Chi riesce a resistere occupa i binari del treno e si rifiuta di muoversi. Un diciottenne di Kabul, Umaid, non crede ai suoi occhi: «Questa gente non ha ben chiaro il concetto di umanità», sbotta con il fiatone per la lunga camminata. «Facevo il giornalista e ho fatto un reportage di denuncia contro i talebani. Non avevo altra scelta che scappare per non farmi ammazzare». Tre mesi dopo la prima chiusura della frontiera per i rifugiati non siriani – afghani e iracheni – a Idomeni tornano gli slogan “Open the borders!” e “Help us Merkel!”.
Le proteste si placano per alcuni giorni, fino a lunedì, quando un gruppo dei circa 7mila rifugiati al confine ha forzato la barriera al confine. Un impeto di orgoglio intriso di frustrazione. […]

testo e foto di Nicola zolin


 

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I ricercatori: «Basta, siamo stati troppo zitti»

ricerca parisi change

«Dobbiamo fare un animale a sei gambe e marciare tutti insieme». Giorgio Parisi, fisico teorico e artefice della petizione “Salviamo la ricerca” su Change.org, conclude così l’assemblea del 25 febbraio nell’aula Amaldi della facoltà di Fisica a Roma. Le sei gambe sono tre dell’università – gli studenti, il personale amministrativo e i docenti – a cui aggiungere i tre settori della scuola, elementare, media e superiore. «I problemi che abbiamo all’università sono gli stessi della scuola e noi come universitari siamo stati zitti negli anni dei tagli all’istruzione», dice il professore. Uscire dal tunnel del silenzio, allargare l’orizzonte della protesta e lanciare proposte: è questo il cambio di paradigma per i ricercatori italiani, abituati da anni a subire le decisioni politiche (soprattutto nei tagli e nel blocco del turn over) senza opporre una reazione forte. In questo senso li aveva bonariamente rimproverati anche il “padre” della comunicazione scientifica, Piero Angela, accorso all’assemblea romana. «La ricerca è muta, è poco popolare ed è anche poco percepita dai politici che tendono ad avere dei risultati subito. Ci vuole più comunicazione». Invece la ricerca di base, fondamentale per lo sviluppo del Paese, nota l’economista Alessandro Roncaglia, ha bisogno di una programmazione di medio e lungo termine. Ma tutto questo va fatto conoscere. Così come vanno denunciate le cause della “fuga dei cervelli”: la debolezza del sistema italiano – università ed enti di ricerca – penalizzato dai tagli, con bandi emanati all’ultimo momento e talvolta schizofrenici e con l’incertezza del rifinanziamento dei progetti. «Quando si perdono generazioni di scienziati, ricostruire è difficile», aggiunge in un contributo video Fabiola Gianotti, alla guida del Cern di Ginevra. Alla fine viene rilanciata la proposta di una Agenzia unica per la ricerca ma si fa strada – un po’ timidamente, ma chissà – anche l’idea (lanciata da Francesco Sinopoli, Flc Cgil) del blocco dell’inizio dell’anno accademico.

In apertura: dettaglio dell’illustrazione di Antonio Pronostico


 

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Il popolo di Trump, frustrato e arrabbiato

A member of the audience cheers as Republican presidential candidate Donald Trump speaks at a rally at Valdosta State University in Valdosta, Ga., Monday, Feb. 29, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

C’ è stato un tempo in cui la Florida era il centro del boom edilizio americano. Non è più così. I resort e villaggi multiproprietà costruiti nei luoghi meno famosi e lussuosi – e venduti a peso d’oro fino al 2008 – oggi sono mezzi vuoti. Oppure abitati da pensionati che pensavano a quella casa come a un investimento dove passare molto tempo, ma non tutta la vecchiaia. Dal 2008 il meccanismo “indebitamento-investimento-restituzione dei soldi chiedendo altri soldi in prestito grazie al valore cresciuto della casa”, è saltato. E per molti ha significato la fine delle certezze coltivate per una vita. E un’esistenza passata in questi villaggi semi-deserti, spesso tristi come i luoghi di villeggiatura in inverno – perché per quanto la bella stagione in Florida sia lunga, non è infinita.

Nella “cintura della ruggine”

Il Michigan invece è in decadenza da decenni. L’amministrazione Obama ha impedito che l’industria dell’auto morisse per sempre, ma certo nella Rust belt, la cintura della ruggine – chiamata così perché ospita le carcasse di centinaia di fabbriche vuote -, ci sono migliaia di famiglia operaie che si guardano attorno sperdute. C’è chi lavora in un Wal Mart, chi fa il facchino in un magazzino Amazon e chi è impiegato nelle piccole fabbriche che forniscono i giganti della grande distribuzione che, come mi raccontò una volta un sindacalista in Wisconsin, «si sentono dire: il prezzo è questo, prendi o me ne vado in Cina domani». La conseguenza è semplice: salari che scendono e un altro piccolo modello di vita ordinata che va in fumo. Non per tutti ma per molti.

I dati sul declino di alcune aree urbane parlano chiaro: ci sono regioni del Sud repubblicano e del Midwest dove la ripresa non si sente. Cleveland, Detroit, Toledo, Milwuakee, Buffalo, Memphis, Cincinnati, otto delle dieci città americane con i dati socio-economici peggiori secondo una ricerca recente dell’Economic Innovation Group, sono ex centri importanti e industriali che non sanno più dove sono – e dove anche Bernie Sanders è forse destinato a fare bene per ragioni uguali e contrarie a quelle di Trump.

Se vogliamo capire da dove venga il fenomeno Donald dobbiamo partire da posti come questi: l’America opulenta e indebitata degli anni 80 divenuta decadente e colpita dalla globalizzazione del commercio mondiale. I numeri strabilianti di TheDonald vengono da qui, dai nostalgici dell’America convinta da Reagan che lo Stato non fosse la soluzione ma il problema, l’America che domina il mondo e vince la Guerra fredda. Make America Great Again, “Fai tornare l’America grande”, lo slogan di Donald, è un richiamo a quegli anni – e in fondo anche a quelli di Clinton, Bill.


 

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Il SuperTuesday, Calais e le bombe a Cizre: le foto della settimana

A young boy listens as Democratic presidential candidate Hillary Clinton speaks at Solicitor David Pascoe’s Annual Oyster Roast and Fish Fry while campaigning in Orangeburg, S.C., Friday, Feb. 26, 2016. (AP Photo/Gerald Herbert)

 

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Immagine in evidenza: Un ragazzo ascolta Hillary Clinton durante la campagna elettorale in Orangeburg (AP Photo/Gerald Herbert)
gallery a cura di Monica Di Brigida

Dubioza kolektiv. I selvaggi dei Balcani che sbancano youtube

Ancora una manciata di click e il singolo dei Dubioza kolektiv, “Free mp3”, avrà raggiunto la soglia di 4 milioni di visualizzazioni su YouTube. Nel video (guardatelo, è davvero divertente) succede di tutto. La band invade la Rete e “manomette” le pagine facebook dei big del web (lo slogan “Hope” di Obama diventa “Drone”), e poi irrompe su Amazon per incollare i bollini “free” sui prodotti in vendita. Dietro l’ironia? Un omaggio a Edward Snowden e un inno contro il copyright.

I Dubioza kolektiv sono in sette. Anarchici, irriverenti e armati fino ai denti di energia e determinazione. Arrivano in Italia con un tour (Torino, Trieste, Bologna, Firenze) e un disco nuovo, Happy Machine. Al suo interno trova posto persino un riarrangiamento di “24.000 baci” di Adriano Celentano, insieme a Roy Paci, e il sempreverde Manu Chao. Almir Hasanbegovi, Adis Zveki, Brano Jakubovi, Vedran Mujagi, Armin Bušatli, Orhan Maslo Oa e Senad Šuta si definiscono provocatoriamente i «selvaggi dei Balcani». Così, secondo loro, li vede l’Europa. E l’Europa, vista dai Balcani, com’è? Glielo abbiamo chiesto. «Veniamo da Bosnia, Serbia, Slovenia e Croazia. Alcuni di noi sono cittadini Ue e altri no… da più di 10 anni lavoriamo per superare queste “differenze insormontabili”!», provocano.
Ho ascoltato l’album e… boom! Quanta energia!
Beh… veniamo da una zona molto “ricca” di risorse di energia elettrica… (scherzano). E quando questa energia alimenta grandi amplificatori per chitarra e potenti computer – con ogni tipo di software illegale installato – si può ottenere come risultato un potente album rock!
Come posso rendere l’idea a chi non vi ha mai ascoltati? Datemi una mano.
Il nostro sound è davvero difficile da descrivere, anche perché non abbiamo mai provato a identificarci in una specifica nicchia di genere. Ci concentriamo di più sul messaggio e sull’idea che cerchiamo di promuovere, e vogliamo trovare il miglior sottofondo musicale ai nostri testi. Ecco perché il suono è così eclettico. Il solo elemento costante nella nostra musica è il tentativo di mantenere un autentico balkan sound, in modo da chiarire subito a chi ci ascolta da dove veniamo.
Libertari e irriverenti, prendete di mira le icone del web o chi le rende tali?
Cerchiamo di dimostrare quanto sia ridicolo tutto questo hype che si sviluppa intorno ad alcune storie di poco conto e alle immagini che vengono fortemente promosse dai media. Siamo bombardati da migliaia di inutili “breaking-news stories”, i dettagli sulla vita delle celebrità e i consigli sul lifestyle. È difficile distinguere le informazioni importanti dal rumore. E può capitare di perdersi la storia dei profughi che annegano nel Mediterraneo, o il voto del Parlamento sulla riduzione dei diritti dei lavoratori, perché c’è un nuovo episodio del Grande Fratello (o di uno spettacolo simile) in onda nello stesso momento.
Ne serve tanto di humor per andare avanti…
Se usiamo lo humor siamo in grado di raggiungere molte più persone e di raccontare qualche storia importante. Alla gente non piacciono le prediche e che si dica loro cosa fare. L’umorismo: è questo il modo più efficace per farli riflettere sui problemi che altrimenti le persone ignorano.
«Sono stufo di essere europeo solo su Eurosong», sbottate in una delle vostre canzoni. Viviamo nel Continente europeo ma non siamo considerati veri europei. Siamo “i selvaggi dei Balcani”, “gli ultimi della classe”, un’area che “produce più storia di quanto non sia in grado di gestire”. Non soddisfiamo gli elevati standard dei “perfetti” cittadini europei di Bruxelles. Poi, però, se guardi le reazioni vergognose dell’Ue agli arrivi dei rifugiati e dei migranti che provengono da Medio Oriente e Africa, ti capita di vedere che i Paesi più ricchi sequestrano gioielli e oggetti di valore ai rifugiati. E intanto assistiamo all’ascesa dell’isteria fascista. L’Europa Umanista è degenerata in un mostro burocratico che si preoccupa solo di statistiche, dei bilanci e degli interessi finanziari dell’1% più ricco.
Cantate la crisi dei profughi e le proteste di Gezi Park a Instabul. Per chi vive nei Balcani quant’è faticoso essere europei?
È sempre difficile definire l’identità europea per le persone che vivono al di fuori dell’Unione. E la maggior parte delle persone ha un senso distorto di ciò che è l’Europa oggi. L’adesione e l’integrazione nella Ue si presentano a noi come l’ultima soluzione a tutti i nostri problemi, e i nostri politici usano questo argomento come “artiglieria pesante” nei loro discorsi pre-elettorali: “Quando diventeremo un membro della Ue, tutti i nostri problemi saranno risolti”. Questa immagine fiabesca è molto lontana dalla verità, ma è conveniente quando non hai nulla da perdere.
Ve lo chiedo brutalmente: che resta della guerra nei Balcani oggi?
Ciò che resta è un Paese con una Costituzione molto malfunzionante che è stata concepita come mezzo per fermare la guerra. Un dopoguerra nel quale siamo ancora bloccati da 20 anni. Nel frattempo, abbiamo vissuto la peggiore versione di “transizione verso un’economia di mercato” che si possa immaginare, e come risultato abbiamo un piccolo numero di politici/criminali/oligarchi che possiedono le aziende più importanti e le risorse naturali, mentre il resto della popolazione soffre. La guerra è stata una terribile esperienza, ma questo dopoguerra è altrettanto orribile.
Nel vostro disco c’è anche un omaggio a Edward Snoden: “Free Mp3” è un inno contro il copyright. Perché vi siete intestati questa battaglia?
Il modello di proprietà e copyright che l’industria della musica tradizionale sostiene è vecchio e non funziona più nell’era digitale, deve essere ridefinito. È un sistema che ha sempre protetto le grandi aziende che hanno guadagnato un sacco di soldi mentre ai loro artisti lasciavano solo gli avanzi. E proprio adesso che finalmente questo sistema viene messo in discussione, gli artisti dovrebbero combattere contro il cambiamento?!?

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla


 

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Valeria Solarino sulle unioni civili: «Pensavo sarebbe stata la volta buona per la parità. Mi sbagliavo»

Quando è morto Ettore Scola, Achille Occhetto mi ha detto che tra quelli del regista il suo film preferito non era, come avevo immaginato, La terrazza, dove Gassman interpreta un deputato comunista che si muove in una compagnia salottiera che oggi definiremmo radical chic. «Una giornata particolare, senza dubbio», è invece la scelta dell’ultimo segretario del Pci. «Perché è un film perfetto dal punto di vista formale», dice, «ma che dimostra tutta la sensibilità politica e culturale di Scola, con l’efficace contrappunto tra il machismo fascista e la delicatezza sorprendente di Mastroianni omosessuale». E con Valeria Solarino, in questa intervista un po’ politica, non potevo dunque che partire che da qui, da cosa l’ha colpita, a lei, del film di Scola che con Giulio Scarpati sta portando, adattato, nei teatri. «La scenaggiatura», dice, «è la forza di Scola, il modo in cui scrive, fa muovere e parlare i personaggi, facendo politica in un modo raffinato».
E allora, politica per politica, io la provo a portare subito sulla figura di Mastroianni, che tanto ha colpito Occhetto, e così sull’attualità che ci spinge a parlare della legge sulle unioni civili, dei diritti degli omosessuali. «Ma quello di Scola», mi frena, «è soprattutto un film di critica al regime, critica che arriva attraverso la rappresentazione della famiglia, con il padre marito e padrone così ignorante, e alcune scene che restituiscono perfettamente il lato ridicolo di un regime». E cita una scena, Solarino, per spiegare cosa intende: «Faceva sorridere al cinema e fa sorridere ora chi viene a vederci a teatro», dice, «la scena della rumba, quando Gabriele, Marcello Mastroianni, insegna a Antonietta, Sophia Loren, il passo base. I due ballano e quando dalla radio di una vicina arrivano più forti le note di una canzone fascista, Gabriele spegne il giradischi, dispiaciuto, e fa “Ecco. Questa è meno ballabile”».
È presto detto, dunque, perché portare oggi in teatro Una giornata particolare (dal 31 marzo al 10 aprile a Roma, questo week end a Perugia). Non solo per comodità: «È una sceneggiatura perfetta, quasi tutta in un unico ambiente e con due soli personaggi. E io», continua Solarino, «ho la possibilità di portare in scena ogni sera un personaggio stupendo, capace di parlarci ancora oggi che la condizione delle donne non è più quella del 1938, ma di passi in avanti da fare ce ne sono ancora tantissimi».
Donne, democrazia, conformismo, ovviamente omosessualità. Poteva essere un’ operazione quasi nostalgia, una rievocazione storica, mettere in scena Una giornata particolare e invece Scarpati e Solarino, diretti da Nora Venturini, si sono trovati immersi nella cronaca: «Ma credo che con opere così alte», mi dice ancora Solarino, «sia inevitabile. Storie scritte così, con tutta questa attenzione per la vita, parlano sempre a chi le guarda, anche se il contesto per cui l’aveva pensata Scola è ormai lontano». Non è il 1977, anno di uscita del film, questo è il tempo delle copertine di Libero, dei sondaggi online in cui si chiede se Nichi Vendola sia più giusto chiamarlo “babbo” o “mammo”. E la delicatezza di quel racconto, la delicatezza di Mastroianni di cui parla Occhetto ha poco a che fare con il livello del dibattito di questi giorni. «Mi sembra», è il commento con cui Solarino se ne tira fuori, «che i commenti siano quasi tutti fatti a priori, più dettati dal posizionamento politico che non dalla reale volontà di affrontare un tema». Tema che, nello specifico, è quella della gestazione per altri, volgarmente detta utero in affitto. Cosa ne pensa Valeria Solarino? «È una pratica da regolamentare, sarebbe il caso», dice, «e dovremmo farlo senza chiederci se la pratica sia più usata da omosessuali o da coppie etero, perché il punto non può esser quello». […]


 

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«Partorirai con dolore» e abortirai sotto tortura. L’idea purtroppo è sempre questa

La mia impressione è che la depenalizzazione dell’aborto clandestino abbia automaticamente fatto scattare il reato amministrativo e la sanzione che oscilla tra i 5 e i 10mila euro. La gravità di questa scelta mi sembra intuitiva. Probabilmente è dovuta a sciatteria e a automatismi, poiché è chiaro che se si depenalizza l’aborto clandestino e se ne fa un reato amministrativo con multa, automaticamente tutti i reati compresi in quel capitolo passano a quel tipo di multa. Ed è del tutto evidente che questo ha effetti molto negativi, pensate a quelle donne che dovessero avere delle complicazioni per un aborto, per evitare la multa potrebbero scegliere di evitare anche di rivolgersi all’ospedale.
Ma la cosa più grave è che se si guarda la relazione del ministro della Salute Lorenzin, si evince che il ricorso all’aborto clandestino è, in stragrande maggioranza, dovuto al fenomeno dell’obiezione di coscienza che ha assunto livelli insopportabili. Il 70% dei ginecologi, il dato è nazionale, ha sollevato l’obiezione di coscienza, con percentuali totali, oltre il 90 per cento, in regioni come, per esempio, il Molise o le Marche. Il 35% degli ospedali italiani, poi, non applica proprio la legge, fa la cosiddetta “obiezione di struttura”, cioè l’intera struttura non pratica interruzioni di gravidanza, violando la legge perché la legge – non dimentichiamolo – stabilisce che indipendentemente dall’obiezione di coscienza individuale, la struttura è tenuta a trovare delle soluzioni affinché la 194 venga applicata. Quindi, l’obiezione di struttura è totalmente illegale perché non applica la legge e in più all’interno di queste non riesci a sapere quanti obiettori ci sono perché è l’intera struttura a fare obiezione. Se poi aggiungiamo che a questa situazione si è aggiunto le difficoltà che incontra l’aborto farmacologico, la situaiozne si fa grave. La Ru 486 (la pillola abortiva), oggi copre circa il 9% delle interruzioni di gravidanza e questo dato così basso rispecchia ovviamente la difficoltà di accedere a questa metodica. Per esempio, sempre nelle Marche è impossibile usare la Ru 486, non la danno proprio. In più le linee guida del Ministero dicono che chi vuole la Ru486 si deve sottoporre a tre giorni di ricovero. Capite bene che mentre l’interruzione di gravidanza normale (chirurgica) si fa in day hospital – ammesso che uno ci riesca! – è chiaro che molto spesso è complicato “scegliere” di ricoverarsi tre giorni.

Tutti questi ostacoli all’applicazione della legge, al primo posto l’obiezione di coscienza sia individuale che di struttura, hanno automaticamente portato all’allargarsi di sacche di clandestinità e se aggiungiamo la sciatteria del Decreto depenalizzazioni, il giro è fatto!
La verità è che a forza di non andare avanti, facciamo battaglie di retroguardia… è chiaro che la 194 nel ’78 nasceva da un compromesso perché dichiarava che l’aborto non era punibile se fatto nelle strutture pubbliche, mentre rimaneva reato se fatto nelle private. Compromesso che oggi andrebbe superato. Ed invece abbiamo a che fare con tutti questi piccoli ostacoli buroratici, o non burocratici, che messi insieme restituiscono il quadro di una situazione davvero preoccupante. Perché a monte c’è l’idea che “partorirai con dolore” e abortirai sotto tortura, e se vuoi morire dignitosamente sei costretto a pellegrinare altrove. Ed è sempre così.
L’idea rimane quella che i problemi (anche sociali) si risolvono con i carabinieri, i divieti, le multe… mentre dai dati che abbiamo detto, impressionanti quelli sulla Lombardia, l’aborto clandestino è, in molti casi e in molte parti d’Italia, l’unica soluzione possibile.


 

Questo articolo è tratto dal n. 10 di Left in edicola dal 5 marzo

 

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Dovremo guardare il mondo con molta più gentilezza. Parla Yann Arthus-Bertrand, regista di Human

En Chine, une majorité de la population de ne sait pas nager. Les piscines sont pourtant prises d’assaut quand il fait chaud. Avec 1,357 milliard d’habitants, la Chine est le pays le plus peuplé du monde.

Fotografo, reporter, regista e ambientalista francese, Yann Arthus-Bertrand è noto per le sue spettacolari foto aeree della terra. Ora, nel suo nuovo film Human, si rivolge alle persone che abitano questo mondo: cosa ci rende umani? Perché la guerra e la povertà esistono ancora nel mondo? Perché si lascia il proprio Paese per cercare una vita altrove? Perché ci sono ancora delle disuguaglianze? Yann Arthus-Bertrand non pretende di dare risposte. Paragona il suo lavoro a quello di un giornalista. «Viviamo in un mondo difficile e complicato», racconta, «il mio lavoro è di fare un ponte fra quello che mi raccontano le persone e il pubblico che guarderà». Ed è questa la forza e l’originalità dell’opera: essere andati a cercare risposte nei racconti di donne, uomini e bambini in più di 60 Paesi nel mondo. «Quello che la gente mi ha dato è formidabile», è stupito. Più di duemila volti e voci che una dopo l’altra raccontano frammenti della loro storia, davanti allo stesso sfondo nero. La voce narrante non c’è, solo musica e immagini aeree mozzaffiato a intervallare le interviste, come una donna a cavallo che corre fra i campi e le montagne della Mongolia. Il film, presentato fuori concorso a Venezia nel settembre scorso e proiettato alle Nazioni Unite alla presenza di Ban Ki Moon, arriva in Italia in questi giorni. E Left ha intervistato il suo artefice.

Lei è famoso per essere un ambientalista militante. Perché un ambientalista si interessa dell’uomo?
Oggi quando si parla di ecologia, si parla dell’uomo, di cambiare modello di civilizzazione. Come dice l’ex presidente uruguayano José Mujica, si tratta di fermare questa corsa alla crescita. È questo che uccide il pianeta. Io non credo nella rivoluzione politica: i politici fanno il loro lavoro ma non è sufficiente. E non credo nella rivoluzione scientifica, perché non è l’eolico né i pannelli solari che prenderanno il posto del petrolio che consumiamo. Non credo nemmeno alla rivoluzione economica: siamo all’interno di un modo di pensare capitalistico senza etica. Per questo parlo di una rivoluzione spirituale, nel senso di etica e morale. È nel cuore della gente che dobbiamo andare a cercare. C’è un dato che è nuovo nella storia dell’umanità: il futuro è incerto. Siamo davanti a problemi difficili da risolvere che nessun Paese può affrontare da solo: cambiamenti climatici, crisi economiche, rifugiati, crescita della popolazione. Il problema sarà: come vivere insieme. Dovremo guardare il mondo con meno scetticismo e molta più gentilezza. È utopico, forse, ma in fin dei conti il mio film parla di questo, e la soluzione potrebbe essere questa.

L’idea del film le è venuta dopo un incontro con un contadino del Mali che le ha mostrato tutta la sua umanità. Il film però comincia con il racconto di un uomo condannato all’ergastolo per aver ucciso moglie e figlio. Secondo lei, come si perde l’umanità e come la si ritrova?
L’umanità non si perde. Può essere positiva o negativa. Siamo capaci dell’attentato al Bataclan e allo stesso tempo di un’onda di empatia dal mondo intero per le vittime. Questa è una contraddizione profonda all’interno della quale viviamo tutti. Io vivo nel Paese dei diritti dell’uomo, con delle Ong fantastiche, Medici senza frontiere, Azione contro la fame, eccetera, e però il mio Paese è il terzo venditore di armi nel mondo.


 

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La sinistra della speranza

“Sono di sinistra come lei” mi dice un signore dai capelli bianchi, presumibilmente un pensionato. “Sì, sono stato comunista, prosegue, ma noi di sinistra saremo il 6-7 per cento dell’elettorato e senza allearci, senza fare compromessi, non potremo mai contare”. È un’opinione più diffusa in Italia di quanto si creda. Un pregiudizio che consente di trasformare in una vittoria mediatica il compromesso, con Alfano, Verdini e imposizione della fiducia, sulle unioni civili. Che permette al governo di strombazzare una ripresina dello zero virgola, oscurando gli ultimi dati sulla deflazione o il fatto che, anche dove il Pil è cresciuto in modo più netto, in Irlanda e in Spagna, la sinistra e vasti strati sociali non vogliano rassegnarsi alla crescita del precariato e alla progressiva erosione del ceto medio.

Anche in Europa comincia a farsi strada l’idea che “il caso Italia” dimostrerebbe l’impossibilità per la sinistra di farsi maggioranza, se non rinunciando alle sue idee. Così in Spagna Sanchez ha scelto di allearsi con Ciudadanos, movimento che vuole rinnovare la destra, prima di chiedere a Podemos di sostenere il suo tentativo di governo. E in Francia il ministro dell’Economia, Emmanuel Macron non nasconde il suo disagio nei confronti di un presidente, Hollande, che Marc Lazar accomuna nel giudizio negativo (ancora troppo socialdemocratico e perciò perdente) all’italiano Bersani. Non siamo ancora all’imitazione di un “modello italiano” né mi pare che i legislatori delle democrazie europee abbiano già deciso di imitare l’Italicum, per emancipare un centro, colorato di sinistra, dal “ricatto” delle sinistre, ma è vero che il segretario del Pd trova interlocutori anche oltre confine.

Il punto è che non è vero. Non c’è una maledizione storica per la quale la sinistra non possa riunire intorno a sé una maggioranza ampia, non possa provocare entusiasmi e suscitare speranze fra giovani, pensionati, artigiani, scienziati, professionisti, imprenditori persino. Se in Italia non è accaduto è perché troppo forte è rimasto il retaggio della doppiezza comunista. Il Pci era partito nazionale, pronto al dialogo e al compromesso, ma al tempo stesso forza di osservanza sovietica, che dava al termine “sinistra” un significato escatologico, con la promessa di una nuova Gerusalemme il cui spazio, purtroppo, era occupato dalla dittatura staliniana, poi dalla costruzione del muro a Berlino, infine dai carri armati a Praga. Così certo “noi di sinistra” restiamo pochi e pazzi e dobbiamo camuffarci.

Left ha un’altra idea di sinistra. Per noi è di sinistra credere nella ricerca scientifica, su cui nessun governo – neppure l’attuale, come dimostra Greco – ha mai investito davvero. Per noi è significa battersi per l’Europa, cedendole parte della nostra sovranità in cambio di una politica fiscale unitaria e solidale. È di sinistra trasformare l’immigrazione – che è una costante della Storia umana – da motivo di paura in risorsa per il futuro. È promuovere una conferenza nazionale, con operai e imprenditori, per porre un semplice interrogativo: quale politica industriale serva al Paese, cosa produrre, con che impegno per l’innovazione. Sinistra è battersi per i diritti e per le tutele sociali, perché senza diritti e senza tutele l’Europa non sarebbe l’Europa. Non potrebbe andar fiera della sua radicale contrapposizione alla barbarie wahabita e salafita. Né troveremmo la forza per combattere il terrorismo senza diventare simili ai terroristi. Sinistra è pensare a nuovi consumi collettivi e a beni comuni, tema anticipato trenta anni fa da Berlinguer e che ora fa capolino negli ambienti meno incolti o più innovativi dello stesso capitalismo. È dare una possibilità ai giovani e non trattare esodati e pensionati come prodotti di scarto o gregge da mungere. Sinistra è anche proporre “molta più gentilezza” come fa Yann Arthus-Bertrand nella storia di copertina. Perché mai questa sinistra non potrebbe vincere le elezioni?

Questo editoriale lo trovi sul n. 10 di Left in edicola dal 5 marzo

 

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